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Pasolini, Mamma Roma, Sodoma, gli hipster e altre storie

A 40 anni dalla sua tragica morte, sul personaggio Pier Paolo Pasolini è stato scritto di tutto e anche di più tra banalizzazioni e facili strumentalizzazioni. In occasione del restauro della sua ultima e controversa opera “Salò o le 120 giornate di Sodoma” che torna al cinema in 65 sale italiane, proviamo a darne una lettura dell’estetica cinematografica.

“Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovversione, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio” (Luis Buñuel)

Qual è il compito del cinema? Rappresentare o raccontare? Mostrare attraverso immagini di puro flusso visuale il desiderio poetico racchiuso nel suo autore o narrare in maniera anche ellittica o disincarnata una storia esemplare? Far vedere o far guardare? (riprendendo una dichiarazione di Jean-Luc Godard). Solo che alla domanda su che cosa sia più importante se guardare o vedere, se raccontare o mostrare, i due registi risponderebbero in modo totalmente diverse: se Godard non raccontava storie ma le mostrava soltanto concentrandosi sulle immagini, in Pasolini la narrazione non può prevalere sulla poesia, anche se finisce per fare corpo con essa, ma è la sostanza della scrittura cinematografica.

Pier Paolo Pasolini ha teorizzato il cosiddetto “cinema di poesia”, mettendo in luce, nella complessità della sua stessa esperienza artistica, il cinema non solo come linguaggio, ma lingua a tutti gli effetti. Frontalità ossessiva delle inquadrature, fotografia in bianco e nero “sporca”, adozione del linguaggio gergale, il paesaggio che segna e determina la dimensione stilistica del film. Il primo cinema di Pasolini risente l’influenza del neorealismo. Ma in che modo? Il neorealismo è distante almeno quindici anni, molto è cambiato: la (ri)costruzione delle città è nella sua fase espansiva, il boom economico, tutto ciò che è “popolare” può venire spettacolarizzato e reso scintillante dal technicolor.

Pasolini scende nel cuore delle periferie, va a raccogliere pezzi di vita, volti, sguardi, cantieri, povertà.

Roma, i suoi spazi, i suoi personaggi, la sua storia, sono per Pasolini uno dei territori privilegiati della sua avventura esistenziale. Casilino, Prenestino, Tiburtino, Tuscolana, Appia Nuova sono i luoghi delle riprese dei suoi primi film come regista, Accattone (1961) e Mamma Roma (1962). L’immagine della città conserva un’estrema organicità e la Roma monumentale appare solo a tratti, quasi come interferenza visiva. A differenza di Fellini, che soprattutto sul barocco costruisce la dimensione onirica e personale della città e della narrazione filmica (basti pensare alla scena del bagno nella Fontana di Trevi de La dolce vita) Pasolini ignora la dimensione più spettacolare dello spazio urbano. La città come ensemble di un processo storico e urbanistico preciso, si trasforma in uno spazio teatrale fra le case scrostate delle borgate, il biancore anonimo dei palazzi moderni, i ruderi abbandonati di un’antichità perduta e indefinita che si confonde con la natura.

La segregazione e solitudine urbanistica, della città-appendice borghese che fagocita tutto e tutti. Mamma Roma-Anna Magnani compie un percorso simbolico verso “il benessere”: cambia casa, dall’abitazione liberty, al quartiere del Tuscolano in Via Calpurnio Fiamma, da dove osserva letteralmente il profilo della città in costruzione e il suo sviluppo corrotto. E allora nell’ultima scena gli occhi sbarrati della Magnani si spalancano in un sussulto amaro agghiacciante, ce l’ha sempre avuta davanti agli occhi, attorno a sé, e non se ne è mai accorta: la città.

L’ultima inquadratura è un frame della chiesa di San Giovanni Bosco che svetta nel quartiere in costruzione. Oggi famosa per la celebrazione del funerale in grande stile del boss dei Casamonica. E Mamma Roma è oggi anche un modo per nominare provocatoriamente, quella città contraddittoria “che ci invidiano tutti”, quella città “addormentata, fascistoide, del volemose bbene”, per dirla con le parole di Remo Remotti, a cui nessuno pensa però veramente di dire addio proprio perché è anche molto altro: una città multiforme.

Pasolini arriva a girare Accattone (la cui sceneggiatura è stata scritta nello sconforto del governo Tambroni appoggiato dai missini) senza una precisa conoscenza del mezzo cinematografico (anche se aveva all’attivo sceneggiature di film come Le notti di Cabiria, Il bell’Antonio, La dolce vita ). Impara sul set, giorno per giorno, con l’aiuto del direttore della fotografia Tonino Delli Colli e dei consigli pratici del giovane assistente Bernardo Bertolucci. Accattone (interpretato da Franco Citti, uno dei suoi attori feticcio) cammina all’interno della borgata, ma il suo è un muoversi nello stesso spazio geografico, impossibilitato a uscirne, metafora dell’incapacità di lasciarsi alle spalle la sua condizione di sottoproletario.

Oggi quella periferia, quei volti (Pasolini non amava servirsi di attori professionisti), potrebbero essere gli stessi della Ostia di Non essere cattivo di Caligari, per certi versi. Ma tutto è cambiato da allora. Sicuramente quell’afflato paternalistico, quella visione lirica della povertà e della genuinità da borgata che muore quando viene contaminata dal potere risultano oggi un po’ datate.

Oggi la povertà non è delimitata dai quartieri cerniera della città, non è, in parte, così visibile e identificabile come allora,e quando lo è viene nascosta e occultata ai margini (pensiamo alla componente migrante). E’ difficile oggi rappresentarla la povertà economica, così “democratica” che colpisce indistintamente. Perfino se viaggi quotidianamente in carri bestiame denominati mezzi pubblici; tutti hanno uno smartphone in mano, un viso truccato, un abito H&M, capigliature hipster. Volti.

La contaminazione, il pastiche, diviene l’elemento base del linguaggio cinematografico del regista Pasolini, dove il cinema, con il suo “potere di unificare”, grazie alle sue potenzialità sinestetiche raggiunge istantaneamente un grado di verticalità. Il regista si serve della musica classica barocca e della pittura per ricreare un effetto straniante nella periferia romana, con Bach che accompagna le sequenze di Accattone (primo film italiano a ottenere il divieto ai minori di anni 18). Fu il regista Marcel Carnè con i suoi giudizi entusiastici a contribuire al successo in Francia del film, accolto tiepidamente dalla critica italiana. La prima del film a Roma, al cinema Barberini, il 23 novembre 1961, vede l’irruzione di un gruppo di neofascisti che interrompono la proiezione, aggredendo gli spettatori e vandalizzando la sala.

La ricotta, 1963 (uno degli episodi del film corale Ro.Go.Pa.G) subisce un processo da parte della magistratura per vilipendio alla religione che porta alla condanna di Pasolini per direttissima a quattro mesi di reclusione. Ma l’opera è soprattutto un attacco frontale alla borghesia italiana che Pasolini disprezza per miopia e grettezza culturale.

“Un uomo medio? È un mostro. Un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”. Sono le parole pronunciate da Orson Welles doppiato dallo scrittore Giorgio Bassani, che impersona l’alter ego del regista marxista. Qui i richiami pittorici di Rosso Fiorentino e Pontorno si fondono con citazioni di autori come Charlie Chaplin mentre va in scena la Passione di Cristo a tempo di twist.

“Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua? […] Mamma sto a morì dal freddo, sto male”

In Mamma Roma è evidente l’influenza del maestro danese Carl Theodor Dreyer. E mentre il giovane Ettore si ritrova in carcere per niente, agonizzante, un mirabile montaggio alternato ci regala immagini di una potenza espressiva e purezza formale che lascia senza fiato (che ricorda il Cristo morto del Mantegna) mentre lo struggente sottofondo di Vivaldi stringe forte l’animo di chi guarda.

“A sora Ro, io pure quann’ero ragazzino so stato in galera, è acqua che passa è […] meglio così, se impara tutte le cattiverie della vita, mette giudizio”. Ma sappiamo che di carcere si muore. Non è un’esperienza di vita.

“I maestri si mangiano in salsa piccante” – dice il Corvo in Uccellacci e uccellini (1966). Pasolini vuole qui rappresentare un’ideologia digerita e assimilata nel corpo piccolo borghese, che ne ha dissolto ogni carica rivoluzionaria. Protagonista insieme all’amico Ninetto Davoli, la maschera clownesca di Totò portata a nuova vita.

Il Pasolini alla ricerca del mito per confrontarlo con la modernità (Medea,1969), alle prese con le tragedie shakespeariane (Che cosa sono le nuvole?, 1967), oppure con le suggestioni delle opere di Giotto, Pieter Bruegel il Vecchio e dei pittori fiamminghi (Decameron, 1971): fermare il tempo e trattenerlo nel passato? In Teorema il tempo è immobile e in uno spazio decontestualizzato, anche se siamo in pieno ’68 e si mostra lo sconvolgimento dell’ordinarietà di un gruppo familiare dell’alta borghesia milanese.

Salò o le 120 giornate di Sodoma rappresenta un oggetto di complessa collocazione dentro i canoni della storia del cinema, sia per il suo carattere estremo, difficile ancora oggi guardarlo, che per la vicenda biografica, sorta di lascito testamentario del regista di Casarsa, ucciso pochi giorni prima dell’anteprima parigina del novembre del 1975. Liberamente ispirato a Le 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade e ambientato in Italia durante il periodo nazifascista ma con una visione del potere senza tempo. Non si tratta solo di connessione tra fascismo e sadismo, ma della capacità di innestare l’aspetto della soggettivazione in una dinamica marcatamente disciplinare esercitata come imposizione e coercizione sui corpi.

Una coercizione destinata alla creazione di uno spettacolo (le torture sono alternate da battute degne del Bagaglino), con il quale il film si chiude nelle forme grottesche del varietà, profilando i tratti di un godimento tele-visivo (letteralmente, attraverso l’uso del binocolo) che rimette al centro la questione della visibilità dopo che è stata prevalentemente la parola orale a essere propedeutica all’eccitazione dei quattro potenti, tramite il racconto delle narratrici, maschere vistose e leziose allo stesso tempo, esteriormente quasi una caricatura della strega Glinda (quella buona) del Mago di Oz di Fleming. Il potere, legato alla parola, produce un sapere e dispositivi di potere.

In fondo la merda che questi corpi reclusi, senza voce sono costretti a mangiare (non metaforicamente) è un antipasto del neo-capitalismo preconizzato da P.

Egli sembra volere anche mettere in luce il fallimento dell’ideologia libertaria del ’68. La lotta progressista di quegli anni volta alla liberazione sessuale è stata capitalizzata dal potere economico il quale ha deciso di concedere un’apparente quanto falsa tolleranza. L’etica della “trasgressione” si è trasformata in una falsa dialettica della permissività. Quella che nella serie tv Boris viene definita “La Locura” – “il peggior conservatorismo… che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes”… “Tutto è buono quando è eccessivo!”dice il Monsignore in Salò. E cosa c’è di più eccessivo oggi del potere più pervasivo e cinico, ovvero quello economico-finanziario?

“Dimenticare Pasolini, prima che diventi aggettivo, avverbio e intercalare” considerando anche che “nonostante l’eresia e la forza critica dei suoi discorsi sembra passare oggi un Pasolini di moda, spogliato della sua carica sovversiva e buono per ogni stagione”. (R. Kirchmayr)

Continuamente citato “un passe-partout da esibire”, ma spuntato, svuotato, “usato” per difendere lo stesso potere. È questo il Pasolini che ci rimane? Come far emergere la dimensione critica, radicale, della sua esperienza senza farne un’icona o un simbolo di appartenenza? E nemmeno un “profeta” che annuncia una nuova, devastante epoca di miseria morale e culturale, “padre” degli epigoni Saviani di turno? A quarant’anni dalla morte atroce, si cerca di addomesticarne l’opera.

“A quanto pare per difendere le forze dell’ordine bisogna tirare in ballo Pasolini”.

“Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.” (Wu Ming 1)

Quanto pesa ancora scendere in piazza da studente-precario-disoccupato ed essere bollato come figlio di papà (magari cassaintegrato), anche se vieni manganellato da un poliziotto con le Hogan ed il posto fisso? No Pasolini, non stava con la polizia. Indubbiamente dietro ogni sua frase c’è anche un grande narcisismo, espressioni spesso ai limiti dell’invettiva, un carattere di urgenza passionale che sicuramente colpisce. Quando parla di mutazione antropologica, dei ragazzi della periferia che stanno diventando sempre più brutti e grigi, e che i ragazzi che prima prendevano in giro i borghesi, ora li vedono come i loro modelli…

In un articolo (apparso nel 1973, sul Corriere della Sera), “Contro i capelli lunghi”, si sofferma sul capellone che immagina di rompere uno schema o un cliché introducendo attraverso il corpo, una stimmata del corpo, qualcosa che fuoriesce, che viene però trasformato in un segno monolitico. Il sistema capitalistico che sa neutralizzare l’elemento sovversivo nel momento in cui lo accoglie, lo centrifuga, e lo rende moda, annullandolo… I capelloni di oggi sono dunque gli hipster che aperitivizzano tra Monti e il Pigneto vestiti da homeless firmati con ogni gadget della Apple a portata di mano, e che non hanno mai nemmeno letto un qualunque Mailer, Kerouac, Ginsberg o altri della Beat Generation?

Gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i [loro] padri: ossia… il sapere. La citazione è mutuata, aggiornata, contestualizzata, chiaramente.