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OPINIONI

1871-2021. Il tempo corto e la signora Fortuna: si stampi la leggenda!

L’unicità irripetibile della Comune di Parigi impedisce di considerarla uno stadio, una prova generale di un ciclo ascendente verso realizzazioni più perfette. Essa dimostra invece la possibilità della rottura rivoluzionaria in condizioni molto diverse, che non obbediscono a una logica storicistica o a un determinismo canonico. Può darsi, anzi, che la frammentazione di quei tempi assomigli molto ai nostri. L’occasione è breve e ritorna come la fioritura dei ciliegi della canzone.

Nell’autunno-inverno 1870-1871 si consuma il collasso militare e politico dell’impero di Napoleone III, travolto dalle armate prussiane che, dopo l’armistizio, circondano Parigi. L’assemblea nazionale provvisoria si è rifugiata a Versailles per timore non tanto del nemico quanto del popolo di Parigi, organizzato nei battaglioni della Guardia nazionale che a febbraio si sono costituiti in Federazione, con un Comitato Centrale di delegati che di fatto svuota il potere dei comandanti nominati dal governo e provvede a concentrare l’artiglieria sulle alture di Montmartre e Belleville in previsione dell’entrata dei prussiani o di un colpo di mano di Versailles.

L’idea era che la nazione in armi avrebbe dovuto sostituire l’esercito permanente, allargando a tutta la Francia federata l’esperienza avanzata di Parigi. Il 15 marzo viene eletto un Comitato Centrale di 32 membri che si batte per una «Repubblica democratica e sociale», “la Sociale” del giugno 1848 rediviva. Il 18 marzo, dopo altri tentativi abortiti, il governo riprova a sequestrare i cannoni, neutralizza le poche guardie nazionali di Montmartre e comincia a trascinarli giù.

Al suono delle campane, donne e bambini si arrampicano sulla collina – in prima fila, armata, Louise Michel – seguiti dal battaglione di quartiere della Guardia e il generale Lecomte, incaricato dello sgombero, dà ordine di sparare, ma i soldati non obbediscono, si ammutinano e lo arrestano. In serata lui e il generale Clément-Thomas, vecchio arnese della repressione del giugno 1848 ed ex-comandante della Guardia, sono fucilati.

 

Per ordine del Comitato Centrale vengono occupati i municipi, le caserme e gli uffici governativi e sono ovunque erette barricate, mentre Thiers e il suo governo fuggono a Versailles.

 

Nondimeno i rivoltosi non sfruttano il successo inseguendo le truppe e i ministri in fuga e occupando Versailles: inizia qui una tattica solo difensiva che si rivelerà anche in seguito disastrosa, rispecchiando in positivo la spontaneità del moto e in negativo la sua disorganizzazione. Il Comitato Centrale, inoltre, invece di prendere in mano il potere, preferisce convocare elezioni municipali a suffragio universale per il 26 marzo definendo un programma sommario, che comprende l’abolizione della prefettura di polizia e dell’esercito permanente e auspica la Federazione con le Communes che stanno sorgendo in altre città.

Nel nuovo consiglio municipale sono assai presenti operai e artigiani, politicamente vi è una maggioranza di blanquisti e proudhoniani, compresi una ventina di aderenti all’Internazionale; il resto sono anarchici, neo-giacobini e senza partito.

Si decide che tutti gli eletti siano revocabili in qualsiasi momento, il potere ministeriale è distribuito in dieci commissioni consiliari, sopprimendo la divisione fra legislativo ed esecutivo, e si adottano importanti misure sociali: proroga degli sfratti, restituzione dei pegni, sospensione degli affitti di case e botteghe per tre trimestri, moratoria per debiti e cambiali scadute, fissazione degli stipendi per i funzionari al livello dei salari degli operai qualificati, requisizione degli alloggi sfitti, assegnati agli orfani e vedove di guerra, senza distinzione fra mogli legittime e illegittime, e poi alle vittime dei bombardamenti.

 

Vengono deliberate la separazione fra Stato e Chiesa e la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, la chiusura delle case di tolleranza, l’assegnazione delle fabbriche inattive a cooperative operaie, il divieto del lavoro notturno, sono interdette multe e trattenute sui salari.

 

Non venne invece stabilita la giornata lavorativa di otto ore, pur richiesta dai socialisti, tanto meno fu espropriata la Banca di Francia, cui ci si limitò a imporre prestiti forzosi per il pagamento delle spese municipali, rinunciando a un intervento sostanziale sulla finanza e perfino a un’efficacia arma di ricatto nei confronti del governo, il cui oro era depositato nell’istituto centrale. A maggio, quando ormai i versagliesi erano penetrati nel cuore della città, vennero adottati ulteriori provvedimenti per l’istruzione popolare gratuita obbligatoria e laica sin dall’asilo, la riforma dell’insegnamento con stipendi decorosi per i docenti.

Fra i numerosi interventi di organizzazione e promozione delle arti fu decretata ed eseguita, a cura di Gustave Courbet, la demolizione della colonna Vendôme. Era l’esordio della cancel culture e un proclama di internazionalismo a spese di un monumento di barbarie militarista e di tracotanza dei vincitori.

L’11 aprile viene fondata l’Unione delle donne per la difesa di Parigi e la cura dei feriti – una delle più efficaci branche operative comunarde. I primi spunti ecologici saranno sviluppati subito dopo da esuli o simpatizzanti della Commune quali Élisée Reclus, Pëtr Kropotkin e William Morris – che voleva sostituire la statua di Nelson a Trafalgar Square con un orto di albicocchi.

Un profluvio di decreti, desideri, appagamenti – tanto che si è parlato di un luxe communal[1], l’arte e l’educazione al servizio delle masse popolari, che metteva in pratica il fitto tessuto di proposte e discussioni avviato già negli ultimi anni del Secondo Impero nei club socialisti e democratici della Capitale.

 

La frenetica attività legislativa – frenata dalle ristrettezze finanziarie e dall’inspiegabile riluttanza a utilizzare le risorse della Banca di Francia – si urtò ben presto con la necessità di contrastare la controffensiva di Versailles, con i limiti di una Guardia nazionale non professionale e per di più gestita in modo troppo decentralizzato.

 

Le truppe del sanguinario marchese de Galliffet si infiltrarono nel mese di aprile nella cintura difensiva di Parigi, ben presto rinforzate dalla liberazione dei prigionieri di guerra per l’accordo controrivoluzionario fra Thiers e Bismarck; dal 22 maggio entrarono in Parigi massacrando indiscriminatamente i Federati, uomini e donne, combattenti e non.

Durante la Semaine sanglante (22-28 maggio) furono fucilati fra i 20 e i 30.000 comunardi (le ultime esecuzioni avvennero nel 1874) e almeno 20.000 furono incarcerati o deportati in Oceania. Con l’occupazione di Belleville e gli eccidi nel cimitero del Père-Lachaise finiscono “l’assalto al cielo” proletario e il grande terrore della borghesia francese e mondiale.

 

La Commune era durata 72 giorni. Dopo la repressione fu rialzata la colonna Vendôme e fu edificata la basilica espiatoria del Sacré-Coeur sul ribelle Montmartre[2].

 

Una sola volta mi capitò di scrivere sull’”Unità”  – editoriale in prima pagina, 1961, probabilmente il 18 marzo visto che era dedicato all’anniversario della Comune di Parigi, e i dirigenti di allora volevano celebrare l’incontro fra la tradizione storica e la nuova generazione del luglio 1960. Risposi con l’entusiasmo di chi aveva partecipato a una lotta quasi vincente e sperava fondatamente in un successo gagliardo durante la propria vita. Entusiasmo incauto ma non transitorio e in tempi assai più grigi lo raccomando ai miei più recenti compagni di strada, adesso che quel mondo è preistoria illacrimabile.

Non per devozione o razionalità, a ogni trasferta parigina, mi reco al Mur des Fédérés del Père-Lachaise o ritorno all’incrocio di rue des Pyrénées e rue de Ménilmontant o a rue Ramponeau angolo rue de Tourtille dove, secondo Lissagaray, spararono dall’ultima barricata. Non è turismo storico (anche se a Belleville si mangia bene e pure, dall’altra parte della Senna, alla Butte aux Cailles, dove i comunardi all’inizio ebbero la meglio) ma qualcosa che travalica il mito, pur attraversandolo.

Visito la testimonianza materiale della non-contemporaneità dei livelli di una contraddizione storica. All’opposto della sezione d’essenza hegeliana, per dirla in gergo, una struttura complessa a dominante si muove in direzioni diverse e il momento economico può non essere sempre quello determinante in ultima istanza. La causalità strutturale, in cui non c’è una causa separata dall’insieme dei suoi effetti, consente l’emergere di discontinuità sistemiche, l’interruzione di un corso obbligato degli eventi per irruzione di una singolarità universale.

 

Il’ja Efimovič Repin, Commemorazione della Comune di Parigi

 

L’ideologia, che è il tessuto connettivo della società borghese, interpella i soggetti omologandoli ai fini della propria riproduzione, ma è sempre possibile che un qualche incontro aleatorio generi un soggetto non assoggettato, il partito rivoluzionario o, nel caso della Commune, una raccolta di mauvais sujets refrattari alle regole del gioco.

 

Una “cattiva” soggettivazione produce antagonismo e lotta di classe vincente.

 

In altre parole: la rivoluzione era impossibile, con quegli equilibri di forze e a quello stadio di sviluppo della borghesia francese ed europea, così come, a maggior ragione, lo è con la composizione di classe e nella costellazione geopolitica attuale. Eppure fu fatta o meglio si fece, fu schiacciata e rispuntò ostinata, di nuovo con esiti negativi in Spagna o con successi che alla lunga produssero effetti negativi imprevisti, in Russia, in Vietnam, a Cuba, in Cina – dove nel gennaio-febbraio 1967, all’apice della Rivoluzione Culturale, fu brevemente istituita e sconfessata la Comune popolare di Shanghai.

Il pellegrinaggio non si volge a un mito consolatorio ma alla possibilità dell’impossibile, all’attualità dell’intempestivo, al semplice che è difficile da farsi. Al futuro che si condensa nell’istantaneo e subito si scioglie in altro. E oggi questa scommessa sembra affidata a qualche movimento di mauvais sujets – come nella Parigi del 1871 – più che alla forma-partito che così a lungo ha tenuto la scena ma al momento non occupa più il cartellone.

 

Uno stimolo a riflettere sulla ricorrente conversione di un’avanguardia in gruppo-assoggettato per sclerosi del processo rivoluzionario.

 

Specialmente in una congiuntura che si avvicina più a quella della I Internazionale, che preparò e in parte diresse la Commune parigina, che a quella della III Internazionale, scaturita dalle giornate di Pietrogrado 1917.

Nel 1870-1871 la grande maggioranza degli artigiani e salariati precari parigini passava più tempo a cercar lavoro che a lavorare. Dominavano le attività informali e mal pagate, il proletariato si dibatteva al limite della sussistenza e doveva ricorrere al mutuo soccorso per sopravvivere. Vi ricorda qualcosa? La generazione presente non è più prossima a quelle condizioni che ai privilegi della generazione keynesiana dei padri? E il movimento operaio non sta più in una fase Bourses du Travail e IWW che nell’epoca dei grandi sindacati organizzati, cinghia di trasmissione dei partiti riformisti o rivoluzionari?

 

 

72 giorni di Commune.

Narra una leggenda che a fine dicembre 1917, all’alba del settantatreesimo giorno dalla presa del Palazzo d’Inverno, Lenin ballasse per il sorpasso sulla neve di Pietrogrado – niente ciliegi intorno. La Rivoluzione aveva tenuto un giorno di più, aveva fatto presa come il ghiaccio sulla Nevà, sulla Mòjka, sulla Fontanka, sul canale Griboedov.
Lenin ballava a ragione – si stampi la leggenda!

Tuttavia è un errore costruirsi un’immagine di storia stadiale, per cui i moti falliti – la congiura di Babeuf 1797, i moti di Lione 1831 e 1834, il giugno 1848, la Commune 1871, il 1905 a San Pietroburgo – siano tappe preparatorie dell’ottobre 1917[3]. La storia non procede così e ogni momento rivoluzionario ha la sua logica ed eredi imprevisti. Chi lo disconosce subisce la costruzione ideologica dei successori. Vale a dire, una cattiva leggenda.

Non è illegittimo, perciò, costruire un’altra linea genealogica, collegando la Commune allo spontaneismo libertario del 1968, del 2011 o del 2020, indignati, BLM e lavori in corso[4]. La scomoda scommessa è come agganciare la rivoluzione a una crisi senza passare dalla congiuntura bellica, dello scontro fra potenze imperialistiche – che aveva scatenato le insorgenze del 1871, 1905 e 1917, condizionandone pesantemente sia le sconfitte che le vittorie.

 

Seize the time – lo slogan delle Black Panthers. Brevità dell’arco di tempo in cui si offre e si afferra l’occasione, la Fortuna da cogliere o da perdere, in cui il miracolo dell’incontro congiunturale fa presa o si dissolve, clinamen che precipita in un senso o nell’altro…

 

No, non sto citando Lucrezio, Machiavelli o Althusser, bensì una canzone d’amore[5], scritta nel 1866 da J.-B. Clément, musica di A. Renard, e riadattata dallo stesso autore all’olocausto della Commune sulle colline in fiore di Belleville a fine maggio 1871: corto è il tempo che possiamo cogliere le ciliegie e appoggiarle a coppie sulle orecchie, ciliegie color sangue, ogni volta che le rivedo ricordo come era sbocciato l’amore, come era divampata la rivolta.

È una piaga aperta rimembrare a primavera amori perduti e rivoluzioni fallite, anche se dame Fortune al momento mi arride, ma la vita continua e voglio tener fermo nel cuore quel dolore e quella speranza[6].

Una storia testarda e sventurata, perfetta per confortare i comunisti mai-una-gioia e i sovversivi sfigati di ogni risma. Noi zecche, insomma.

Nel sentimentalismo della canzone, come nel Grand soleil d’amour chargé alla cui luce riflessa sulle mitragliatrici sono impallidite le meravigliose mani di Jeanne-Marie per l’adolescente Rimbaud[7], si festeggia quella potenza del desiderio che move il sole e l’altre stelle nel cielo cristiano e fonde intelletto potenziale e intelletto agente in quello laico e poi traversa l’immanenza spinoziana in cui si fondono Dio e mondo.

Follia in testa e sole nel cuore – parole da canzonetta, da affidare al gaio usignolo e al merlo beffardo ma meno lontane di quanto sembri da espressioni più canoniche: amor Dei intellectualis, forma positiva della Repubblica sociale e processo espansivo che smantella la macchina statale, ¡que se vayan todos!, defund the police
Prodigioso raccordo di filosofia e politica con l’immaginario.

 

[1] Kristin Ross, [2015], Lusso Comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi (a cura di M. Pezzella e S. Taccola, Rosenberg & Sellier, Torino 2020, introduzione e cap. II. Con riferimento soprattutto al superamento della divisione fra lavoro manuale e intellettuale grazie alla formazione politecnica promossa da E. Pottier, l’autore dell’Internationale, sulle orme di J. Jacotot. Pottier promosse pure la Federazione degli artisti e li integrò nelle iniziative della Commune e perfino nella costruzione delle barricate. Gli artisti – concludeva il Manifesto della Federazione –  concorreranno «à l’inauguration du luxe communal et aux splendeurs de l’avenir et à la République universelle».

[2] Nelle intenzioni dei promotori doveva anche fare ammenda per la sacrilega occupazione italiana di Roma papalina, che proprio la sconfitta di Sedan aveva consentito.

[3] Come in un bel testo di lotta italiano: «Non siam più la Comune di Parigi/ che tu, borghese, schiacciasti nel sangue;/non più gruppi isolati e divisi/ma la gran classe dei lavorator/che uniti e compatti marciamo/sotto il rosso vessillo dei Soviet,/di Lenin i soldati noi siamo,/siam la forza del lavor,/siam la forza del lavor».

[4] Cfr. K. Ross, op. cit., introduzione.

[5] Per la versione standard di Yves Montand, https://www.youtube.com/watch?v=yRbnlJuLFAs; assai valida la più nervosa versione dei Noir Desir, https://www.youtube.com/watch?v=cD3rBPBXY1c

[6] https://testi-canzoni.com/canzone/mostrare/4531606/izzy/testo-e-traduzione-le-temps-des-cerises/

[7] Elles ont pâli, merveilleuses,/Au grand soleil d’amour chargé, /Sur le bronze des mitrailleuses /À travers Paris insurgé. Il verso centrale ha ispirato il titolo dell’azione scenica di Luigi Nono (1975), reperibile su youtube.

 

Immagine di copertina: Maximilien Luce, Una strada di Parigi