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A vent’anni da Empire

A quasi vent’anni dalla pubblicazione di “Impero” di Hardt e Negri, Elia Zaru ripercorre il dibattito pubblico e teorico sulla globalizzazione che il testo aveva provocato. “La postmodernità di Empire”, edito per Mimesis, permette di valutare, tramite quelle acquisizioni teoriche anche il dibattito sull’attuale ciclo reazionario spaccato tra “globofilia” e “globofobia”

Tra Seattle e Genova. È tra questi due eventi che hanno profondamente segnato i movimenti sociali che Empire vede la luce. Il libro scritto da Toni Negri e Michael Hardt è stato considerato come uno dei fondamenti teorici più importanti di quel movimento globale che a cavallo del millennio si è opposto alla gestione neoliberale della globalizzazione. Anche grazie alle numerose traduzioni, Empire ha avuto una diffusione globale, e la sua pubblicazione ha scatenato un dibattito amplissimo, che ha interessato sia le accademie che i movimenti sociali globali.

Un ventennio dopo la pubblicazione, Elia Zaru ci presenta un saggio La postmodernità di «Empire». Antonio Negri e Michael Hardt nel dibatto internazionale (2000-2018), dato alle stampe poche settimane fa per Mimesis, che raccoglie, in maniera estremamente accurata, il dibattito teorico e politico scatenato dalla diffusione e fortuna globale di Empire. La ricostruzione che Zaru ci consegna tiene conto delle molteplici reazioni suscitate dalle analisi sul nuovo ordine della globalizzazione: Hardt e Negri vengono accusati di essere riformisti al soldo del processo neoliberale, di essere troppo ortodossi, di aver frainteso Marx. L’operazione che Zaru conduce è quella di mostrarci queste ricche letture dal carattere teorico e/o politico, filtrandole in modo intelligente attraverso alcuni aspetti nodali della teoria di Impero. Tre sono i passaggi intorno a cui questo testo si concentra: l’emersione dell’Impero di fronte la crisi del Moderno, le nuove forme di valorizzazione capitalistica e il nuovo soggetto che ne emerge, la moltitudine. In ultimo, Zaru ricostruisce le radici operaiste e della “differenza italiana” presenti dell’opera di Hardt e Negri e il successivo dibattito scaturito nell’Italian Theory.

I due filosofi hanno messo in luce come la nascita dell’Impero indichi il disfacimento del modello moderno e trascendentale di potere. Difatti, l’Impero è caratterizzato dalla realizzazione di un piano immanente che non prevede nessun “outside”, nessuna esteriorità metafisica o territoriale, non esiste un “fuori” dell’Impero. Zaru ci mostra come Negri e Hardt riconoscano la fine della dialettica interno/esterno su cui ha poggiato il concetto moderno di “sovranità”. La crisi della sovranità degli Stati-nazione, così come è stata concepita dall’ordinamento westfaliano, comporta, quindi, il cedere il passo della macchina dello Stato-nazione ad altri dispositivi di governance, più efficaci nell’ordinamento dei meccanismi della produzione, riproduzione e accumulazione di capitale nello spazio globale. La necessità di inaugurare una nuova lettura dell’accumulazione di capitale a livello mondiale, porta i due autori a dichiarare la fine dell’imperialismo dentro l’Impero.  Muovendosi contro una letteratura che sostiene la predominanza degli Stati-nazione come gli attori determinanti nell’accumulazione di capitale su scala mondiale in ragione delle loro pratiche imperialiste, Negri e Hardt decretano la fine dell’imperialismo moderno poiché ritengono che esso, a causa delle sue segmentazioni spaziali, sia divenuto un ostacolo per la circolazione globale di capitale, il quale si muove su un piano trans-statuale. La postmodernità globale è caratterizzata dall’assenza di ogni “outside”  territoriale, l’accumulazione di capitale su scala mondiale non può riprodurre le dinamiche dell’imperialismo descritto da quelle analisi in cui proprio questo “fuori”, oggi venuto meno, è l’oggetto primo della depredazione capitalistica. Ed è seguendo questa considerazione che nasce l’Impero: proprio perché l’imperialismo smette di essere un processo di accumulazione, anzi ne diviene il limite.

Questa trasformazione, sostengono Hardt e Negri, risiede nel cambio di paradigma dell’accumulazione: dentro l’”Impero”: l’accumulazione di capitale si realizza principalmente tramite l’intensività della sussunzione reale del bios– la vita trasformata interamente in lavoro – al capitale, cui si accompagnano processi “originari” di accumulazione che avvengono all’interno del modo di produzione capitalistico e non più fuori da esso. Proprio al ‘laboratorio segreto della produzione’ biopolitica, Zaru dedica il secondo capitolo del suo saggio, facendo emergere come da questa dimensione affiori una nuova natura del lavoro produttivo utilizzando nozioni come “lavoro immateriale” e il concetto marxiano di general intellect. Mostrando come a metà degli anni Settanta il capitale è entrato in una fase prostfordista caratterizzata da un regime di accumulazione flessibile, Hardt e Negri si appropriano del concetto di “capitalismo cognitivo”, che come sostengono Labert e Vercellone definisce «una fase di trasformazione strutturale che modifica le forme della valorizzazione dei capitali e l’organizzazione della produzione e del lavoro. Al centro di questa trasformazione si colloca il crescente ruolo della conoscenza». Certo, questo non significa che la “crisi della legge del valore” metta in soffitta il processo di valorizzazione, ma piuttosto la messa a valore di gesti che generalmente venivano considerati collaterali al lavoro vero e proprio. E soprattutto, ci dicono Negri e Hardt in Impero, la fine della dialettica della modernità non mette fine alla dialettica dello sfruttamento.

Nella loro teoria il nome collettivo che indica l’«insieme degli sfruttati e dei sottomessi» è “moltitudine”. È su questo concetto che Zaru si concentra nella terza parte del suo libro: la moltitudine va compresa come una riflessione che trova le sue radici nella concezione di “composizione di classe”, in rapporto a due figure centrali del marxismo operaista: l’operaio massa e l’operaio sociale. La moltitudine viene ad assumere il ruolo di possibile agente collettivo della rivoluzione, è – in quanto soggetto della produzione e oggetto dello sfruttamento – il contropotere nel contesto dell’Impero. Cosa vuole la moltitudine? Se strategicamente essa punta ad una forma assoluta di democrazia, tatticamente il suo «programma politico» viene definito intorno a tre rivendicazione principali: cittadinanza globale, reddito universale garantito, diritto alla riappropriazione. Ma vi è una quarta figura fondamentale, quella dell’‘esodo’. Essa rappresenta la forma conflittuale della moltitudine, infatti ‘esodo’ significa fuga dello sfruttamento – rifiuto del lavoro, secondo lo schema operaista.

Lo schema operaista e la discussione sulla Italian Theory, questo il tema dell’ultimo capitolo. Zaru mostra come la filosofia di Negri rimane impregnata del “metodo operaista” ed Empire funge da ulteriore rottura con il marxismo ortodosso. Se Tronti ha spostato l’analisi del conflitto capitale-lavoro sulla classe operaia come soggetto autonomo, in Impero Hardt e Negri riorientano il rapporto tra Stati-nazione e capitale globale evidenziando la precedenza di quest’ultimo rispetto alle segmentazioni proprie della sovranità moderna. Il concetto stesso di Impero come nuovo modello di governance va compreso, ci dice Zaru, alla luce della rivoluzione copernicana di Operai e capitale: si tratta di una ristrutturazione del capitale che risponde in questo modo alle lotte praticate dalla moltitudine.

La ricostruzione che Zaru ci presenta non è solo ricca e dettagliata ma ci consegna anche gli strumenti per rileggere l’opera di Negri e Hardt. Riappropriarci del metodo di Empire ci permette, nel ciclo reazionario, diuscire da alcuni blocchi teorici e politici, in particolare dalla dicotomia “globofilia” e “globofobia”. In Empire non si tratta di istituire una contrapposizione tra globale e locale/nazionale, ma di mettere in evidenza come le due dimensioni siano interrelate in un processo in cui l’ordine globale si sta formando non solo all’esterno degli Stati, ma soprattutto al loro interno. Certamente, la crisi della globalizzazione, a partire dal 2008, ha ulteriormente complicato alcune linee interpretative, facendo esplodere fenomeni di sovranismo, populismo e di autoritarismo. Riprendere e riaffermare una “teoria critica della globalizzazione” in grado di analizzare le trasformazioni fondamentali dell’economia globale e della politica, mostrando, così come hanno fatto un ventennio fa Negri e Hardt, di considerare la globalizzazione come un processo dialettico tra elementi anche divergenti, sia oppressivi che emancipatori, evitando – come scrive Zaru – semplificazioni acritiche operate tanto dalla globofilia, quanto dalla globofobia.