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Una serie turca controcorrente
Un “dizi” del 2021, ancora disponibile su Netflix, “Il club”, mostra con sorprendente audacia, nelle pieghe di un mélo ben confezionato, alcune delle vicende più drammatiche e censurate della moderna Istanbul
Ha senso recensire qualcosa del 2021? Sì, secondo l’irrefutabile considerazione di Marcel Proust per cui canzonette e serie Tv traversano di sghembo il tempo vissuto e cronologico. Puntiamo lo sguardo allora su una serie turca del 2021-2022, un dizi appunto, ben confezionato ma di per sé neppure sempre all’altezza dei migliori prodotti del genere (tipo Ethos o Fatma), tuttavia di grande interesse politico.
Partendo dall’assunto che, nel loro complesso, i dizi configurano una gigantesca operazione di egemonia culturale, in parte allineata e in parte dissonante rispetto ai progetti politici e militari del sultanato neo-ottomano di Erdoğan, risulta interessante vedere in quale misura ed entro quali limiti una parte di questa produzione si autonomizzi dall’ideologia ufficiale e dunque per paradosso, funzioni effettivamente come egemonia e non semplice propaganda di un modo di vita. Si potrebbe parlare dell’immaginario sui rapporti di genere che si discosta dai costumi approvati e suggerisce un modello di modernizzazione non sempre autorizzato – tenendo inoltre conto che la gran parte dei dizi è ambientata a Istanbul, anzi nel suo quartiere più cosmopolita (nonché adiacente alle sedi di produzione), Beyoğlu, e che lo stile di vita descritto e proposto a modello sarebbe inverosimile non solo in Anatolia ma già in quartieri stambulioti poveri di immigrazione come Fatih. Ma – traendo occasione da un dizi a dir poco sorprendente – vorremmo soffermarci sul tema delle minoranze nazionali e del loro rapporto con il mito di Istanbul che è il tratto comune di tutte le serie.
Parlando di minoranze e di storia della costituzione dall’alto di un’identità nazionale turca premettiamo che vi sono dei tabu che un genere di larga audience non può evocare.
Il genocidio armeno, la questione curda, lo status dell’immigrazione siriana, è proibito ricordare Gezi Park (lo sostituisce, in modo allusivo, la coeva battaglia contro la demolizione del cinema Emek), però problemi meno scottanti possono essere sfiorati, per esempio mostrare personaggi ebraici e greci nelle trame e farli parlare nella loro lingua con sottotitoli – che è già molto tenendo conto del ruolo che un feroce monolinguismo sanzionato penalmente ha avuto nel processo di turchizzazione (la legalizzazione in alcuni contesti della lingua curda è assai recente).
La storia di Istanbul, del resto, lo impone. Dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453 la popolazione mista grecofona dell’ex-capitale bizantina rimase in loco, in buona parte senza convertirsi e anzi rappresentata amministrativamente dal Patriarcato ortodosso e si concentrò soprattutto lungo le coste e nel quartiere di Fener. Lo strato più ricco e colto, i fanarioti, appunto, costituì l’élite civile e diplomatica dell’Impero ottomano, spesso delegata al controllo dei principati balcanici vassalli. Le cose cambiarono con la rivolta greca del 1821 e l’indipendenza greca, che separò il nazionalismo ellenico dalla diaspora e andarono ancor peggio con le guerre balcaniche che resero sospetta la popolazione greco-ottomana e riversarono in città i profughi turchi espulsi dai Balcani.
La katastrofí del 1922, ovvero la cruenta espulsione dei Greci dall’Asia minore e lo scambio delle popolazioni nel 1924 lasciò sussistere solo una ridotta minoranza greca a Costantinopoli, ormai Istanbul, ostilmente considerata ma ancora ricca. Dal 1492 in terra ottomana (soprattutto a Salonicco, Smirne e Istanbul) si riversò una cospicua massa di Ebrei sefarditi (cioè espulsi dalla Spagna-Sefarad) e parlanti giudeo-spagnolo (ladino, un castigliano medievale con prestiti lessicali ebraici). La loro condizione, rientrando come Greci e Armeni e altri cristiani nella categorie dei protetti, tassati e autorizzati (dhimmi) era molto migliore che nell’Europa dell’Inquisizione e le grandi dinastie sefardite acquisirono un peso notevole nella sfera commerciale e bancaria dell’Impero e della sua capitale, lasciando a Beyoğlu uno dei suoi segni iconici, la scalinata Camondo (l’altro è la torre genovese di Galata), mentre l’insediamento d’elezione dei ceti medi e popolari fu il quartiere di Balat, adiacente a Fener, lungo il Corno d’Oro.
Quando nel fatidico Anno apocalittico della Bestia, il 1666, l’avventura messianica di Sabbatai Zvi si concluse con l’apostasia e la conversione all’Islam, numerosi furono gli Ebrei e le Ebree che lo seguirono, i cosiddetti Dönmeh, che in realtà restarono cripto-giudei (come i marrani sotto l’Inquisizione), concentrandosi soprattutto a Salonicco e spostandosi solo con lo scambio forzato delle popolazioni del 1924 a Istanbul, dove tuttora sopravvivono –soprattutto nella centrale e borghese Nişantaşi (quella della giovinezza di Pamuk) – osservando clandestinamente il sabato e praticando i digiuni di Kippur e del Ramadan. Laici e progressisti in maggioranza proprio in quanto marrani sui generis avevano svolto un ruolo importante nella rivolta anti-ottomana dei Giovani Turchi (come del resto molti Armeni), che aveva per epicentro Salonicco, ripagati però con diffidenza con il trionfo dell’etno-nazionalismo turco nella nuova Repubblica.
Durante la seconda guerra mondiale la Turchia resta neutrale e accoglie numerosi profughi Ebrei ed Ebree dai Balcani, favorendo il loro passaggio verso la Palestina, ma all’interno il governo İnönü adottò misure fiscali afflittiva contro le minoranze ricche (la Varlik Vergisi, del dicembre 1942), non per antisemitismo ideologico ma per ultra-nazionalismo e per fare cassa, colpendo la comunità ebraica e ancor più i Dönmeh – sono gli stessi anni in cui i discendenti dei Camondo, trasferitisi a fine Ottocento a Parigi, venivano deportati ad Auschwitz e sterminati.
Malgrado la diminuita importanza delle minoranze storiche nella repubblica turca rispetto all’Impero ottomano, il loro trattamento – insieme all’emergente questione curda e la mai accettata presenza alevita – resta un fattore discriminante per lo sviluppo della democrazia turca. La diaspora greca di Istanbul mantenne caratteri diversi dall’ellenismo nazionalizzato e provinciale di Atene (ne parlava spesso con competenza Costanzo Preve), come pure, all’altro capo del Mediterraneo, quella greco-ebraica (e in piccola parte italiana) di Alessandria, resa mitica da Kavafis, orientalizzata nei romanzi di Durrell e dispersa negli anni ’60 con la rivoluzione nasseriana.
Durante la prima sindacatura İmamoğlu, poi diventato il leader della coalizione anti-Erdoğan smorzando il rigido nazionalismo del CHP, attualmente destituito e arrestato, viene girato nel 2021 da un’apprezzata regista donna, Zeynep Günay Tan, Il club, non sempre eccelso qualitativamente nell’arco delle sue due stagioni, ma di spiccata audacia politica nella sua rilettura della storia turca (disponibile su Netflix).
Protagonista è Matilda, un’ebrea sefardita, ultima sopravvissuta di una potente dinastia di armatori (gli Aseo) mandata in rovina e deportata nel 1942 in base alla citata Varlik Vergisi.
L’allora ragazza aveva confidato al marito il nascondiglio dei fondi riservati al soccorso degli Ebrei balcanici e greci rifugiati nella neutrale Turchia e che tentavano di emigrare in Palestina e il disgraziato, in combutta con speculatori verniciati di ultra-nazionalismo, aveva spifferato il tutto alla polizia portando al sequestro dei beni e alla deportazione e morte dei maschi della famiglia.
Matilda allora affida la figlia Raşel all’orfanotrofio ebraico, spara al marito e viene condannata all’ergastolo. Liberata per amnistia dopo 14 anni, cerca di ricostruirsi una vita e di recuperare la figlia abbandonata, che non ne vuol sapere anche perché la madre non può o non vuole spiegarle il perché di quella lunga assenza e che lei ha ucciso quel farabutto di suo padre. Comunque Matilda riesce a trovar lavoro in un cabaret d’avanguardia, stabilisce rapporti precari con la figlia, entrambe rinunciano a emigrare in Israele e la storia complicatissima (il manager del club, Çelebi, è un ex-dipendente degli Aseo, già allora innamorato di Matilda e che invano aveva tentato di metterla in guardia dal complotto ordito dal marito) va avanti fino alla ricomparsa degli speculatori del 1942, che ora puntano a impadronirsi dei beni della ridotta ma florida comunità greca e, con il pretesto della crisi di Cipro, in perfetta alleanza fra il governo populista di Menderes, servizi segreti, polizia corrotta e mafia locale che trasporta e arma contadini xenofobi dall’Anatolia, organizzano nel settembre 1955 il pogrom anti-greco di Istanbul.
Sotto la solita vernice ultra-nazionalista, le violenze, mostrate con rude brutalità a chiusura della prima stagione, servono a far fuggire i greci proprietari dei ricchi negozi che costeggiano l’Istiklal Caddesi (ancora chiamata Grande Rue de Péra), abbandonando anche le residenze lussuose di cui i palazzinari si impadroniscono e le abitazioni popolari del Fener che vengono affittate ai nuovi immigrati anatolici e abbandonate al degrado (salvo recuperarle a fini di gentrificazione nel nuovo secolo). Ancora nel 2005, nel cinquantenario, una mostra fotografica su quel censuratissimo pogrom fu devastata dalla teppa nazionalista.
Uno spiegone materialistico che marca con accenti critici la continuità di governi diversi – kemalisti o populisti, senza dimenticare che proprio Erdoğan, notoriamente colluso con i palazzinari, sta cercando di riabilitare Menderes, destituito e impiccato dai militari.
Nel pogrom è coinvolto anche il proprietario del club, Orhan, un cripto-greco, che si è trasferito da bambino a Istanbul da Smirne nel 1922 insieme alla madre e nasconde la sua origine etnica per fare carriera. Ma la madre, affetta da Alzheimer, ricomincia a parlare in demotico, i due vengono scoperti e, quando l’appartamento va in fiamme durante il pogrom, rivive l’incendio di Smirne che segnò la fine dell’ellenismo microasiatico. Entrambi spariscono nel tumulto, in un ottimo finale di prima stagione da melodramma verdiano.
Passano cinque anni, è il 1960, c’è anche lì la prima scandalosa della Dolce vita cambiano i costumi e cominciano le rivolte studentesche (qualcuno anche nello staff del cabaret) contro il governo Menderes – rivolte che furono di ispirazione, insieme alle sollevazioni universitarie in Corea contro Syngman Rhee, per la battaglia antifascista che si conduceva a casa nostra e poi culminò nel luglio 1960.
Naturalmente mostrare cortei universitari che chiedono democrazia e si scontrano con la polizia era un segno pesante già nel 2021, dopo Gezi Park, figuriamoci oggi, dopo le agitazioni di inizio 2025. Nella vicenda televisiva sono passati cinque anni dalla morte presunta di Orhan nel pogrom e possono scattare le manovre per impadronirsi di un cabaret di grande successo. E nel pretendente nuovo proprietario Matilda riconosce lo speculatore che l’aveva venduta alla polizia nel 1942. E, s’intende, era fra i fomentatori del pogrom del 1955.
Ma i tempi sono un po’ cambiati (restando simili). Con la rivolta studentesca, assorbita e repressa dal primo di una lunga serie di golpe militari, tramonta la vecchia generazione degli speculatori e ai palazzinari subentrano i figli, la generazione degli “sviluppatori”, che non si accontentano di “nazionalizzare” (rubare) la rendita ma vogliono assumersi funzioni imprenditoriali, gestire il cabaret e non semplicemente sfruttare l’area edificabile. Alla storia reale si intrecciano le performance e le bizzarrie degli e delle artiste nonché le complicate vicende sentimentali di Matilda e Çelebi, della figlia Raşel e del suo partner musulmano e della nipotina Rana – intrigante mescolanza di due filiere etno-religiose ad auspicio di una Turchia plurale.
Fermiamoci qui con lo spoiling, credo di aver accennato a come si fa egemonia culturale, innovando la narrativa senza espliciti proclami rivoluzionari ma utilizzando pieghe e margini di un genere pop.
L’immagine di copertina è di pubblico dominio
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