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Aleksandra Kollontaj e Lenin

A due anni dalla Rivoluzione d’ottobre nella Pravda del 6 novembre, Lenin scrisse che: «la condizione della donna pone particolarmente in evidenza la diversità tra la democrazia borghese e quella socialista» (Il potere sovietico e la situazione della donna, in Opere complete, vol. 30). Già a partire dal 1918, infatti, l’URSS aveva approvato una legislazione molto avanzata, pure se non si poteva evidentemente considerare completo il processo per l’emancipazione delle donne, tanto che Lenin in quello stesso articolo invitava tutti a «strappare la maschera […] Chiedete: Eguaglianza di quale sesso con quale sesso?» (ivi). Anche la partecipazione alle elezioni dei soviet (come elette) non era ancora sufficiente a garantire l’applicazione completa dell’unico principio della libertà secondo il quale: «l’eguaglianza di fronte alla legge non è ancora l’eguaglianza nella vita» (Alle operaie, in Opere complete, vol. 30). L’impossibilità di separare la condizione materiale da quella formale, il lavoro produttivo dalle catene di quello riproduttivo (la “schiavitù domestica”) era consapevolezza presente in Lenin, attento lettore dell’emancipazionista Origine della famiglia di Engels, e più in generale nel processo rivoluzionario che dal Febbraio all’Ottobre aveva ininterrottamente viste protagoniste le donne.

L’aneddoto del mazzo di fiori bagnato consegnato, con relativo bacio e scena di imbarazzo, da Kollontaj a Lenin al suo arrivo in territorio russo a Beloostrov o alla stazione di Finlandia a Vyborg adorna un contenuto essenziale: che Aleksandra Michàjlovna era stata in quei giorni cruciali quasi l’unica bolscevica (insieme a Šljápnikov) ad appoggiare le Tesi di Aprile. E che, malgrado tutte le difficoltà del repentino passaggio di potere e della guerra civile, era riuscita come Commissaria del popolo per l’Assistenza e la Sanità (prima donna-ministra in assoluto) a introdurre, non senza resistenze, il diritto di voto, gli asili-nido, il divorzio e la legalizzazione dell’aborto. Nel 1919, sempre insieme a Šljápnikov, aveva costituito il gruppo dell’Opposizione operaia ed era stata esclusa dal Comitato Centrale bolscevico. Dirottata nella carriera diplomatica, lontana da Mosca, era riuscita a sopravvivere a tutte le purghe staliniane e morirà nel suo letto nel 1952.

Il suo programma non fu soltanto di tipo emancipazionista, radicale quasi fino all’utopia (parità di diritti civili e politici, sviluppo dei servizi sociali collettivi per la liberazione dal “triplo” lavoro cui sono soggette le donne, ecc.) ma si proponeva di creare in tal modo una vita liberata sul piano pratico e affettivo, criticando lo stesso istituto monogamico (l’equivalente sociale e sessuale dell’eternizzazione della proprietà privata in economia) e il principio di fedeltà e dedizione femminile come costanti psicologiche invariabili di genere. Nel 1923 scrisse che serviva piuttosto «una rieducazione fondamentale della nostra psicologia» per risolvere «la crisi sessuale» (Amore, matrimonio, famiglia e comunismo). La liberazione sessuale doveva essere infatti parte del processo rivoluzionario: era impossibile pensare una rivoluzione completa senza una trasformazione radicale dei rapporti nella vita quotidiana.

La sua proposta – di affiancare l’”amore-gioco” alle altre forme di relazione codificata nella legge e nel costume – incontrò resistenze crescenti nel patriarcalismo bolscevico e nei valori “contadini” rilanciati dalla Nep, così che le proposte di Kollontaj restarono utopiche e le stesse soluzioni legislative emancipazioniste ressero soltanto per l’appoggio di Lenin, finché fu vivo. Le sue proposte più innovative invece, come la separazione tra l’intensità erotica e i rapporti sessuali proprietari, la negazione del “fattore di subordinazione nel matrimonio” o l’idea di un amore libero saranno lasciti preziosi per il futuro femminismo.