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#3 Venezia 79. Quando lo stile divora il film: Athena di Romain Gavras

Arriva in concorso al Festival del cinema di Venezia “Athena”, di Romain Gavras, un tesissimo racconto di guerra nel cuore delle banlieue, schiacciato però da uno stile barocco e ridondante

Il banlieue-war-movie sta diventando quasi un genere a sé, con una fisionomia sempre più precisa e quasi codificata, con i suoi luoghi comuni e i suoi elementi narrativi ricorrenti. Determinante, quindi, è “che cosa farsene” di volta in volta di questo genere, come usarlo e come posizionarsi rispetto a un materiale che, per più di un motivo sociale e politico, è in questi ultimi anni particolarmente incandescente. Per tali ragioni era molto atteso qui al Lido Athena, film griffato Netflix e firmato da Romain Gavras, figlio d’arte e regista dalla mano spettacolare e pesante, che affronta di petto non solo il tema delle tensioni ribollenti nelle periferie francesi, ma anche il divide et impera di certa destra populista e sovranista, che riesce nell’intento di armare fratelli e compagni l’uno contro gli altri.

Materia delicata, insomma, e il risultato, coerentemente con le aspettative, sembra segnato da un paradosso: la sua caratteristica più evidente e seducente, cioè lo stile decisamente up-to-date con cui viene condotta la narrazione, finisce per esserne anche l’elemento più problematico, con una spettacolarizzazione pop della messinscena e una deriva estetizzante che se da un lato trascina nel racconto, dall’altro sembra zavorrare qualsiasi possibile riflessione.

La struttura narrativa è quella della tragedia greca, e certo è tutt’altro che una trovata innovativa, ma in questo caso risulta intelligentemente funzionale al pensiero di fondo, esplicitato nell’ultima sequenza del film dopo essere stato anticipato fin troppe volte, cioè che a “generare” la tragedia e le sue implicazioni morali è l’estrema destra, che crea in questo caso i presupposti perché si scontrino tre fratelli algerini, collocati su fronti opposti: Karim guida la rivolta, Abdel, soldato dell’esercito francese, tenta di sedarla, Moktar tenta di portare avanti le sue attività criminali e di salvaguardare i propri interessi. Tutto in nome del quarto fratello Nadir, ucciso dalla polizia e causa della rivolta.

Se nella costruzione della storia, Athena è l’ennesimo racconto che guarda ad Antigone e Orestea, su quello stilistico, le cose vengono messe in chiaro fin dalla primissima sequenza: dopo che una molotov interrompe una conferenza stampa in cui le autorità promettono di assicurare alla giustizia i poliziotti colpevoli dell’omicidio di un ragazzo algerino, si accende il ritmo indiavolato della regia di Gavras, con la macchina da presa che volteggia nell’aria senza soluzione di continuità. Certamente i lunghissimi piani sequenza, le scene di guerriglia coreografate come fossero mastodontici balletti e la sbalorditiva mobilità della camera esibiscono una padronanza tecnica e linguistica notevole, ma a chi e a che cosa giovano una tale esibizione di bravura e un racconto così urlato? Athena va sempre di sciabola e mai di fioretto, rinuncia alle sfumature e ai chiaroscuri e racconta tutto con il volume sempre al massimo. Il sospetto che alla fine questo tutto-troppo-pieno sia vagamente controproducente è forte, perché la spudorata grevità di questa regia virtuosistica produce alla lunga una sconcertante banalizzazione del contesto e della sua sfaccettata problematicità. Non c’è spazio per la profondità, insomma, tra i luccicanti barocchismi della regia di Gavras, che mostra anche poca fiducia verso il suo spettatore implicito, calcando, sottolineando e spiegando fino alo sfinimento ogni simbolismo e ogni metafora. E così Parigi brucia, ma in bella calligrafia.