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Brutti, sporchi e pop. Intervista a Manuel Agnelli

Abbiamo incontrato Manuel Agnelli, frontman degli Afterhours, prima del concerto al Forte Prenestino

A pensarci bene, più che la presenza di Manuel Agnelli a X Factor, colpisce il fatto che in 30 anni di onorata carriera, gli Afterhours non abbiamo mai suonato al Forte Prenestino, centro sociale occupato e autogestito dal 1986. Nelle ultime settimane, non solo le pagine specializzate, ma anche le testate e i tg nazionali, accompagnati dagli immancabili sussulti social, hanno “dibattuto” su una questione – il confine, il conflitto e il rapporto tra “underground” e mainstream – vecchia quanto il primo ruggito punk.

E’ il 1977, l’Anarchia non fa in tempo a bussare alle porte del Regno Unito che si compie il primo “tradimento” punk. Porta la firma combat rock dei Clash, che scelgono di produrre il loro primo disco con la Cbs, nota multinazionale dell’industria musicale. Per molti fedeli alla linea si tratta del primo assassinio di una lunga serie che giunge fino ai nostri giorni.

La prima puntata del talent più famoso d’Italia è stata vivisezionata da orde di critici televisivi e dai sacerdoti della purezza indie. Tre giorni dopo, Agnelli e la sua band, si sono fiondati a Roma, a Centocelle, in uno degli spazi occupati più belli e ricchi di storia d’Europa. Il concerto, nonostante il diluvio, è stato un successo artistico e organizzativo, a partire dalla strepitosa performance in apertura degli Zu, macinatori seriali di un sax hardcore senza compromessi.

Alla vigilia del concerto romano, abbiamo incontrato Manuel Agnelli, 50 anni, musicista, scrittore, produttore discografico italiano, fondatore e frontman del gruppo milanese, che quest’anno ha compiuto 30 anni di attività sfornando l’undicesimo disco in studio, “Folfiri o Folfox” (Universal Music Italia). Una chiacchiera lunga e rilassata nel bellissimo giardino dell’Angelo mai, nel cuore di Roma, a due passi dalle Terme di Caracalla. La location non è casuale, visto il legame fortissimo che lega la band allo spazio culturale, da cui provengono due membri del gruppo: Fabio Rondanini (Calibro 35), nuovo metronomo che ha sostituito alla batteria il mitico Giorgio Prette, e Rodrigo D’Erasmo, violinista e polistrumentista di grande talento.

Gli Afterhours al Forte Prenestino rappresentano una sorpresa solo per chi non conosce la storia del gruppo, che ha sempre avuto una certa complicità con il mondo underground, le occupazioni, le esperienze controculturali. 30 anni il Forte e 30 anni dalla fondazione della band: come è nata la scelta di suonare a Roma?

Al Forte ci sono capitato pochissime volte, di cui la prima tantissimi anni fa, quando venni a vedere il concerto di un gruppo di cui non ricordo nemmeno il nome. Il concerto del 18 settembre nasce un paio di mesi fa quando, proprio al Forte, viene organizzata una serata con il Teatro degli Orrori per sostenere le spese mediche di una nostra cara amica. Decidiamo di partecipare in versione ridotta, suonando tre pezzi in apertura. La serata si rivela sorprendente, grande sintonia con il posto e con le persone presenti. E questo succede quando non hai nessun tipo di pressione, niente da promuovere, niente da vendere. Alla fine del concerto abbiamo parlato con tante persone e dagli occupanti del Forte arriva la proposta di un evento. Lì per lì ho pensato: “cazzo, non è possibile, noi non abbiamo mai suonato in questo posto incredibile!” Dopodiché, visto che in questo momento sto godendo di una certa visibilità, abbiamo pensato di utilizzarla per riaprire la discussione sui posti occupati, in tutta Italia e in particolare a Roma.

Parliamo di spazi occupati che esprimono attitudini e storie anche molto diverse, che producono cultura e attività di servizio per la gente, nei quartieri e nelle periferie, in autonomia dalle amministrazioni locali. Un lavoro in cui ci riconosciamo, contro le pretese dall’alto di monopolizzare la cultura a fini politici, tendenza molto più presente nelle giunte di sinistra che in quelle di destra, che non sanno nemmeno di cosa parlano.

Quella che spesso viene definita “bassa cultura” rappresenta invece il sangue di questo paese, fatto di centri sociali, teatri occupati, associazioni di quartiere. Noi vogliamo sostenere questo mondo.

Il nuovo album e la nuova formazione segnano una svolta, con l’addio di due membri storici, Prette e Ciccarelli. Un lavoro che fa i conti con la malattia, la morte, la perdita di un padre. Dove nascono queste canzoni?

I nostri dischi nascono sempre da un’urgenza espressiva, non facciamo mai un disco progettandolo a tavolino. Nascono sempre dalla volontà di disinnescare un certo tipo di tensione che c’è dentro e tra di noi. Per me è importante usare la musica in questa maniera, per disinnescare il dolore, scrivendo canzoni, portandole in giro e cantandole 200 volte. E, alla fine della duecentesima volta, penso solo a dove ho parcheggiato la macchina. Nel senso che, finalmente, riesco a liberarmi da una sorta di ricatto emozionale del dolore. Puoi tenere a bada il dolore, ma non basta: la grande fortuna dei musicisti è che scrivendo, suonando e cantando si possono liberare più facilmente dalle tossine e dai grumi irrisolti.

“L’odore della giacca di mio padre” parla di un faccia a faccia con un pezzo di vita che non c’è più.

Guarda, non c’è nessuna intuizione speciale: un giorno vado a riprendere i vestiti di mio padre, a casa di mia madre, e lei mi dice di prendere quello voglio. Passo in rassegna il guardaroba e alla fine scelgo questa giacca, una delle sue preferite. Quando la indosso percepisco distintamente il suo odore. Tutto qui. Non c’è nessuna intuizione geniale, ma una immersione senza filtri in una storia vera. La mia parte creativa pesca sempre nella realtà, nulla di artificiale o astratto.

In tanti pezzi emerge un legame forte con la tua famiglia. In “Ritorno a casa” racconti la tua vecchia stanza da bambino, con la descrizione di un mondo indelebile fatto di oggetti, vestiti, giocattoli e chincaglierie varie.

Si, sono cose che vivono tutti, passaggi di crescita, ti guardi indietro e dai un significato a cose che prima non l’avevano. L’elaborazione del lutto mi ha costretto a diventare definitivamente adulto e indipendente, anche psicologicamente, cosa che prima non ero, come si capisce dal testo di “Ritorno a casa”. Anzi, passavo spesso davanti casa dei miei per ritrovare un certo legame affettivo con un periodo della mia vita che io ricordavo felice. Un’esigenza scomparsa con la morte di mio padre. Ho provato ad andare forzatamente davanti a quella casa, ma non ha funzionato. Ritornavo sempre a quella frase del pezzo – “Quando sarò ricco comprerò quella casa” – per riprovare le stesse sensazioni felici di un tempo. Ma niente da fare, quella perdita mi ha tolto quell’esigenza da sotto il naso. E da una parte è stata una cosa negativa, dall’altra una cosa molto positiva perché mi ha obbligato a crescere, a staccare l’ancora e andare avanti.

Esattamente 40 anni fa, tra Manchester e Londra, brilla la santabarbara del punk, che dice: fanculo la tecnica, il virtuosismo da museo, i divi imbellettati e l’industria discografica. Vogliamo l’anima di chi suona, vogliamo la nostra vita sul palco, anzi il palco non esiste più. Un fiume in piena che ha seminato le ondate successive: hardcore, noise, no wave, post rock, new wave, dark, grunge, new metal, crossover, fino all’esplosione della dance e della scena elettronica. Cosa rimane di quella distopia musicale?

Domanda molto difficile. Nella musica di oggi quasi niente, quel tipo di linguaggio è stato svuotato dei significati originari. Essere alternative, fuori dal sistema, underground, al di fuori dei media mainstream aveva un significato sociale, il sogno una vita diversa, un’organizzazione sociale diversa. Certe volte, una non-organizzazione sociale, anarchia. Lasciamo stare gli estremismi punk che sfioravano il nichilismo, un discorso troppo estremo per uno che vuole vivere, e vivere in mezzo alla gente. Tutto ciò che è venuto dopo, tra il post punk e la wave, aveva un punto di vista costruttivo dal punto di vista sociale. Viveva nell’eredità degli anni Settanta – le comuni, la controcultura – e ha contaminato i tanti esperimenti degli anni ’80 e ’90: centri sociali, occupazioni abitative, squat, esperienze materiali di una società diversa, alternativa, non legata al profitto, al potere, al dominio di classe. Tutto questo è stato svuotato completamente negli ultimi venti anni, sono rimasti i termini lessicali, è rimasta l’estetica. Adesso, per me, alternative e underground definiscono esclusivamente dei generi musicali, non esiste più nessuna rispondenza sociale.

La tracotanza e l’estremismo di certi ambienti stona in maniera volgare con le velleità di una “battaglia” che si riduce a estetica e moda. Sono viziatoni, habitués di piccoli Rotary club, che vantano una collezione di dischi invece che un’altra, che vanno a bere il loro cocktail in un posto perché secondo loro mette i dischi giusti. Non rispecchiano più una vera battaglia sociale. Dove c’è qualche fermento, si fa fatica a far rete e condividere progetti. L’altro problema è che questo tipo di esperimenti sono finiti nella palude di rapporti asfittici con la politica. Io da ragazzo ero punk e rifiutavo la politica, non solo per nichilismo o disfattismo, ma perché quel tipo di discorso e di gestione del potere già allora mi sembrava grottesco, mi sentivo come uno spettatore passivo che assiste a una partita di calcio.

Meglio fare i conti e occuparsi della cultura e del costume, provare a pensare e aggregare in modo diverso. Bisognava prendere questa cosa per quello che era, costume e forme culturali di espressione, e dare una nobiltà a questa parola. Dare una connotazione politica al mondo alternative è stato suicidio perpetrato da chi non aveva spessore politico e culturale per quella sfida e mi ha fatto disamorare dell’ambiente stesso, pieno di farisei che dicono cosa e giusto e cosa è sbagliato, con atteggiamenti e pose che spesso puzzano di fascismo. Una sorta di tolleranza zero nei confronti della diversità, cosa che non accetto da tanto tempo. Io ho scelto di far parte di questo mondo perché mi regala un senso di libertà totale e contaminazione radicale. Tanta parte della scena underground, oggi, è composta da tanti piccoli club intolleranti gli uni verso gli altri. Non me ne frega un cazzo di questa situazione.

Dagli esordi in lingua inglese, ispirati da Velvet underground, Iggy Pop, Television, Joy Division, vi siete mossi verso una sperimentazione continua di stili e generi, con spregiudicate aperture melodiche e pop. Qual è la linea rossa della vostra carriera?

La scelta di vivere in maniera assoluta la libertà espressiva, senza vergognarsi di dire cose fuori misura, eccessive, senza perimetri o recinti. È l’unico modo che ho trovato per liberarmi di ciò che canto e racconto. Dire la verità verso se stessi, altrimenti non funziona se ne parli in maniera cattolica. Questo disco rappresenta un passo in avanti nella sperimentazione di struttura, di suoni, di scrittura. Mi sono divertito molto. Sperimentazione, ma non fine a se stessa, utile a raccontare la nostra vita con più forza.

In tante occasioni vi siete mossi come un gruppo-boa, che ha provato a connettere le tante esperienze italiane indipendenti, che non trovano spazio e visibilità. Progetti collettivi, come il mitico “Tora Tora festival” o “Il paese è reale”.

Da questo punto di vista va rifondato tutto. Rifondare non vuol dire spazzare via tutto, ma partire da quello che c’è, dalle esperienze con le quali vogliamo collaborare, che sono i posti dove si produce cultura liberamente, anche quando imperfetta. Sono posti in cui si sperimenta, veri e propri laboratori culturali, dove non importa l’efficacia di quello che fai – la redditività, il mercato -, perché ormai quello è diventato il ricatto. Dobbiamo ripartire da lì e dall’energia della gente che si mette in gioco in prima persona, dentro e fuori gli spazi occupati, nei quartieri, nelle città. Oggi io non mi sento rappresentato da chi si fa chiamare “indipendente”. Rifondare tutto non è impossibile, ma non si fa in sei mesi, perché c’è stata una destrutturazione culturale criminale nel nostro paese, profondissima, che non trova adeguata opposizione. Ma c’è una nuova generazione che ha fame di cultura e che, essendo nata e cresciuta nella crisi, non riesce a raccontarsi palle come prima.

Nella società dell’accesso permanente ai contenuti culturali, della condivisione e della rottura dei recinti proprietari, come si ricostruisce un’idea di “diritto d’autore” fuori dagli interessi corporativi e liberisti della Siae? Conoscete l’esperienza di Soundreef o Patamù?

La mia risposta sarà impopolare. I modelli alternativi alla Siae non possono sostituirla in toto, semmai possono contribuire a una riforma egualitaria della stessa. Noto che, spesso, le critiche più aspre contro la Siae – che va criticata radicalmente, non c’è dubbio – vengono da quelli che non lavorano veramente nel mondo della musica, autori o musicisti che fanno un altro mestiere per vivere. Noi che viviamo di questo lavoro sappiamo che il diritto d’autore va riconosciuto come un valore prodotto dal lavoro. Le idee e la produzione artistica diventano di tutti, ma nascono da qualcuno che svolge un lavoro faticoso come un altro. Bisogna essere razionali e pragmatici: ci sono cose che è giusto fare e cose che è opportuno fare. Io non sono più nichilista, non ho più approccio distruttivo alle cose che non mi piacciono. La Siae ha una distribuzione molto capillare, la capacità di effettuare un collecting che nessun altro è in grado di fare, la capacità di gestire autori ed editori in maniera complessa e queste nuove società non ce l’hanno. Soundreef, se io ho due editori diversi con tre autori per pezzo non riesce a gestirmi, dobbiamo gestirci noi internamente e poi presentarci a Soundreef, e questa cosa pone dei limiti mostruosi. E in più non dimentichiamoci che se le società per il diritto d’autore esistono, per quanto questo possa essere gestito male, il diritto d’autore va difeso. Quindi, se io sono socio della società, questa deve difendere i miei diritti nei confronti di chi utilizza le mie cose in maniera impropria. In questo caso la Siae, lo fa o non lo fa, è in grado di farlo, le altre situazioni non sarebbero in grado di farlo in maniera così completa. Ci deve essere una pressione nei confronti della Siae per rifondarla, ma questo non deve avvenire con i like su internet; gli operai scendono in piazza, i portuali si incatenano, in Francia studenti e lavoratori incendiano tutto per difendere i loro diritti, mentre i musicisti fanno schifo per la loro latitanza. Non ho mai visto una manifestazione di musicisti in 30 anni in Italia, quindi ci sono due verità: la prima che ci meritiamo la merda che ci sparano in testa; la seconda è che probabilmente i musicisti sono semplicemente dei lobbisti, che non si meritano un cazzo. La Siae ha problemi serissimi che vanno affrontati, ma non vedo ancora un’alternativa valida in queste nuove società. Non dimentichiamoci che Soundreef difendeva il diritto d’autore della musica trasmessa nei supermercati e questo per me non è un punto di partenza artisticamente e culturalmente qualificato (su questo punto e sui modelli di tutela del diritto d’autore, nei prossimi giorni, daremo parola alla società Soundreef, ndr).

In un tempo che vive l’ipertrofia della produzione musicale, che mescola e mastica mode e ondate che si esauriscono in poco tempo, è possibile intravedere la “new big thing”, la nuova truffa del rock and roll?

Il rock and roll, oggi, non ha più nessun effetto rivoluzionario. Può servire a raccontare storie che altri non raccontano, che è già un compito meraviglioso, difficile, che giustifica l’esistenza di un modo espressivo, ma l’attitudine rock è stata risucchiata dal sistema e risputata fuori come moda, trend, prodotto istantaneo da consumare velocemente. Per questo non credo più alle grandi truffe del rock che destabilizzano il sistema. Non ci sono più grosse tendenze che potevano rivoluzionare il costume, come è stato dal punk in poi. A livello politico non è mai successo un cazzo, abbiamo sempre fatto il solletico al sistema, che spesso ci ha usato e diviso. Vedo però una tendenza al mescolamento che non era presente in un passato segnato dalla separazione netta e sequenziale dei generi. Adesso invece c’è un grande caos, una libertà di contaminazione bellissima. Pensate agli Alabama Shakes, uno li sente e si chiede: ma che cosa cazzo sono? Sono elettronica, soul, rock and roll.. sono un gruppo di successo senza essere dei cialtroni. Mi piacciono anche le Ibeyi, due sorelle franco-cubane che fanno elettronica con influenze africanoidi. Cose molto belle e molto diverse da quello che faccio io. Del rock and roll non mi sta piacendo niente, è ormai un mondo conservatore, fatto di atteggiamenti ridicoli, suoni ridicoli, con una produzione media che non è in grado di sfiorare nemmeno lontanamente le sperimentazioni dell’hip hop. Non in quello italiano, per carità, che è una tristezza. Il produttore di Lana del Rey sta facendo cose molto più “fuori” di qualsiasi gruppo rock di questo momento. Pensa un po’.

C’è stato il tempo della Vox Pop e poi l’approdo alla Universal. Collaborazioni con Greg Dulli e Mark Lanegan (Screaming Trees), e poi il Festival di Sanremo. Oggi il Forte Prenestino, a sostegno di tutti gli spazi occupati, e domani, per Manuel Agnelli, X Factor. Come si vive su queste montagne russe?

Noi da ragazzini, vivendo a Milano, abbiamo avuto modo di vedere come funzionavano un certo tipo di cose. Alla Jungle Sound Station, storiche sale prove della città, da una parte suonavamo noi, Ritmo Tribale, Casino Royale, La Crus, Cristina Donà, Scisma; nella sala affianco, Ramazzotti, Pausini, Jovanotti. Conoscendoli e vedendo come lavoravano, abbiamo smesso di aver paura e di essere sporcati dal loro modo di pensare la musica. Era semplicemente una musica diversa che non mi piaceva, lontana da me e dalle nostre scelte. Quando ho avuto la sicurezza interiore e professionale di quello che volevo essere musicalmente e artisticamente, non ho più avuto dubbi di portare ovunque il mio lavoro, senza paure o auto-castrazioni. Cosa che negli Stati Uniti, anche in quella indie – se il termine significa ancora qualcosa – fanno tranquillamente da sempre. In America siamo stati in giro con la troupe di Jack Daniel’s (Jack on tour, ndr), poi siamo andati a Chicago da Greg Calby e Steven Albini, due tra i più grandi produttori rock mondiali, che ci hanno aperto lo studio come se ci conoscessero da sempre. Perché? Perché erano loro stessi, erano lì che ci stavano mostrando il loro mondo con il loro linguaggio. Pura contaminazione. Qui invece abbiamo una paura fottuta, spesso data dall’insicurezza personale e da un sistema competitivo tremendo, ma a volte anche dalla mancanza di “talento”, che è la forza che ti fa essere te stesso ovunque. Per cui i gruppi musicali che sono venuti fuori negli ultimi anni in Italia sono solo attitudinari a livello di estetica e di mode evanescenti. Questa mancanza di forza ha fatto sì che dinosauri come noi siano ancora in giro, perché nessuno ancora ci ha spazzato via, cosa che dovrebbe essere naturale. Finché non rinasce un movimento di persone con quella forza comunicativa, con quell’urgenza comunicativa, che non vive nell’accondiscendenza o nell’essere viziati, è inutile che giochiamo a rivendicare qualcosa; non ci sono le condizioni sociali, culturali e artistiche per farlo.

In questo tour chiudete i concerti sempre con Bye Bye Bombay e una lunga coda sonica. Perché questo pezzo?

Si tratta di una la canzone che parla di un viaggio. In origine raccontava il rapporto complicato, ma risolto, tra me e il mio amico Emidio Clementi (leader dei Massimo Volume, ndr). Una canzone sulla chiusura di un rapporto, che poi abbiamo recuperato, ma che segna comunque una fine. Rispecchia bene quello che è successo all’interno del gruppo nell’ultimo anno, le scelte, gli addii, le ripartenze. Soprattutto, è una canzone liberatoria, perfetta per la chiusura di un concerto, in grado di scatenare la tensione, positiva, accumulata durante il live. Non è un coito interrotto, non è l’esercizietto di stile, ma un vero e proprio atto di liberazione.