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Venezia 3/ “The Laundromat” di Steven Soderbergh

In linea con la produzione soderberghiana di critica sociale dell’ultima decade, “The Laundromat” – passato in questi giorni in concorso al Festival di Venezia e prossimamente su Netflix – veste di tinte tragicomiche l’inchiesta dei Panama Papers restituendo un ritratto impietoso dei meccanismi malsani del sistema economico mondiale

Una specie di saggio di economia per tutti, questo The Laundromat, il nuovo lavoro di Steven Soderbergh. Ancora una volta il regista non si pone riserve nel proporre un cinema militante seppur con qualche compromesso formale.

Soderbergh mira a tracciare nero su bianco i contorni del rapporto di interdipendenza tra individuo ed economia; lo fa dando un volto preciso agli agenti umani operanti per conto dell’altrimenti detta Invisibile Mano immanente dell’economia, concetto semplicistico e demodé ma alla quale l’immaginario collettivo sembra non aver mai rinunciato. Nello specifico, Soderbergh individua come nella coppia Mossack (Gary Oldman) – figlio di un ex-membro delle SS diventato poi spia per conto degli americani ai danni della comunista Cuba… – & Fonseca (Antonio Banderas), capi dell’omonimo studio legale al centro dello scandalo dei Panama Papers (come peraltro descritto da Jake Bernstein nel pluripremiato Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite, cui la pellicola si ispira) un esempio perfetto di tale legame. Tra un cocktail e una (fintissima) spiaggia tropicale i due trovano il tempo di rompere a più riprese la quarta parete per spiegarci senza fronzoli la loro posizione di scaltri e tronfi squali della finanza, fornendo un esaustivo ritratto dell’avidità umana e dell’aleatorietà delle leggi poste a pallido tentativo di impedire la speculazione fraudolenta.

 

 

Il ritratto che Soderbergh vuole dipingere è quello di un sistema economico irrimediabilmente condizionato dall’egoismo del libero arbitrio e dall’avidità dei singoli – non esattamente una sorpresa, insomma -, sia che si parli dell’arrischiarsi a risparmiare su una polizza assicurativa che del riciclare denaro più o meno coscientemente tramite qualche inesistente società offshore.

Soderbergh si prodiga (con discreto successo) per tutto il film nel cercare di rendere questo soggetto dalla fruizione tutt’altro che facile il più leggero possibile e gran parte del merito, in tal senso, va a Scott Z. Burns, autore della sceneggiatura (e già collaboratore di Soderbergh in The Informant!, tra i vari). Tramite l’intelligente struttura episodica a matrioska ci si ritrova rimbalzati da una parte all’altra del mondo (incontrando anche codici formali ed espressivi multiformi) sulle tracce di personaggi più o meno sordidi e inconsapevolmente interconnessi dal fragile equilibrio dei flussi monetari legati ai Panama Papers. A fare da filo conduttore ed inaspettata dea ex machina è Ellen Martin (Meryl Streep), che nella sua ricerca di giustizia per la morte del marito a seguito di un tragico incidente verrà a scoprire in prima persona l’assurda rete di “gusci vuoti” di cui la Mossack-Fonseca si fa garante.

 

 

C’è qualcosa che non va in The Laundromat? Apparentemente niente. È ruffiano abbastanza da essere accessibile virtualmente a chiunque e al contempo sufficientemente intelligente e cinico da potersi quasi fregiare indisturbato del titolo di commedia. Ma è forse la vena irrimediabilmente tragicomica di cui l’intero film si fa forte ad essere una potenziale lama a doppio taglio, che rischia, a mente fredda, di attenuarne il valore di denuncia e presa di posizione.

Ovvero: una volta metabolizzato il film, resta da chiedersi se l’essere portati così disinvoltamente a ridere di vicende – per quanto romanzate e messe in scena a regola d’arte e con lo scopo dichiarato di intrattenere – basate su indagini giornalistiche e giudiziarie di rilevanza globale non possa risultare in una banalizzazione del valore del film stesso in quanto strumento di critica sociale. Sull’ordito comico si innestano immagini a elevato potenziale iconico in chiave pop che di sicuro penetreranno l’immaginario collettivo con estrema immediatezza: qui mi riferisco alla pur azzeccatissima immagine di una Meryl Streep, nell’atto di brandire una spazzola a mo’ di Statua della Libertà vis-à-vis con lo spettatore, a suggellare un intenso monologo conclusivo di denuncia e rivolta contro un sistema economico irrimediabilmente marcio e al servizio di pochi ai danni di molti, in un definitivo smantellamento degli ultimi brandelli di finzione filmica ancora più oltre, se possibile, al meta-cinema che permea la pellicola fin dai primi minuti. Allora potrebbe sorgere il dubbio che Soderbergh si crogioli un po’ troppo in accattivanti e inaspettati espedienti narrativi, tra morti tragicomiche e sogni a occhi aperti di vendetta liberatoria (del resto, non capita tutti i giorni di vedere una Meryl Streep armata di fucile), paradossalmente esorcizzando gran parte della rabbia e dell’inquietudine che una riflessione più profonda su gusci vuoti, truffe legalizzate, miliardi di tasse evase e impunità indefessa di una manciata di esageratamente ricchi a discapito della collettività dovrebbe provocare.