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Bernard Stiegler e il silenzio del simbolico

Nell’epoca iperindustriale è stato il cinema – paradigma di tutti i dispositivi digitali – la più grande arma di desertificazione del simbolico. Eppure, sostiene Bernard Stiegler ne “La miseria simbolica”, è il cinema stesso che può anche farsi veicolo dell’inaspettato. Come nei film di Alain Resnais e Bertrand Bonello

Il pensiero del disastro, se non estingue il pensiero, ci rende indifferenti alle conseguenze che questo stesso pensiero può comportare per la nostra vita, elimina ogni idea di scacco e di riuscita, sostituisce il silenzio comune, quello a cui manca la parola, con un silenzio a lato, in disparte, in cui l’altro si annuncia tacendo.

Maurice Blanchot

Nel primo volume di La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale (pp. 164, euro 16), curato e tradotto da Rosella Corda per Culture radicali, la collana di Meltemi diretta dal Gruppo di Ricerca Ippolita, Bernard Stiegler sostiene una tesi molto forte: la contemporanea società occidentale è caratterizzata dalla desertificazione del simbolico, ossia di quel piano che da sempre ha rappresentato le modalità attraverso cui ogni cultura si è espressa insieme alla proprie affezioni politiche.

Ciò che ha condotto alla miseria del simbolico è stata la guerra dichiarata dai nuovi assetti governamentali contro l’esperienza estetica, quella che Jacques Rancière chiama partizione del sensibile: «un regime specifico di identificazione e di pensiero delle arti: un modo di articolazione tra i modi di fare, le forme di visibilità di questi modi di fare e le modalità di pensiero delle loro relazioni». In breve, la peculiarità incondizionata di qualsiasi comunità. Se, però, per Rancière il cinema esprime la sua verità attraverso l’idea bressoniana di pensiero del cinema, di cinema come pensiero vivente che identifica l’arte al singolare collettivo, un io/noi diacronico che la svincola da ogni regola gerarchica – e quindi da ogni tecnica asservita e imposta dal mercato e dal consumo –, per Stiegler il cinematografo – la grande industria che nel XX secolo si è impadronita delle tecnologie dell’immaginario per trasformare il mondo a propria immagine e somiglianza – è il più potente dispositivo mediatico che ha permesso la cattura e il condizionamento del tempo delle coscienze de* spettator*. In altri termini, il cinema è la rappresentazione plastica della «presa di controllo del simbolico da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica» (p. 25).

Tra gli oggetti temporali industriali – l’industria discografica, la radiofonia e la televisione – che si costituiscono sul flusso in divenire di contenuti apparentemente rivolti a tutt* ma, in realtà, in grado di provocare stati di allerta nelle singolarità spettatoriali, stati di allerta capaci di incrinare il condizionamento estetico della società del controllo, è il cinema a sussumere l’epoca industriale e quella iperindustriale, epoche in cui, secondo Gilbert Simondon, il modo di esistenza degli oggetti tecnici surclassa quello dell’individuo tecnico. Se, seguendo Stiegler, non abbiamo mai lasciato la modernità – l’epoca dell’industrializzazione di tutte le forme di vita in cui il calcolo è divenuto il fulcro della dominazione tecnica della natura – è il cinema a svolgere il ruolo di dispositivo di sincronizzazione universale delle coscienze. L’implicita vocazione del cinema di assumere la funzione di macchina di persuasione occulta si traduce in un’ulteriore accelerazione del calcolo generalizzato dell’io e del noi della collettività. Pur attingendo a, e servendosi di, storie e figure di altri media – in cui il desktop, l’interfaccia dell’attuale comunicazione digitale in tempo reale, gioca un ruolo decisivo nella riconfigurazione degli assetti propagandistici del capitalismo della conoscenza e della sorveglianza –, il cinema, in questa sua interminabile rimediazione, è il più efficace strumento di adattamento delle coscienze individuali ai diktat del mercato delle immagini, pur detenendo al contempo la potenzialità di far deragliare questo stesso assoggettamento mediatico attraverso la diacronizzazione delle pulsioni erotiche soggettivanti.

Stiegler, da spettatore appassionato e attento, ama citare film e autori in grado di rimettere in circoloproprio quel narcisismo primario degli individui, che consente di proiettare le energie desideranti de* singol* dentro la cornice sociale della collettività. Un insieme di relazioni che solleticano l’ego a formalizzare il noi, lo spazio di qualsiasi esperienza estetica condivisa. Come un secolo prima Rudolf Arnheim in Film come arte aveva messo in luce l’enorme contraddizione che vincolava il cinema con ambizioni artistiche all’egemonia del processo di industrializzazione universale (con il conseguente impoverimento delle energie creative), così per Stiegler il cinema è tuttavia anche un’arte – è cioè l’esperienza estetica per eccellenza in grado di sintonizzare il narcisismo individuale con quello collettivo, proprio come indicato da Rancière con l’espressione condivisione del sensibile. Il cinema industriale come mera registrazione del movimento macchinico, azzerando il piano del simbolico, svuotando di senso la pulsione erotica che si materializza con l’immagine riflessa, ha incrinato la possibilità stessa di vedere le immagini. Per questa ragione Stiegler fa ricorso ai film di Alain Resnais e Bertrand Bonello, cineasti del deleuziano film/concetto, come grimaldelli per forzare le serrature che blindano l’estetica dentro quella cassaforte di senso che nasconde e preclude ogni possibilità di immagine non conforme al pensiero dominante. L’estetica dell’incubo rappresenta la modalità attraverso cui l’immagine/realtà si fa immagine/incubo in una sorta di catastrofismo generale che rende ciechi e sordi.

On connaît la chanson (1996) di Resnais e Tiresia (2003) di Bonello, i due film attorno a cui si coagula e prende slancio l’analisi di Stiegler, sono opere cieche e sorde non perché limitate nella loro capacità di restituire immagini reali, ma in quanto producono immagini inattese nella coscienza di chi li guarda. La cecità di Tiresia è uno sguardo transpulsionale, poiché anche se non potrà più vedere – o, forse, proprio per questo – continua a incarnare la veggenza ,«l’esperienza […] che dona rose senza perché […] anche se [Dio] è morto» (p. 140). Allo stesso modo, le canzoni del film di Resnais – distribuito in Italia con il titolo ingannevole e veritiero Parole, parole, parole – fluiscono, appaiono e scompaiono, come le nostre coscienze, ormai sorde ai richiami della philia, pur rimanendo sempre in grado di riattivarsi grazie al comune bagaglio culturale rappresentato dalle canzonette.

I due registi realizzano pertanto un’operazione squisitamente filosofica. Il film di Resnais, per esempio, mostra come due oggetti temporali industriali – il cinema e le canzoni – sono dispositivi vincolati al loro modo di esistenza di oggetti tecnici in quanto entrambi strutturati dalla registrazione e dalla riproducibilità macchinica e analogica della realtà. Noi vediamo con le orecchie e sentiamo con gli occhi le stesse canzoni attraverso cui parlano i personaggi del film: «cantando, essi richiamano la parte più intima dei nostri ricordi e la plasmano, facendoci così trovare coinvolti nelle loro personalità e nelle loro storie, come se appartenessimo alla stessa famiglia» (p. 55).

Oltre alla loro specifica qualità affabulatoria, questi due film-pensiero raccontano il bagaglio culturale di immagini e suoni che va a costituire la memoria collettiva e individuale. Seguendo e piegando Husserl, Stiegler definisce ritenzioni questo serbatoio di marchi produttivo di identificazioni collettive; la ritenzione iperindustriale consiste esattamente nella capacità di captare l’attenzione delle coscienze da parte della società del controllo e del capitalismo cognitivo: «Il dispositivo ritenzionale iperindustriale tenta così di creare nuovi tipi di captazione dell’attenzione sfruttando l’ipersegmentazione dei mercati (ovvero delle coscienze) che i media digitali consentono, “personalizzando” i supporti di captazione» (p. 106).

Se questo è vero, i nuovi dispositivi digitali altro non sono che cinema all’ennesima potenza. Se infatti l’individuo tecnico non è più una macchina, o solo una macchina (epoca industriale), ma il sistema stesso inteso come rete (epoca iperindustriale), si può sostenere che tutte le immagini sono cinema, comunicazione di massa personalizzata. Per dirla con Jean-Luc Godard: non esistono (più) immagini giuste, (ma) giusto l’immagine. E, specularmente, quando l’immagine è dappertutto – come nella sequenza finale di 11 minuti di Jerzy Skolimowski –, non c’è più immagine.

In questa guerra contro la simbolizzazione della realtà, guerra dichiarata all’estetica e quindi al potere proiettivo de* spettator*, il cinema diviene arma non tanto di distrazione di massa quanto piuttosto di distruzione di massa – soprattutto nel momento in cui coincide con l’individualizzazione del soggetto isolato dalla grammatizzazione digitale dei contenuti performati dalla rete oppure dalla programmazione scandita dei palinsesti televisivi. Il cinema diventa arma politica, economica e diplomatica, proprio come aveva affermato Paul Virilio in Logistica della percezione, in cui guerra e cinema sono indiscernibili dalle questioni identitarie, commerciali e militari che sedimentano il senso della nazione e il sistema propagandistico dei suoi oggetti temporali industriali. Con questo Stiegler non rimpiange certo la fase simbolica del capitalismo di Jean Baudrillard; semmai sottolinea che il processo di simbolizzazione del cinema artistico può contribuire, quando le immagini riescono a sorprenderci in maniera inattesa, a liberare la proiezione de* spettator*, a promuoverne la catarsi che proietta il sé oltre lo schermo invece di farsi assoggettare dallo sfruttamento industriale delle immagini dell’impresa militar-commerciale.

A proposito di immaginario collettivo, costituito dalla memoria in cui ritenzioni primarie – le immagini e le melodie che assimiliamo e consumiamo mentre guardiamo un film o ascoltiamo una canzone – e ritenzioni secondarie – l’orizzonte di attese che prefiguriamo sulla base del simbolico – si sovrappongono continuamente, si può affermare che ciò che ci aspettiamo è sempre l’inaspettato, «l’energia pulsionale che tende i nostri desideri, sul fondo di queste elementari proto-attese che sono le pulsioni» (p. 134). Ecco allora la potenza (triste o gioiosa) delle ritenzioni terziarie: i ricordi filtrati dagli oggetti industriali temporali della società dello spettacolo e tradotti in processi transindividuali da un lato possono disciplinare alla miseria del simbolico, ma dall’altro possono anche far rammemorare quel mai sopito narcisismo sovversivo in grado di sconvolgere la sincronizzazione dei tempi della coscienza.

Stiegler, in definitiva, ci invita a ripoliticizzare il ruolo dell’arte al fine di rendere possibile un modo nuovo di sentire capace di risvegliare il narcisismo primario de* attor* coinvolt* nelle manifestazioni estetiche. E, d’altra parte, ci invita a una politica che non trascuri la dimensione estetica che si prende cura della collettività, che pertanto non va delegata alle industrie culturali o tantomeno al mercato. Ciò non significa ricadere nella trappola dell’arte civicamente impegnata a propagandare una bellezza retoricamente sostenibile e comune, quanto piuttosto a far riemergere la sensibilità collettiva in tutta la sua forza dirompente. Se al centro della politica ci sono i modi dello stare insieme, i modi della con/vivenza, allora lo sviluppo e lo stimolo per un sentire comune non può che essere l’amare insieme cose diverse da sé. Se la storia dell’umanità è rappresentata da tre grandi organismi, il corpo viventemorente, gli organi artificiali e le organizzazioni sociali, abbiamo bisogno, oggi più che mai, di «una organologia generale che studi la storia congiunta di queste tre dimensioni dell’estetica umana e delle tensioni, invenzioni e potenziali che ne risultano» (p. 32). Ovvero dell’opera di Stiegler, di quest’opera di Stiegler. Si può affermare così che le energie esistenziali che nell’era industriale mettevano in relazione il narcisismo individuale con le dinamiche sociali della collettività, pur sostenute al prezzo della violenza che ogni vita esercita necessariamente sulle altre, oggi, nell’era iperindustriale, non circolano più liberamente perché ritenute d’ostacolo ai processi di deindividuazione addomesticante, processi che qualificano la nostra epoca come priva di “senso”. Un mondo privato di qualsiasi esperienza che non sia riconducibile al consumo è un mondo in cui “spettatore” e “lavoratore” diventano tragicamente sinonimi. La catastrofe del sensibile è la distruzione del circuito del desiderio. A questo disastro esistenziale, politico e culturale si risponde con una scrittura del disastro.

In copertina e nel testo alcuni fotogrammi di Tiresia (2003) di Bertrand Bonello e Parole, parole, parole (1997) di Alain Resnais