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Upwelling, tra i frammenti della città di Messina

Upwelling di Pietro Pasquetti e Silvia Jop è un docu-film politico sui generis, che immortala lo sguardo di una città mitologica, affidando al cinema il compito di raccontare pezzi di vita e realtà.

Siamo a Messina, tra i frammenti di una città ricostruita a seguito di una delle più devastanti catastrofi naturali del Novecento. Nel 1908 un disastroso terremoto distrusse la città quasi per intero in 32 secondi, provocando la morte di circa metà della popolazione, mentre l’altra metà della città sopravvissuta emigrò.

Ricostruita a partire dal 1912, la città moderna si presenta con una maglia ordinata e regolare con vie ampie e rettilinee e con numerose “intrusioni urbane” verso l’interno collinare, che tendono a inglobare alcuni dei più antichi casali del territorio cittadino (i cosiddetti “Villaggi”).

Altri terremoti, bombardamenti hanno continuato a susseguirsi negli anni, macerie dopo macerie, letteralmente. «Quella che ho impressa nella memoria, non è più che un sogno. Non è che una visione scomparsa» – ci ricorda a inizio film “il cowboy” senza tempo che solca la spiaggia. [1] Di fronte: solo il mare.

Si sa, come scriveva John Steinbeck che il tempo è più complesso vicino al mare che in qualsiasi altro posto, perché oltre al transito del sole e al volgere delle stagioni, le onde battono il passare del tempo sulle rocce e le maree salgono e scendono come una grande clessidra.

A Messina gli autori hanno vissuto per due anni, cercando di «stabilire un’intesa profonda con le persone, che poi sarebbero diventate personaggi, di questo film».

Il film era cominciato come un viaggio nella stagione dei teatri occupati di tutta Italia, dal Teatro Valle agli altri, ma il progetto in divenire è cambiato una volta arrivati al Teatro Pinelli occupato di Messina. Lì, dall’involucro di cemento armato del Teatro In Fiera, situato in una delle zone più suggestive e cariche di storia ma abbandonato da quasi vent’anni, la cui platea era solo un cumulo di macerie, prese vita l’esperienza del Teatro Pinelli Occupato. Un tentativo di rivitalizzazione urbana in un luogo diventato in breve tempo hub cittadino, sede di assemblee, iniziative e dibattiti, concerti, performance, prove aperte, djset, un progetto di auto recupero e autogestione degli spazi, una porta sull’intera città.

La tristezza dello sgombero del Teatro a pochi mesi dalla sua occupazione nel 2013, viene raccontata con una scena di una calma piatta surreale.

Entriamo, poi, nel mezzo di un’assemblea in cui le ragazze e i ragazzi interpretano loro stessi.

«Io che si spendano soldi per minchiate speculative, non lo posso tollerare» – dice Max.

«Dobbiamo spingere l’immaginario di questa città… […] Non è che ci dobbiamo sempre accontentare di stare nelle topaie, nei posti sfigati, nella via abbandonata. E ho notato che secondo me ci fa veramente molto bene occupare posti belli» – incalza Giulia.

Il diritto al lusso, ad una socialità alternativa, a luoghi «in cui non è necessario essere ricchi per socializzare».

La città diventa progressivamente un vero e proprio motore narrativo che “svela”, “nasconde”, e “decide” cosa mostrare, come la macchina da presa.

Il linguaggio cinematografico appare immediatamente diverso da quello del documentario classico. Emerge, invece, il desiderio di costruire un film per immagini e visioni. La suggestiva colonna sonora dei “Cuori Sacri” ci accompagna nel viaggio all’interno della città, insieme ad una fotografia (di Pietro Pasquetti) molto curata, con un uso quasi “naturalistico” del colore e ad un montaggio che gioca sia sul conflitto tra figure contrastanti della scala dei piani, quanto su contrapposte strategie di rappresentazione iconica, un montaggio definito anche “punk”.

Pensiamo alla scena della protesta dei tir che bloccano lo Stretto, l’agitazione dei giornalisti che fanno a gara per la stessa ripresa, immagini che si alternano a delle mucche impassibili che mangiano erba e improvvisamente un’escursione stile noir, un frame dell’uomo anziano che abbiamo visto introdurci alla narrazione. Cammina di spalle in lontananza.

Alcune inquadrature, poi, sono spesso dei controcampi di qualcosa che sta succedendo, ma che non necessariamente vedremo.

La rappresentazione filmica sembra trasportarci onda dopo onda, in un eterno divenire, proprio come il movimento di risalita delle correnti marine profonde verso la superficie, l’Upwelling del titolo, che avviene negli oceani come nelle acque dello stretto di Messina facendo riaffiorare a volte dagli abissi alcune “creature favolose” e mitiche.

Personaggi che si aggirano e animano a modo loro una città contraddittoria: Pietro, il sociologo anarchico e punk, Max, l’occupante di spazi sociali, Danilo il pittore, Giulia, occupante del Teatro e la sua gravidanza, anche qui una nuova nascita. Giulia che in una breve conversazione da bar, rompe il cliché della famiglia genitoriale tradizionale parlando del figlio/a che aspetta: «in realtà c’ho un sacco di affetti, non sono una che ama la solitudine, ma non amo neanche la monogamia».

La voce senza tempo di Ella Fitzgerald (Russian Lullaby) accompagna l’arrivo dei mega traghetti monster e della turistificazione nella città. Una sequenza con vari movimenti di macchina che riprende gli sguardi verso l’alto su queste navi che sembrano grattacieli, e gli sguardi distratti verso il basso dei turisti.

Anche un’opera cinematografica – riprendendo le parole di Max – può essere un atto d’amore che scava sotto «la patina edulcorante con la quale si coprono le ferite», diventando «una lava incandescente, che prima di curarle, le ferite, deve saperle illuminare».

La domanda che ci si pone all’inizio del film: “Nascerà un’altra città?”, ha già trovato le sue risposte, come il mare che infrangendosi sugli scogli torna a ricomporsi e a riprovarci ancora ad abbattere le barriere, mai stanco di cimentarsi, in un eterno divenire, a dispetto delle intemperie.

Il film sembra non finire, anzi potrebbe continuare ancora.

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[1] Nei titoli di coda si legge che il monologo sulla catastrofe di Messina è liberamente tratto dall’articolo di Luigi Barzini: La visione di Messina distrutta, apparso su Il Corriere della Sera giovedì 14 gennaio 1909.