approfondimenti

ITALIA

Aborto, autogestione e il festival di Obiezione Respinta

Dal 9 all’11 maggio si terrà a Pisa, presso lo spazio sociale Exploit e la Casa della donna, la prima iniziativa dedicata all’interruzione volontaria di gravidanza a partire dall’autogestione. Una pratica dal basso per riappropriarsi di corpi e diritti

I giorni del 9, 10 e 11 maggio a Pisa, negli spazi di Exploit e della Casa della donna, si terrà “Facciamo da noi – un festival sull’aborto”. Si tratta del primo festival organizzato dalla nostra collettiva, Obiezione Respinta (OBRES). Siamo un gruppo nato dal basso e inizialmente ci siamo concentratə sulla creazione di una piattaforma nazionale che fornisce una mappatura di ospedali, consultori e farmacie a partire dalle testimonianze delle e degli utenti. Nel corso degli anni il nostro progetto è cresciuto, così come il lavoro per la costruzione di nuove pratiche per garantire un aborto libero, sicuro, gratuito per tuttə, a partire dall’accompagnamento all’ivg, una esperienza di cura collettiva e radicale.

Durante la tre giorni del festival ci saranno discussioni, assemblee, laboratori e autoformazioni che coinvolgeranno diversi gruppi di attivistə che si impegnano quotidianamente per creare nuovi immaginari, rappresentazioni e pratiche di mutualismo legate all’IVG. Molte saranno le organizzazioni internazionali al centro di alcune iniziative, tra cui: Palestinian Feminist Collective (Nord America), Shout Your Abortion (USA), Socorristas en Red (Argentina), Planning Familial (Francia) e Adiyah Collective (Regno Unito). Altrettante saranno le realtà che si occupano di aborto sul territorio nazionale.

Uno dei temi al centro del Festival, come emerge sin dal titolo “Facciamo da noi”, riguarda il rapporto tra aborto e autogestione.

Da una parte questa associazione può fare paura e rimandare a immaginari spaventosi, spesso associati all’aborto clandestino; all’aborto come gesto disperato, solitario, pericoloso. Secondo questa rappresentazione abortire in modo sicuro significa necessariamente abortire dentro strutture sanitarie riconosciute, come l’ospedale, e sotto la responsabilità di unǝ medicǝ.

Dall’altra parte, l’esempio di altri paesi, come la Francia, la Polonia, l’Argentina, il Brasile, il Belgio o il Canada, ci insegnano come l’aborto possa benissimo essere praticato in degli spazi demedicalizzati con il supporto di personale non medico.

È possibile spingersi anche oltre: sognare di poter abortire a casa con le persone che scegliamo. La storia e l’attualità di questa pratica ci dimostrano quanto sia valida e sicura. Questo è il nostro orizzonte di desiderio e crediamo di poterlo raggiungere solo insieme.

Facciamo da noi. Genealogia dell’aborto autogestito.

Negli anni Settanta, quando in Italia l’aborto era considerato un delitto contro la sanità e l’integrità della stirpe, alcuni collettivi si sono organizzati intorno alla pratica dell’aborto clandestino. All’epoca, la tecnica utilizzata era quella dell’isterosuzione: il contenuto dell’utero veniva svuotato con una cannula grazie a un sistema di aspirazione. Questo sistema molto semplice poteva essere usato anche da persone che non avevano una formazione medica.

In Francia, i gruppi Mouvement pour la liberté de l’avortement et de la contraception (MLAC) hanno portato avanti questa pratica profana per anni e hanno ispirato alcune realtà italiane come il Comitato Romano per la Liberalizzazione dell’Aborto e della Contraccezione (CRAC). Più che sopperire a una carenza dello Stato, si trattava di un vero e proprio progetto politico di autogestione collettiva dell’aborto, in un’ottica di riappropriazione dell’esperienza abortiva e di contestazione del controllo medico e statale sui corpi gestanti. Invece, quando nel 1978 la legge 194 è stata votata, lo Stato ha scelto di limitare l’accesso all’aborto al quadro ospedaliero e medico.

Più che una necessità sanitaria, questa decisione politica è stata un modo per mantenere il controllo sui comportamenti riproduttivi, concentrandolo nelle mani dei medici. 

L’avvento della tecnica dell’aborto farmacologico ha però ridisegnato in modo profondo le modalità dell’aborto autogestito e i rapporti di potere fra Stato, medici e persone gestanti. Negli anni Ottanta, le donne brasiliane hanno scoperto le proprietà abortive del Misoprostolo, un farmaco che era allora presente sul mercato come trattamento contro l’ulcera gastrica sotto il nome di Cytotec. Hanno iniziato a farne uso per abortire fuori da ogni contesto medico o legale, e questa conoscenza pratica si è presto diffusa in tutta l’America Latina. Dagli anni Duemila in poi, tantissimi collettivi femministi e transfemministi sono nati dal basso per sostenere le persone durante le proprie ivg, aiutandole a reperire le pillole abortive, diffondendo informazioni sicure sulle modalità di aborto, e accompagnandole durante il ciclo di assunzione dei farmaci. 

Aborto farmacologico autogestito: una pratica di autonomia

Abortire farmacologicamente e in autogestione significa rivendicare in modo autonomo, consapevole e radicale un sapere che torna nelle mani di chi decide di abortire, fuoriuscendo dalle gabbie dell’obbligo di medicalizzazione.

Il protocollo più diffuso (e ormai anche raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – OMS) prevede l’uso combinato di Mifepristone e Misoprostolo: il primo farmaco (200 mg) si assume per bloccare il progesterone, l’ormone che sostiene la gravidanza; il secondo (800 mcg), assunto dopo 24-48 ore, provoca le contrazioni uterine che permettono l’espulsione. Qualora il Mifepristone non fosse disponibile – e purtroppo succede, spesso per ostacoli politici e legali – è comunque possibile abortire solo con il Misoprostolo (in Italia venduto in farmacia come Cytotec), con assunzioni ripetute ogni 3 ore. Anche questa è un’alternativa sicura.

Secondo l’OMS, l’aborto farmacologico può essere autogestito fino alla dodicesima settimana di gravidanza, a patto che chi lo intraprende abbia accesso a informazioni affidabili e possa riconoscere segnali di allarme (febbre, sanguinamenti troppo abbondanti, dolore troppo forte), rivolgendosi a strutture sanitarie solo se necessario. Il tasso di successo della combinazione dei due farmaci supera il 95%, e quello di complicazioni è inferiore all’1%. Crampi, nausea, febbre leggera, sanguinamento temporaneo non sono sintomi di una catastrofe, ma segni di un processo naturale, molto simile a un aborto spontaneo. Sono parte di un’esperienza che può essere vissuta con lucidità, con cura, e con il supporto di reti solidali (e di antidolorifici!).

Parlare di aborto autogestito non significa solo parlare di farmaci. Piuttosto, vuol dire aprire un immaginario che sfida il patriarcato medico, smaschera la retorica del “per il tuo bene” usata per escludere le persone gestanti da ogni processo decisionale; fornisce strumenti di liberazione e autodeterminazione.

In un contesto in cui l’accesso all’aborto è sempre più ostacolato da obiettori, burocrazia, stigma e leggi punitive, sapere che può esistere un’altra via è già una forma di resistenza.

Per questo, da anni, reti femministe e transfemministe in tutto il mondo costruiscono spazi dove questa conoscenza circola attraverso la condivisione e si moltiplica. In questi contesti sono spesso diffusi materiali informativi e lǝ attivistǝ si organizzano per accompagnare le persone nel percorso, per stare loro accanto. Rivendicano l’aborto come esperienza che appartiene a chi lo vive, non a chi lo autorizza.

Anche dopo le 12 settimane, l’aborto farmacologico può essere una possibilità. In questi casi, l’OMS raccomanda la supervisione di personale sanitario, ma ciò non entra necessariamente in contrasto con approcci basati sulla cura reciproca e sul rispetto dell’autonomia. L’importante è che la persona sia messa in condizione di scegliere.

E in Italia?

Le linee di indirizzo per l’uso della Ru486 (Mifepristone) del Ministero della Salute del 2020 aprono a una deospedalizzazione dell’aborto, che può avvenire anche in modalità ambulatoriale o in consultorio. Tuttavia, fino a oggi le uniche regioni ad avere recepito queste raccomandazioni sono il Lazio e l’Emilia-Romagna, in proporzioni molto variabili. Nel Lazio, alcuni consultori hanno adottato un protocollo con un ingresso unico e l’assunzione del secondo farmaco a casa. Ultimamente, anche l’Emilia-Romagna ha emanato una delibera che prevede la possibilità di ricorrere all’aborto farmacologico a domicilio. Ad ogni modo, eccetto per queste iniziative isolate, l’aborto in Italia rimane altamente medicalizzato e ospedalizzato. Inoltre, abortire fuori dallo schema previsto dalla legge può costare fino a 10.000 euro di multa.

In un paese in cui il diritto all’aborto è ancora ostacolato da una legge oppressiva e burocrazie paralizzanti, in cui 6 volte su 10 potresti incontrare proprio quel medico obiettore che ti farà passare un inferno perché hai deciso di interrompere la tuagravidanza, scegliere di autogestire l’interruzione di gravidanza significa riprendersi il potere di decidere, di celebrare la propria libertà e di riconoscere l’aborto come una delle tante esperienze che fanno parte della nostra vita sessuale e riproduttiva.

Un’esperienza che può essere vissuta con consapevolezza, cura e, perché no, con gioia collettiva. Farlo a casa sottrae l’esperienza dell’aborto alla medicalizzazione forzata e alla stigmatizzazione sociale, restituendola a chi la vive, nel proprio spazio, con le proprie modalità e con il supporto di reti solidali. 

Queste rivendicazioni saranno al centro del nostro festival, perché abortire può essere una festa! Analizzeremo le battaglie portate avanti in altri paesi sul fronte della salute e della giustizia riproduttiva, per confrontare strategie, costruire alleanze e rafforzare le pratiche di solidarietà transnazionale. L’aborto con le pillole non è solo una procedura medica: è un sapere che circola sottotraccia, nei gruppi, nei consultori autogestiti, nei collettivi, e che va custodito e rilanciato, contro ogni tentativo di cancellazione o controllo. L’aborto, lo facciamo da noi!

Immagine di copertina di Giulia Tommassetti Pellegrini, corteo femminista, Ancona, 2023

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