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Vivere nell’interregno, pensare il mondo che viene

Dopo la riflessione sui presupposti antropologici del neoliberalismo, nel suo ultimo saggio Massimo De Carolis indaga la crisi permanente nella quale siamo immersi, definendo la comune radice convenzionale del potere politico e del valore economico

Il nuovo libro di Massimo De Carolis, Convenzioni e governo del mondo (Quodlibet 2023), ha il pregio raro di combinare raffinatezza speculativa, antropologia, teoria politica ed economia. Lo fa sempre con chiarezza, robustezza delle argomentazioni, passione per il presente, visione. L’urgenza che muove De Carolis è in primo luogo pensare il lungo «interregno» che si è aperto agli inizi del XX secolo, con la crisi della modernità capitalistica e degli Stati-nazione, e che non si è ancora concluso. Viviamo nell’interregno, sottolinea De Carolis, con la crisi che da eccezione si è fatta regola, dispositivo di governo; nell’interregno, che pullula di «fenomeni morbosi», dobbiamo rintracciare le potenzialità utili all’emancipazione.

Per capire il presente, Convenzioni e governo del mondo si misura col pensiero emerso agli albori della fine della modernità; quello tra le due guerre mondiali. Gramsci e Arendt, Schmitt e Keynes, Wittgenstein. Obiettivo della ricerca, però, è «offrire un contributo alla comprensione dell’attualità, non scrivere un capitolo più o meno interessante di storia delle idee». L’intento dunque non è mai esegetico, gli autori con i quali De Carolis ingaggia il confronto critico servono semmai per strappare il possibile al reale nefasto che ci tocca in sorte. «Stagnazione secolare», pandemia e guerra: non sono semplicemente lo sfondo della ricerca, ma il terreno irto di ostacoli che mette alla prova le fatiche speculative.   

Il tema che più di altri occupa la scena, la chiave per analizzare l’interregno secondo De Carolis, è l’intreccio tra governo politico e governo economico: come intendere, altrimenti, il rapporto tra mercati finanziari e catastrofe bellica, controllo algoritmico e comportamenti sociali, crisi della democrazia e divenire-impresa dello Stato? Ciò che la modernità tentò di separare si è rivelato, tragicamente, inseparabile. E allora si presenta un’altra domanda, decisiva: l’inseparabilità di potere e valore, politica e moneta, può essere trattata altrimenti, generando un inedito processo democratico, aperto e plurale al contempo? Un simile processo, chiarisce De Carolis, non può che avvenire «dal basso» e «dall’alto», tra convenzioni e governo del mondo. 

Se la diagnosi, nella sua originalità, non concede spazio a facili ottimismi, non chiude però i giochi; getta piuttosto luce su quanto del presente resta ancora da pensare e, di conseguenza, da trasformare. [di Francesco Raparelli]

A seguire, su gentile concessione dell’autore e dell’editore, che ringraziamo, l’Introduzione di Convenzioni e governo del mondo, da settembre in libreria. Accompagnano il testo le fotografie di Vittorio Giannitelli.

Foto di Vittorio Giannitelli

La ricerca condotta in questo libro nasce da una constatazione decisamente inquietante e da un’ipotesi che, senza poter sminuire l’inquietudine, prova almeno a tradurla in un dubbio circoscritto, che si possa discutere, verificare e distillare come un farmaco, capace di chiarire la visuale e di ristabilire un minimo di quiete.

La constatazione è che, negli ultimi decenni, l’ordine sociale abbia assunto la forma di una catena ininterrotta di emergenze, che ha visto crescere regolarmente l’intensità delle crisi mentre si andava riducendo l’intervallo tra una crisi e l’altra. Il risultato è che l’insicurezza, l’instabilità e il senso di impotenza di fronte alla catastrofe imminente fanno ormai parte dello spirito del tempo e della normalità quotidiana di milioni di persone.

L’ipotesi è che un quadro così instabile non annunci il crollo della civiltà o l’esplosione del caos ma sia, al contrario, proprio il modo in cui l’ordine istituzionale riproduce, sia pure a caro prezzo, il suo equilibrio. Detto in modo più crudo, l’idea è che le istituzioni moderne non si reggano più, come in passato, sulla promessa di tenere a freno la paura ma puntino, al contrario, sulla capacità di cronicizzarla, sfruttando a proprio vantaggio una domanda di sicurezza resa sempre più profonda proprio dal dilagare dell’instabilità.

Chiaramente, l’ipotesi risente del clima particolare che si è respirato in Europa negli ultimissimi anni, con la raffica di emergenze che ha travolto la vita collettiva fin nelle sue più radicate sicurezze: prima la crisi finanziaria, poi la pandemia, infine la guerra. Al momento in cui scrivo, nonostante la mobilitazione e l’attivismo delle forze di governo, nessuna delle emergenze appena elencate accenna a chiudersi. Ci stiamo anzi abituando a convivere con simili focolai di insicurezza, integrandoli nella normalità come altrettante patologie croniche. Eppure, almeno a prima vista, l’ordine istituzionale non sembra indebolito da una condizione di insicurezza tanto generalizzata. Al contrario: crescendo il bisogno di protezione, cresce anche la dipendenza dai poteri istituzionalizzati, che finiscono così per essere legittimati proprio dai loro relativi fallimenti.

Foto di Vittorio Giannitelli

Una congiuntura tanto anomala non poteva non pesare su una ricerca come quella presentata in queste pagine, condizionandone l’umore, se non proprio i risultati. Sarebbe riduttivo però leggere l’intero lavoro come una semplice ricognizione dell’attualità più recente. Uno dei suoi obiettivi, infatti, è proprio dimostrare che lo scenario attuale non è né un incidente di percorso né una crisi momentanea. La tesi è che sia, al contrario, il precipitato di una lunga mutazione istituzionale, che si è annunciata già da almeno un secolo e che da allora, sia pure tra alti e bassi, non ha mai smesso di scavare dall’interno le istituzioni moderne, per annidarvi un ordine sostitutivo che si è andato via via espandendo e rafforzando a spese del suo ospite.

Le tracce di una tale mutazione sono state ampiamente registrate negli ambienti più vivi della cultura europea del Novecento, con toni che segnalavano senza mezze misure la drammaticità dei processi in corso e l’urgenza di una risposta adeguata. Come primo esempio può valere il monito lanciato da Max Weber, più di un secolo fa, sul pericolo che i meccanismi istituzionali moderni si stessero trasformando in “gabbie d’acciaio”, portate a soffocare la vitalità sociale anziché raccoglierne lo slancio. Nei decenni successivi, la crisi istituzionale avrebbe assunto forme talmente drammatiche da far apparire i timori di Weber fin troppo ottimistici e miti. La parabola del totalitarismo, l’esplosione di conflitti sempre più distruttivi e la loro paradossale stabilizzazione in una forma inedita di “equilibrio del terrore” impressero alla letteratura sulla crisi, nel giro di pochi anni, un tono decisamente più cupo. Più che a gabbie d’acciaio, i meccanismi istituzionali venivano ora paragonati a «macchinari satanici», capaci di «annientare la sostanza naturale e umana della società» o di imporre, nel migliore dei casi, il dominio planetario di una «confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà».[1]

Naturalmente, non tutte le componenti della cultura europea si lasciarono attrarre da una lettura così drastica della crisi, che sembrava abbandonare alla deriva il modello di ordine sociale che, per secoli, aveva accompagnato e guidato la modernizzazione della società. Col tempo, anzi, a prevalere fu piuttosto la convinzione che le istituzioni moderne andassero difese e preservate, come un lascito irrinunciabile di civiltà e diritto. Osservando più attentamente, però, appare chiaro che, anche tra i “conservatori”, la difesa delle istituzioni è presentata come una necessità impellente proprio perché si riconosce apertamente la forza di un processo disgregativo che rischierebbe altrimenti di svuotarle dall’interno, riducendole a un mero involucro formale, al servizio di forze e dinamiche del tutto estranee all’idea di civiltà moderna.

Foto di Vittorio Giannitelli

Un caso esemplare, sotto questo profilo, è quello di Carl Schmitt, convinto della necessità di difendere a ogni costo la sovranità dello Stato per scongiurare la disgregazione dell’ordine civile. All’epoca, Schmitt includeva senza esitazioni il liberalismo tra i principali responsabili di una simile disgregazione. È perciò tanto più significativo che, negli stessi anni, uno dei programmi più coerenti di rinnovamento del liberalismo, quello del cosiddetto ordo-liberalismo tedesco, presentasse una visione della crisi in fondo analoga, benché di segno esattamente rovesciato. In autori come Rüstow o Böhm era infatti l’altra grande istituzione moderna – l’economia di mercato – a dover essere difesa con ogni mezzo, per salvare la civiltà dalla minaccia di una rifeudalizzazione dei rapporti sociali, cui occorreva urgentemente porre un freno.

C’è insomma un filo rosso nella cultura europea del Novecento, che sembra unire autori e correnti anche molto distanti, aggirando contrasti ideologici e opposte visioni del mondo. Ed è la convinzione (o, quanto meno, il timore) che sia in corso da tempo una profonda mutazione dell’ordine sociale; che la mutazione coinvolga i principali meccanismi istituzionali messi a punto dalla modernità, primi fra tutti la sovranità statale e il libero mercato; e che il processo in corso comporti il serio rischio di trasformare quelli che, in passato, erano stati i supporti più solidi dell’ordine civile in altrettanti focolai di insicurezza e di oppressione.

L’idea che è al fondo della presente ricerca è che, da allora a oggi, l’evoluzione sociale non abbia corretto la rotta e che, sia pure tra alti e bassi, la mutazione delle istituzioni non abbia mai cessato di avanzare. È un’ipotesi sicuramente inquietante, perché lascia supporre che anche la distruttività e i pericoli siano oggi almeno altrettanto intensi che in passato. Il lato positivo è che, accentuandosi la mutazione, potrebbe essere divenuto più facile coglierne la radice, decifrarne la logica e immaginarne, quindi, un eventuale antidoto.


[1] La prima citazione è tratta da Polanyi 1944, p. 6. La seconda è l’incipit di Marcuse 1964.

Immagine di copertina e nell’articolo di Vittorio Giannitelli