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Abolizione della proprietà privata

Cosa significa oggi abolizione della proprietà privata? Per pensare questo concetto -che per Engels e Marx costituiva la cifra della società comunista- occorre confrontarsi con i nuovi regimi di “enclosures” e di appropriazione che si sono estesi fino a coinvolgere la realtà digitale e gli spazi urbani. In questo contesto rivendicare l’inappropriabilità dei “commons” significa mettere in crisi le nuove forme di proprietà

«Il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, ma, piuttosto, l’abolizione della proprietà borghese». Marx ed Engels ci invitano così, in via preliminare, alla distinzione storica e concettuale della proprietà privata borghese dalle altre forme di proprietà. Tali forme, si noti bene, non si collocano – necessariamente – su un piano di successione temporale, essendo possibile una loro compresenza in una medesima epoca storica.

Pensiamo, ad esempio, allo scritto di Marx, pubblicato nel 1842 sulla Gazzetta Renana e dedicato alla critica della legge sui furti di legna. La repressione di un diritto d’uso comune in capo alle popolazioni dei «nullatenenti», contro cui Marx si scagliava, era l’indice di una differenziazione interna alla formazione giuridica: alla proprietà feudale, ancora vigente nella Confederazione tedesca, ad eccezione della Renania, si opponeva il regime di legalità borghese, sancito nel Codice napoleonico del 1804 come diritto al godimento illimitato del soggetto sulla cosa, fino al suo abuso.

Non basta però ricostruire il pluralismo delle forme proprietarie – potremmo dire, la variazione nello spazio e nel tempo della serie uso-possesso-proprietà. Il Manifesto individua una tendenza e una forma egemone, la proprietà borghese, e ne qualifica lo statuto, formale e materiale, in quanto «espressione della produzione e dell’appropriazione dei prodotti basata sugli antagonismi di classe».

Eccoci di fronte a ciò che, più tardi nel tempo, Carl Schmitt designerà come i tre significati del nomos: la proprietà – la divisione giuridica del «mio» e del «tuo» – è legata a doppio filo al concetto di appropriazione, da un lato, e di produzione, dall’altro. A differenza di Schmitt, però, qui non si tratta di rinvenire una presunta struttura originaria del diritto o di stabilire tra le tre istanze un mero «ordine di successione». Si tratta, invece, di indagarne l’articolazione, come presupposto e come risultato dell’antagonismo tra le classi. Per questa ragione, proprietà e divisione sociale del lavoro sono termini identici, come Marx ed Engels avevano affermato nell’Ideologia tedesca.

La definizione giuridica della proprietà risulta perciò inseparabile dalla ricostruzione della sua genesi. In ogni formazione sociale, in ogni modo di produzione, è cruciale la ricerca della corrispondenza, o della non corrispondenza, tra le forze produttive e i rapporti sociali di produzione. Così, la proprietà da legge eterna si fa rapporto sociale, o più precisamente rapporto sociale di produzione. Tale rapporto ha una particolare connotazione: esso determina una separazione.

Nei Manoscritti economico-filosofici questa separazione si dice estraniazione: il prodotto del lavoro appare all’operaio come un potere estraneo, per il semplice fatto che ciò che l’operaio ha prodotto appartiene a un altro da lui, il capitalista.

È sempre una separazione – del produttore dai suoi mezzi di produzione – a definire le condizioni di possibilità dell’accumulazione capitalistica. La piccola proprietà privata fondata sul lavoro personale viene sostituita dalla proprietà privata capitalistica, fondata sullo sfruttamento del lavoro altrui. Il lavoratore viene così distaccato dalla terra, che va intesa sia come strumento originario di lavoro, sia come suo «laboratorio naturale», sia come serbatoio delle materie prima (si vedano le Forme di produzione precapitalistiche).

Espropriazione dei produttori, appropriazione capitalistica. A questa separazione originaria, che costituisce il «segreto» dell’accumulazione, se ne aggiunge una seconda che si rinnova ogni giorno nel processo di lavoro: l’appropriazione di plusvalore da parte del capitalista.

Tra il Capitale e i Grundrisse, l’abolizione della proprietà borghese equivale a un’appropriazione collettiva: dei mezzi di produzione, del processo produttivo, delle stesse forze produttive. Questa seconda appropriazione – appropriazione reale e materiale della ricchezza sociale – si dà nell’analisi del processo di lavoro e va tenuta distinta dall’appropriazione in senso strettamente giuridico, dall’appropriazione come condizione fenomenica della proprietà privata.[1]

Come si ridefinisce oggi il problema dell’abolizione della proprietà borghese? Come separare, in via conclusiva, la relazione di appropriazione reale dalla relazione di proprietà? Com’è noto, per Marx, lo stesso processo di crescente centralizzazione dei mezzi di produzione e di socializzazione del lavoro, a un certo livello di sviluppo, sarebbe entrato in «contraddizione» con la forma capitalistica. Nell’intreccio di lotta di classe e di ristrutturazione capitalistica, sarebbe suonata l’ora della proprietà privata capitalistica.

Guardando al contesto odierno non sembra che l’ora sia ancora suonata. Di fronte alle modificazioni del modo di produrre e delle soggettività del lavoro vivo, la proprietà, per riprodursi in quanto rapporto, ha dovuto superare sé stessa. Così, alla funzione sociale della proprietà, tipica del welfare state, si sostituisce una variante dispotica del dominio, la proprietà intellettuale, tanto pervasiva quanto aleatoria.

Essa tende a unificare, sotto il segno dell’esclusivismo, le differenti forme di tutela giuridica della creazione e dell’invenzione: il diritto d’autore, il copyright e i brevetti. Il suo affermarsi, a partire dagli anni Ottanta, ha inaugurato il «secondo movimento di enclosures», investendo tanto il settore industriale quanto la ricerca scientifica, per poi estendersi alla privatizzazione del welfare e del vivente.

L’architettura del codice proprietario – nel software, nelle reti sociali, nelle piattaforme, nei processi di dataware – supera la tradizionale mediazione statuale, poiché è dotata di normatività autonoma: Code is law, secondo la celebre formula di Lawrence Lessig. L’internet degli oggetti (internet of things) ci indica come questa forma proprietaria non sia relegabile alla sola sfera dell’immateriale, tendendo a investire l’insieme delle relazioni sociali, nello spazio urbano, nell’organizzazione del processo produttivo, nei rapporti di lavoro, nelle forme di distribuzione e di consumo.

Il programma di abolizione della «proprietà borghese» si ridefinisce e si rinnova oggi a questo livello. Con una precisazione importante: all’abrogazione del regime della proprietà intellettuale vanno fatti corrispondere regimi giuridici di common property fondati sullo stesso grado di autotutela raggiunto dal codice proprietario, regimi che consentano di sfuggire alla trappola delle res nullius, le cose appartenenti «a nessuno», dunque liberamente appropriabili. Appropriazione del comune significa dunque istituzione di regimi di inappropriabilità, al fine di preservare ciò che è prodotto in comune dalla sua espropriazione capitalistica. Esperimenti che già avvengono sul terreno della produzione dei commons urbani e digitali.

 

[1]Si veda su questo punto il saggio fondamentale di Étienne Balibar, Sui concetti fondamentali del materialismo storico, in L. Althusser et al.Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano 1971.