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Il movimento 4 b in Corea del Sud. Il femminismo radicale sta facendo la rivoluzione

In Corea del Sud, tra capitalismo tecnologico e violenza digitale le donne alzano la voce contro secoli di patriarcato. Il movimento 4B rifiuta matrimonio, maternità e relazioni con gli uomini, trasformando scelte personali in atti di ribellione politica

È il 17 maggio 2016, e nel distretto di Seocho, a Seoul, capitale della Corea del Sud, una giovane donna viene accoltellata a morte da un uomo che non aveva mai incontrato prima. Arrestato, l’uomo ha dichiarato: «L’ho fatto perché le donne mi hanno sempre ignorato». Da quel giorno, quasi dieci anni fa, le donne della Corea del Sud hanno ricominciato a far sentire la propria voce, risvegliando le città da un lunghissimo sonno e portando a una svolta che ha scosso le fondamenta di un Paese che nasconde un’anima misogina poco raccontata, nutrita da secoli di esplicito sessismo culturale e caratterizzata da un moderno patriarcato istituzionalizzato.

Dietro le luci scintillanti dell’ipertecnologia e i rassicuranti colori pastello si nascondono gli scheletri di una società che non vuole confrontarsi con la questione di genere: dalle profonde disparità salariali agli assurdi standard di bellezza, dalla diffusissima violenza digitale delle spy-cam alla “caccia alla femminista radicale”, la Corea del Sud nasconde il suo vero volto, tra delirante progresso forzato e radicato ancoraggio al confucianesimo tradizionale.

Le donne parlano, le radici raccontano

La storia della Corea del Sud è anche la storia della lenta e coraggiosa lotta per l’emancipazione delle sue donne. Soggiogate da secoli di sottomissione confuciana e passate attraverso occupazioni imperialiste e governi sfruttatori, solo dopo la democratizzazione dagli anni Ottanta hanno potuto iniziare a sviluppare un percorso femminista identitario e politico.

Prima di quel momento le loro vite erano “vite al servizio” e poi, come accade da secoli ovunque nel mondo, a un certo punto le donne hanno detto basta.

Analizzando la storia del Paese, è nelle radici del suo neoconfucianesimo che si ritrova l’origine di tutto. Arrivato dalla Cina nell’epoca dei Tre Regni, raggiunge il suo apice durante la Dinastia Joseon che farà del neoconfucianesimo la propria base politica, etica ed educativa. Basato su una profonda enfasi sulla gerarchia, struttura sin dalle origini la società in rigide contrapposizioni dicotomiche: sovrano-sudditə, padre-figliə, fratello maggiore-minore e ovviamente marito-moglie. Su questa coercitiva logica di potere si basa, sin dal XIV secolo, la cultura patrilineare sudcoreana che struttura la famiglia a immagine e somiglianza dell’ordine politico, delineando i rapporti pubblici e privati uomo-donna in termini di obbedienza e subordinazione.

La donna diviene, di fatto, una proprietà da tramandare di famiglia in famiglia per il bene e la prosperità del regno. La castità (yeolnyeo) e la assoluta devozione al marito sono virtù supreme, così profondamente radicate che, per secoli, per essere considerate degne, le vedove potevano scegliere unicamente tra il ritiro solitario dalla società o il suicidio. Sorte migliore non spettava alle ragazze nubili, per le quali l’unica possibilità era il matrimonio.

di huongnguyen123

L’educazione femminile era infatti aspramente osteggiata, se non finalizzata a insegnare alle ragazze a essere giovani spose obbedienti e remissive. Nei “testi morali per le donne”, scritto dalla devota moglie del sovrano, viene delineato il perfetto comportamento femminile: sottomissione al marito, riservatezza, modestia e cura della casa.

Il neoconfucianesimo, nel suo essere struttura sociale e sistema di valori, ha influenzato e consolidato la cultura patriarcale della Corea del Sud e, anche in seguito al percorso di modernizzazione avvenuto nel Novecento, ha continuato a mantenere la sua forza nella vita quotidiana di tutte le donne sudcoreane. Per secoli è stata tramandata l’idea che l’armonia sociale fosse più importante della libertà individuale – un’armonia costruita interamente sul silenzio delle donne.

No, la Corea del Sud non è il paradiso del progresso

Dietro le luci al neon, l’iperconnessione digitale, i robot e l’altissimo livello di automazione presente ovunque; dietro i colori vivaci dei karaoke e le esperienze immersive fornite dall’intelligenza artificiale, la Corea del Sud nasconde un’anima culturale e sociale profondamente conservatrice e arretrata, soprattutto in relazione alla questione di genere.

Dal 2022 è Presidente Yoon Suk-yeol, la cui elezione – come del resto, quella di Trump – è da ricollegare principalmente ai voti degli uomini tra i 18 e i 39 anni. Uomini che condividono tutti un sentimento comune: l’antifemminismo.

Verrebbe da pensare che la scelta di eleggere un ultraconservatore derivi dalla necessità, da parte dell’assetto sociale misogino sudcoreano, di contrastare le spinte progressiste di genere promosse dai precedenti governi, in una sorta di naturale contrattacco sociopolitico; eppure, non è così. La situazione relativa alla condizione delle donne era drammatica anche in precedenza.

La Corea del Sud è il Paese con il più alto divario salariale di genere tra tutti i Paesi membri dell’Ocse, con le donne retribuite in media un terzo in meno rispetto agli uomini. Inoltre, il rapporto sul divario di genere globale del “World Economic Forum 2022” classifica la Corea del Sud al 99° posto su 146 Paesi, in un indice che esamina occupazione, istruzione, salute e rappresentanza politica femminile.

La preoccupante condizione delle donne, per essere compresa a fondo, deve tuttavia essere letta all’interno della più ampia cornice sociale in cui si trovano a vivere. La Corea del Sud è un Paese complesso, stritolato tra rigidi dogmi di stampo tradizionalista e spinte iper-capitalistiche insostenibili: il divario tra ricchi e poveri è enorme, i casi di burnout da stress lavorativo sono tra i più alti al mondo, e la principale causa di morte tra i 12 e i 39 anni è il suicidio. Il tasso di fertilità è bassissimo e il population rate mostra una prospettiva stabilmente decrescente per i prossimi dieci anni, con un calo annuo di oltre 50.000 unità.

A tutto questo si deve aggiungere un elevatissimo costo della vita, soprattutto nel settore immobiliare, un mercato del lavoro stagnante e ipercompetitivo, un’economia più lenta rispetto a quella di altri Paesi del blocco asiatico e politiche di welfare interno del tutto incapaci di far fronte a tale situazione.

La perfezione come dovere. Madri e figlie sotto il patriarcato

In questo scenario già profondamente catastrofico si muovono le vite di oltre 25 milioni di donne, la cui situazione è ulteriormente aggravata dalle restrizioni loro imposte da un sistema patriarcale fortemente radicalizzato nel Paese.

Da un punto di vista istituzionale, è presente un Ministero per la parità di genere e la famiglia che, istituito nel 1998 con l’obiettivo di tutelare e rafforzare le politiche di genere, ha subito una profonda riorganizzazione nel corso di quest’anno, soprattutto a seguito della minaccia, da parte del neo-presidente, di smantellarlo, poiché accusato di trattare gli uomini come “potenziali criminali sessuali” e di supportare false accuse di violenza sessuale nei loro confronti. Attualmente, le sue funzioni risultano molto più vicine a posizioni legate alla natalità e alla famiglia che alla tutela dei diritti delle donne, e il Ministero riceve appena lo 0,26% del budget nazionale complessivo.

All’interno del Governo, le donne occupano una quota minoritaria di seggi, circa il 20%, e la rappresentanza femminile nei livelli decisionali è molto scarsa. Ad esempio, nella professione legale si rileva una percentuale molto bassa di avvocate, appena il 29% del totale, dato che scende ulteriormente nelle posizioni senior.

di Itthic

Unico dato positivo, da un punto di vista collettivo, è la storica sentenza abrogativa del 2019 della Corte costituzionale di Seul in tema di aborto, considerato illegale per oltre 66 anni.

Al di fuori dalle stanze del potere, nonostante il grandissimo lavoro da parte deglə attivistə per fare pressione sui governi in termini culturali e sociali, le cose sembrano non migliorare.

Quasi ovunque, il successo o il fallimento dei figli, soprattutto se maschi, viene fatto ricadere collettivamente sulle madri, responsabili della loro “realizzazione”. Secondo la pratica del Taegyo, già nella fase prenatale le madri avrebbero il potere di incidere sullo sviluppo cognitivo del bambino, determinandone l’indole e le capacità.

Durante la crescita, le madri sono chiamate a ricoprire il ruolo “manageriale-educativo”, che prevede una dedizione praticamente totale nei confronti dei figli, operando in tal modo un vero e proprio lavoro di cura non retribuito. Inoltre, la buona realizzazione dei figli, sia in ambito scolastico che lavorativo, oltre a essere considerata il principale ruolo e responsabilità delle donne, viene anche fatta ricadere sulle madri in termini di “reputazione” sociale-familiare: il buon nome della famiglia dipende dal successo dei suoi componenti, in particolare quello dei maschi.

Essere madri è dunque prima di tutto una responsabilità collettiva, così come lo è essere belle.

La prigione estetica

Nella cultura e nella società sudcoreana, la bellezza è tutto. Sin dall’infanzia, il miraggio della perfezione accompagna la vita di tutte le bambine, dominando la loro esistenza. Essere magre, pallide, infantili, fragili, pure e senza difetti è l’obiettivo secolare imposto dall’occhio patriarcale sudcoreano; alle donne viene richiesto di uniformarsi allo standard estetico delle K-pop idol, non importa come e non importa a quale costo, sia in termini economici che psicologici, pena l’esclusione dai piani alti della società.

Dalla pelle diafana al viso a “V”, dagli occhi enormi da bambola al micro-nose, dalle gambe sproporzionatamente lunghe alla vita sottilissima, gli interventi chirurgici sui corpi vengono incentivati già dall’adolescenza e usati come merce di scambio per ottenere alti risultati scolastici e comportamenti conformi. Si stima che più di due terzi delle ragazze tra i 19 e i 29 anni siano ricorse alla chirurgia estetica, con un giro di affari tra i più redditizi al mondo. Essere belle significa “essere arrivate”, e in Sud Corea essere arrivate ha molto a che fare con la specs culture, ossia con l’ossessione delle “specifiche”: tutte quelle caratteristiche materiali che determinano il successo di un individuo e che lo trasformano in un elemento positivo per il “capitale sociale collettivo”.

Capelli lunghi e sempre lisci, make-up perfetto, centinaia di prodotti per la skin-care, abbigliamento always on trend e costante presenza social fanno delle ragazze sudcoreane un prototipo da imitare anche in Occidente, consentendo alle aziende di bellezza del Paese di dominare il mercato globale, in una logica capitalistica violentissima che scarica sul corpo delle donne, ancora una volta, tutta la sua ferocia.

La violenza di genere ha un nuovo volto cybertech

Si sa, il patriarcato è un organismo evolutivo e, come tale, possiede l’invidiabile capacità di auto-rigenerarsi e di produrre nuove e sempre più sofisticate forme di violenza di genere. Nel XXI secolo, l’abuso diventa digitale. Dalla condivisione non consensuale in rete di immagini e video privati alla misoginia sui social, dal cyberstalking agli hate speech sessisti on-line, dai deepfake pornografici prodotti con l’AI alle spy-cam posizionate in luoghi pubblici e privati, il nostro è diventato un mondo in cui scappare dalla violenza e dall’abuso è sempre più difficile.

In Corea del Sud, solo nel 2024, sono stati registrati più di diecimila casi di abuso sessuale digitale, ma il dato è ovviamente solo parziale.

I casi di deepfake pornografici, in cui a corpi iper-sessualizzati vengono associati i volti di ragazze inconsapevoli prese dalle piattaforme social, tramite l’intelligenza artificiale, sono triplicati in meno di dodici mesi e riguardano principalmente adolescenti e bambine.

Sempre loro, le giovanissime, sono poi tra le principali vittime del fenomeno “up-skirt”, che consiste nel filmare o fotografare senza consenso, solitamente tramite smartphone, sotto la gonna o gli abiti, principalmente in luoghi pubblici come metro, scale mobili, autobus ecc., per poi scambiare, diffondere o rivendere i contenuti nelle community on-line, nelle chat e sulle piattaforme digitali. A volte può accadere che vengano diffuse anche informazioni personali, come nome, indirizzo, scuola o social network (doxing), al fine di indurre gli utenti a rintracciare la vittima e continuare a produrre materiale sempre nuovo, in un incitamento alla violenza degno solo del sistema patriarcale che lo genera.

C’è poi il sempre più diffuso fenomeno delle spy-cam, telecamere sempre più invisibili, acquistabili a basso costo on-line e posizionate ovunque: dalle toilette pubbliche delle stazioni ai bagni di esercizi commerciali, dalle camere d’albergo alle camere da letto delle case private. Il fenomeno, che in Corea del Sud viene chiamato Molka, è una vera e propria piaga sociale di genere. Secondo il Korea Cyber Sexual Violence Response Center, i crimini legati a questo fenomeno sono in rapida crescita e la loro diffusione tramite piattaforme anonime e criptate come Telegram ne rendono difficile il controllo tempestivo.

Molto spesso, accanto a perfetti sconosciuti, a registrare e diffondere foto e video sono anche mariti, fratelli, conviventi, che diffondono sulle piattaforme pornografiche le proprie compagne e familiari per scopi economici, rafforzamento ideologico, per divertimento personale o semplicemente perché possono farlo.

Come scrive la giornalista Se Youn Park «I Molka non sono quindi reati isolati, ma parte di un’infrastruttura di abuso decentralizzata e durevole. La logica che li sostiene è la stessa. Il dolore delle donne diventa contenuto, la loro vulnerabilità diventa voluta e le piattaforme digitali forniscono l’architettura per facilitare, nascondere e premiare la partecipazione».

di Trol85

I maschi della GenZ sudcoreana non sanno reggere il confronto e non solo loro

Ma cosa fanno le istituzioni al riguardo e come vede il fenomeno la società sudcoreana? Nonostante esistano, a livello legislativo, delle pene anche risarcitorie per reati legati ai Molka crimes, di fatto i tassi di condanna effettiva sono, secondo la Korean Women’s developpement Institute, meno del 10%. In caso di denuncia, le donne si trovano quasi sempre a dover affrontare un sistema di giustizia che ignora, minimizza e ri-vittimizza, e che culturalmente si aspetta che siano le donne a “salvaguardare i loro corpi”, secondo l’idea tradizionale dell’eunjangdo, il piccolo coltello d’argento che le donne portavano al petto durante la dinastia Joseon e che aveva lo scopo di proteggere la loro verginità.

La scarsissima attenzione istituzionale alla questione di genere non è da sola la causa della difficile e pericolosa condizione in cui vivono le donne in Sud Corea, e non solo in Sud Corea. Il rapporto tra Stato e società è diretto e proporzionale, e le due sfere si influenzano reciprocamente.

Secondo un nuovo studio del King’s Cross College di Londra, che ha intervistato quasi 20.000 persone tra i 18 e i 74 anni in 31 Paesi, più del 60% dei maschi appartenenti alla Gen Z ritiene che l’uguaglianza delle donne sia «eccessiva» e che stia «discriminando gli uomini».

In tutto il mondo, personaggi come Andrew Tate, pluri-accusato di violenza sessuale e traffico di esseri umani, sono ormai i punti di riferimento dei giovani maschi di questa generazione considerata da tuttə “progressista”. L’odio per le donne, e in particolare per le femministe, serpeggia ovunque, e la Corea del Sud non è da meno.

Tra i giovani maschi dentro e fuori Seul si fa sempre più largo l’idea che sia dell’emancipazione femminile, e di chi la promuove, la colpa dei propri fallimenti privati e pubblici. L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e i loro migliori livelli di istruzione vengono percepiti come una minaccia non solo alla loro carriera, ma anche al loro tradizionale ruolo di male breadwinner e di capofamiglia. La perdita di potere fa vacillare la certezza di privilegi acquisiti e non conquistati, generando una chiusura che si traduce in attacco, in tentativi di cancellare diritti, in violenza.

La mancanza di consenso sociale verso l’uguaglianza di genere produce difficoltà nell’attuazione efficace di politiche volte alla parità e porta ad una frattura sociale enorme, dentro la quale è facilissimo, per certe destre autocratiche, infilarsi e prosperare.

4B ed escape the corset: quando il femmninismo dice basta

Ma come accade ovunque nel mondo e da sempre nella storia, anche in Corea del Sud le donne hanno alzato la testa. Dopo secoli di pressione patriarcale, hanno detto basta, dando vita a un movimento che può essere considerato tra i più radicali del panorama femminista mondiale. Si chiama 4B (sa-bi undong) e sta facendo storia.

Nato intorno al 2016, si riferisce al rifiuto (bi) di quattro comportamenti basici ma rivoluzionari: rifiuto del matrimonio, rifiuto della maternità, rifiuto delle relazioni sentimentali con gli uomini, rifiuto dei rapporti sessuali con gli uomini. La scelta di aderire è, per molte, non solo una scelta personale ma un vero e proprio atto politico di resistenza, un modo per rompere radicalmente gli argini di una condizione ormai ritenuta insostenibile.

Sulla scia del 4B, in moltissime hanno abbandonato i rigidi standard estetici loro imposti, iniziando a postare sui propri social selfie con capelli corti, abiti considerati non-conformi e zero make-up e aderendo al filone “Escape the corset”, scatenando l’ira collettiva e generando fratture intergenerazionali come mai prima d’ora.

Al tentativo di dialogo con le istituzioni, già tentato da filoni femministi negli anni 1990 e 2000, il movimento 4B contrappone atti singoli di ribellione, volti a divenire vere e proprie pratiche sociali di genere, rifiutandosi di mettere il proprio corpo a disposizione dello stato patriarcale. Scegliendo di estrarsi consapevolmente dalla dicotomia uomo-donna, strappano dalle mani dello status quo della famiglia nucleare il potere riproduttivo del corpo femminile.

Strutturate in collettivi capillarizzati e decentralizzati di donne, le 4B praticano prevalentemente attivismo mediatico e, attraverso reti di supporto, contro-pratiche di sicurezza reciproca e un ritorno all’antica pratica del lesbismo politico, portano avanti atti politici di un femminismo separatista che non intende scendere a compromessi. Il radicalismo del movimento ha generato critiche e attacchi da molteplici fronti, tanto dagli ambienti conservatori quanto da quelli femministi.

Quello che sicuramente non è piaciuto alla destra conservatrice è stato perdere il potere e il controllo sulla determinazione delle donne, considerate ora più che mai causa della crisi demografica e della instabilità interna del Paese. Gli attacchi sono stati ferocissimi, tanto che moltissime delle attiviste 4B non possono più girare per le strade di Seul per paura di essere riconosciute e aggredite. L’odio nei loro confronti è tale che, per moltissimə sudcoreanə la parola “femminista” è considerata un vero e proprio insulto, qualcosa per cui vale la pena chiudere definitivamente i rapporti con una figlia.

Il movimento ha generato tensioni anche all’interno dello stesso femminismo. Nella sua radicalità, 4B mostra un limite legato all’essenzialismo biologico e all’esclusione delle persone trans e non-binarie. La rappresentanza è infatti esclusiva delle donne cisgender e l’orientamento TERF (radicali trans-esclusive) è abbastanza netto. Questo atteggiamento escludente ha giustamente fatto storcere il naso al transfemminismo e al femminismo intersezionale che, come accade spesso, ha richiesto alle 4B un all’allargamento della rappresentanza anche alle soggettività queer, con l’intento di non frammentare la lotta, evitando di concedere terreno fertile alle strumentalizzazioni antifemministe del mondo conservatore e neoliberale.

La copertina è di Dickson P (Flickr)

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