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MONDO
Le madri tunisine: «Aiutateci a trovare i nostri figli dispersi nel Mediterraneo»
In Tunisia, la mobilitazione delle famiglie dei dispersi nel Mediterraneo ha dato vita a un’esperienza unica: l’Association des mères des disparus, fondata nel 2016 da Fatma Kassraouin dopo la scomparsa del figlio Ramzi. Oggi la battaglia continua grazie all’impegno della figlia, Latifa Al-Walhazi, che abbiamo incontrato e intervistato
Incontro Latifa a San Lorenzo, a Roma. È la sua prima volta in Italia e lo sottolinea con cura, come a dare peso a ogni passaggio di questo viaggio. È qui su invito di A Buon Diritto, associazione che tutela e sostiene le persone migranti. Latifa nomina una per una le persone che l’hanno accolta – Marina, Rita, Camilla – quasi a rendere quel gesto parte integrante del racconto, un riconoscimento necessario. Mi colpisce il modo in cui la sua voce sia sempre intrecciata a una rete di relazioni e alleanze che ne rafforzano il significato politico.
Siamo sedute in una stanza raccolta e silenziosa: io, Latifa e il nostro interprete Anis. Il fratello Ramzi è il punto di partenza di tutto. «Il primo marzo 2011 è scomparso in mare. Lui è il motivo di quello che sto facendo adesso, della mia vita come attivista». Da lì, Latifa rievoca il senso di abbandono degli anni successivi alla scomparsa: «In Tunisia esistevano già associazioni che dicevano di volerci aiutare, ma ci hanno sfruttate. Hanno preso finanziamenti sul tema dei dispersi, ma senza darci un vero sostegno. Così, dopo cinque anni, mia mamma e altre madri hanno deciso di creare la nostra associazione, per un attivismo serio e diretto, davvero dalla parte delle famiglie». Nasce così l’esperienza dell’associazione, con richieste chiare e puntuali.
«Prima di tutto – spiega Latifa – vogliamo sapere la verità. Qualsiasi essa sia: se i nostri familiari sono morti, vogliamo che vengano cercati i loro corpi; se sono vivi, vogliamo che vengano riconosciuti i loro diritti, umani, pieni e inalienabili».
Queste rivendicazioni si inseriscono però in un quadro politico che da oltre un decennio relega la questione delle persone disperse ai margini dell’agenda istituzionale. Nel 2011, mentre migliaia di tunisini arrivavano via mare sulle coste italiane, Roma e Tunisi firmavano i primi accordi bilaterali per il controllo delle partenze e i rimpatri forzati. Da allora quelle intese sono state rinnovate, facendosi sempre più stringenti, saldando la cooperazione tra i due governi sul terreno della sicurezza e del contenimento, piuttosto che su quello della tutela dei diritti umani.
A questo livello bilaterale si è presto aggiunta la dimensione europea: fondi, equipaggiamenti, programmi di “rafforzamento delle capacità” delle autorità tunisine, tutti finalizzati a bloccare le partenze esternalizzando la frontiera mediterranea. È dentro questa architettura politica che le famiglie delle persone scomparse si trovano a chiedere verità e giustizia. Una ricerca che, in un sistema costruito per fermare corpi e cancellare movimenti, diventa un atto politico tanto necessario quanto ostacolato.

di Mohamad Cheblak
Nei rapporti con le istituzioni, spiega Latifa, le differenze sono nette. «In Tunisia il ministero degli Affari esteri ci riceve, ci dice che lavora sui dossier, che serve tempo, ma almeno il canale è aperto». Con l’Italia, invece, la situazione resta bloccata. «Lo Stato italiano non collabora, il sostegno arriva per lo più dalla società civile e dalle associazioni».
La prima richiesta che l’organizzazione pone ai due governi riguarda la libertà di movimento: eliminare l’obbligo di visto, che costringe i giovani tunisini a partire irregolarmente, alimentando i trafficanti e aumentando i rischi di morte in mare. Accanto a questo, si richiede un’assunzione di responsabilità congiunta: che Italia e Tunisia lavorino insieme non per fermare le partenze, ma per garantire diritti alle persone migranti e verità alle famiglie dei dispersi.
Latifa fa subito riferimento al sistema dei CPR, i Centri di permanenza per il rimpatrio, diffusi in diverse città italiane, che trattengono persone migranti in attesa di espulsione. «In Tunisia sappiamo che in Italia esistono dei centri dove vengono portati i nostri familiari. Vogliamo trovarli, capire perché sono stati detenuti e assicurarci che vengano garantiti i loro diritti». I CPR non sono carceri in senso stretto, perché la detenzione non è legata a un illecito penale, ma di fatto questi centri riproducono condizioni carcerarie: privazione della libertà, isolamento, opacità nelle procedure. Per le famiglie tunisine diventano luoghi di sospetto e di angoscia, dove l’assenza di informazioni alimenta l’idea di una sparizione che prosegue anche oltre il mare.
Parlare con le famiglie dei dispersi è complesso. Alcune trovano la forza di raccontare, altre non riescono nemmeno a nominare i propri familiari.
«Tante madri non vogliono o non possono parlare. È un dolore troppo grande». La frase che ritorna più spesso è secca, quasi un grido: «Trova mio figlio. Portami mio figlio». Non importa il resto, i passaggi burocratici. «Vogliono solo i loro figli».
Le conseguenze non sono solo emotive. «Tante madri si ammalano» dice. Nomina sua madre, Fatma, che oggi ha quasi perso la vista; altre colpite da depressione, disturbi cronici. «Una madre addirittura si è data fuoco per la disperazione. Questo dolore ti logora dentro e fuori». Quando non trova voce, aggiunge, la sofferenza si sposta sul corpo, sulla salute, sulle relazioni.
Poi si ferma un momento e conclude: «Il dolore di una sorella non è quello di una madre. Non trovo le parole per descriverlo».
L’attività dell’associazione non si limita alla Tunisia. Negli anni Latifa ha intrecciato contatti con realtà di altri Paesi di partenza e di transito. Attraverso la rete di Alarm Phone – un’organizzazione con sede in Germania che monitora le chiamate di soccorso dal Mediterraneo e sostiene le famiglie delle persone scomparse – ha conosciuto famiglie in Senegal, in Camerun e in altri Paesi del Maghreb.
«Sono andata in Senegal, in Camerun, ho incontrato le madri, le sorelle, ho condiviso con loro la nostra esperienza. In Senegal la situazione è più simile alla Tunisia: le famiglie riescono a parlare tra loro, a mantenere contatti con i familiari. In Camerun invece è diverso: non hanno lo stesso spazio di parola, non possono organizzarsi liberamente. Se provano a rivendicare il diritto di cercare i loro figli, rischiano repressione e prigione».
Durante uno di questi viaggi, insieme ad altre famiglie tunisine e senegalesi, Latifa ha incontrato nuclei camerunesi che vivono la stessa assenza: figli e figlie partiti nel 2012, 2013, 2014 e mai tornati. «Abbiamo proposto di creare canali di comunicazione comuni, così da restare in contatto, condividere informazioni e sostenerci a vicenda». Da questi incontri è nata una rete reale, che cerca di superare confini e paure.
«È difficile, soprattutto in Tunisia, dove il contesto politico rende complicato organizzarsi. Ma il contatto con altre famiglie aiuta a non sentirsi isolati, a capire che questo dolore attraversa più Paesi, più comunità».
Latifa racconta di incontrare spesso i giovani della sua zona e di fermarsi a parlare con loro. «Quando li incontro chiedo sempre: perché volete partire, sapendo che c’è un rischio enorme e una possibilità minima di arrivare in Italia?». Le risposte sono sempre simili: vogliono vedere l’Europa, vivere meglio, costruire un futuro che in Tunisia appare irraggiungibile. La situazione economica del Paese lascia pochi margini: disoccupazione diffusa, precarietà, mancanza di prospettive. «Tanti giovani non trovano lavoro, non hanno possibilità di realizzare nulla, e allora scelgono di tentare la traversata, anche se sanno che la probabilità di arrivare può essere vicina allo zero».
Il caso di Ramzi, suo fratello, è emblematico. Dopo il diploma aveva studiato giurisprudenza, ma senza esiti. Si era poi formato come tornitore di rame e argento, conseguendo un diploma professionale. Anche così, non aveva trovato un’occupazione.
C’è però una storia che, racconta Latifa, l’ha segnata profondamente. È la vicenda di Wissem Ben Abdellatif, un giovane tunisino morto nel 2021 dopo essere stato trasferito da un CPR a un reparto psichiatrico italiano, in circostanze mai del tutto chiarite. «Ho conosciuto i suoi genitori», dice «e da allora seguo la procedura legale che si è aperta su questa morte. Ho sempre paura che mio fratello abbia fatto questa stessa fine». Il timore si lega anche a una serie di indizi che hanno attraversato gli anni. Ramzi era partito nel 2011 e, poco dopo, un reportage diffuso in Italia mostrava immagini in cui, secondo la famiglia, compariva anche lui. L’anno successivo, nel 2012, un’attivista italiana dichiarò di averlo incontrato all’interno di un CPR. Per Latifa, questi frammenti alimentano la speranza e allo stesso tempo la determinazione. E aggiunge:
«Anche se un giorno scoprissi la verità su mio fratello, continuerò con l’attivismo. È una responsabilità. Tante persone vengono da me e mi dicono: “Trova mio figlio, pensa che sia tuo fratello, fa come se fosse tuo fratello”. E questo è ciò che sento di dover fare»
Questa affermazione segna il passaggio dal dolore individuale alla responsabilità collettiva: una trasformazione che accomuna le organizzazioni delle madri in molte parti del mondo. Sono soggetti politici che, a partire dal lutto, producono forme di resistenza capaci di mettere in discussione sistemi di potere. La loro forza sta nel trasformare la vulnerabilità in mobilitazione, nel collocare la perdita in uno spazio pubblico e transnazionale.
La storia recente ne offre esempi chiari: dalle Madres de Plaza de Mayo in Argentina, alle madri di Srebrenica, fino alle madri palestinesi che resistono all’occupazione e all’annientamento della loro cultura. Rivendicazioni che contestano regimi militari, pratiche di genocidio, politiche di annientamento. In ciascun caso, la domanda di verità e giustizia rompe il silenzio e smaschera logiche di impunità.
L’associazione delle madri tunisine si colloca in questa genealogia. Le loro richieste – protocolli di identificazione dei corpi, riconoscimento dei diritti dei sopravvissuti, verità sulla sorte dei dispersi – rappresentano un atto di accusa contro l’impianto delle politiche migratorie europee, fondate sul contenimento, sui rimpatri e sull’esternalizzazione delle frontiere, che producono scomparsa e invisibilità.
Il lavoro di Latifa e delle altre madri riguarda la Tunisia e l’intero Mediterraneo, ma interroga soprattutto l’Europa. Mette in luce la contraddizione tra la proclamata tutela dei diritti umani e la produzione sistematica di vite precarie, sacrificabili, non riconosciute.
L’immagine di copertina è di Mohamad Cheblak
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