approfondimenti

OPINIONI

Un nuovo 1968? Non ci contate troppo

L’analogia fra i movimenti nei campus Usa e in Europa del ’68 e le attuali manifestazioni pro-Palestina è suggestiva e promossa con pathos dai sopravvissuti di quella remota stagione. Ma le realtà e il mood sono molto diversi, per le differenze di ciclo economico e la ridotta incidenza delle giovani generazioni. Infine oggi tutto sta sotto il segno di un regime di guerra che cambia la congiuntura

Dicono che è un altro ’68. Non la vedo così.

Innocenti non ce ne sono più

Non ve lo immaginate così allegro, gentile, dolce e innocente. Non arriverà sulla scia di un Summer of Love californiano, sull’onda di musiche piene di energia vitale anche se cominciavano a essere disperate e i loro interpreti morivano di overdose e di rado oltrepassavano la soglia destinale dei 27 anni. Era ancora una stagione di furiosa speranza e di innocenza, di erba e Lsd, con l’eroina in agguato e il crack nello sprofondo.

Oggi stiamo nel segno del Fentanyl e la creatività psicotropa ha ceduto il passo alla distruttività.

Ve lo sognate un altro ’68, vi piacerebbe proprio, ma lo state of mind è irreversibilmente cambiato.

I rivoluzionari hanno sempre avuto lo sfizio di costruirsi una genealogia illustre (i Levellers con Gerusalemme, l’Esodo e il Giubileo, i giacobini con la Roma repubblicana, tutti i socialisti con i giacobini fino a Trockij con il Termidoro); i vecchi, poi, non finiscono mai di saziarsi con i ricordi imprecisi della loro adolescenza di passioni e furori. Tutto molto umano e gratificante, però in sostanza e per lo più sbagliato.

Al di là degli autoinganni la rivolta – delle élites e delle masse, dei lucidi e degli alterati – sarà molto più dura, all’ombra della guerra, degli attentati suicidi, dei bombardamenti a tappeto e dei pogrom.

Come in Civil War si ucciderà tanto per uccidere, senza motivazioni ideologiche e progetti.

Giusto per intenderci, la trap sarà la colonna sonora del presente, non l’avvolgente rock psichedelico o l’acido disincanto dei Velvet o il ribellismo gangsta rap.

Quei tempi li rimpiangerete. Scordatevi gli insorti ammirevoli, gli eroi positivi, la seducente violenza rivoluzionaria. Credete a un sopravvissuto che quei tempi li ha attraversati con qualche attrito: niente ritorna eguale a se stesso e stavolta la resa dei conti sarà più radicale – anche se non è detto che vinceremo e comunque non farò a tempo a vederlo. 

Effetto guerra

Ora che siamo nel vortice del movimento e del regime di guerra in escalation è futile ripercorrere come tutto sembra essere cominciato – il fallimento degli accordi di Minsk, il 7 ottobre – perché sono momenti astratti di processi separati ma irresistibilmente convergenti, sebbene esiti di genealogie distinte. E già a quelle date non riuscimmo a schierarci, c’era un difetto di comprensione che era l‘aspetto soggettivo di un cambiamento radicale di congiuntura rispetto a cicli di lotte che ormai mostravano di appartenere a un altro millennio della cui logica eravamo prigionieri quanto i nostri nemici storici (che continuano a essere tali).

Gli elementi sono ancora gli stessi, ma stanno combinati in modo diverso, su cui non si vede dove mettere mano, come far presa.

Materialmente, gli anni che precedettero il 1968 furono in Occidente il picco del fordismo e dei consumi nel quadro della convertibilità del dollaro in oro e della crescita dello stato sociale, la gloriosa epopea del maschio bianco e delle sue aspettative progressiste e di reddito (almeno sino alla fine dei ’70, quando lo scenario si oscura e cambia). Inoltre negli anni ’50 negli Usa (e nel decennio successivo con uno scarto cronologico a cascata in Europa e in Italia, dove il picco demografico è toccato nel 1964) viene a consolidarsi la figura dei “giovani” quale classe demografica e comportamentale, sulla base dell’aumento post-bellico delle nascite, dell’incidenza percentuale dei nuovi nati sulla popolazione e dell’aumento del livello di scolarizzazione – quindi della loro permanenza collettiva nella High School e nei colleges e del conseguente formarsi di una subcultura giovanilistica e in seguito di una controcultura sovversiva sul piano del costume e delle scelte politiche. L’idealismo di quelle generazioni aveva solide radici sociali, peraltro soggette a cambiamenti nel corso del tempo, e questo spiega il loro felice inserimento nella crisi congiunturale aperta dalla guerra fallimentare in Indocina e dalle battaglie per i diritti civili in Usa, in Europa anche dall’intersezione con l’ultimo grande ciclo di lotte di classe. Salari, pensioni e diritti crescevano a ogni rinnovo contrattuale – in Italia dal 1962, che è anche l’anno dell’istituzione della scuola media unica, cruciale per la scolarizzazione di massa.

Il terzo millennio non ha avuto le stesse premesse. Il trionfo del neoliberismo ha smantellato lo stato sociale e messo in crisi ideologia e strutture organizzate della sinistra vecchia e nuova, riducendo e frammentando le sue basi di classe con il decentramento produttivo e occupazionale, che in Italia ha portato addirittura – a differenza di Usa e Ue – a un sensibile calo di stipendi e salari rispetto agli anni ’90.

Si vanno anche smorzando le periodiche rivolte generazionali per il dato oggettive della ridotta incidenza demografica delle nuove leve. Sebbene la popolazione Usa sia in crescita, il ritmo è sensibilmente scemato fra i censimenti del 2010 e del 2020 (soprattutto nella componente “caucasica”) e la fertilità è crollata a una media di 1,73 figli per donna (grazie soprattutto alle donne nere e ispaniche – queste ultime in forte aumento per l’immigrazione), cioè al di sotto della soglia di sostituzione fra nati e morti e in forte avvicinamento all’inverno demografico Ue (media 1,46) e ancor più dell’Italia (1,24 nel 2023, oggi 1,20). Inoltre la popolazione è relativamente invecchiata, soprattutto nella componente bianca, in Usa.  In Europa i giovani sotto i venti anni sono calati fra il 2001 e il 2020 dal 23% al 21% – in Italia al 18%, con una perdita nei due decenni di 3,5 milioni di unità per la fascia d’età under 35!

In parole povere: sul piano delle mobilitazioni e del peso elettorale i giovani non contano più un cazzo e nessun automatismo li farà pesare se non scendono in campo politicamente e si conquistano così visibilità. Se non fanno paura a una società invecchiata, depressa e militarizzata.

Superfluo ricordare, infine, i due tagli epocali della crisi economica mondiale del 2008 e della pandemia covidica nel 2020-2022, che non solo hanno sconvolto la logistica e i flussi economici globali ma hanno azzerato l’immaginario di chi non aveva subito le delusioni degli anni ’80 e seguenti. L’entità quantitativa e la composizione politica degli attori sono dunque assai diverse fra il 1968 e oggi. Il keynesismo militare sta sostituendo il keynesismo sociale – segno allarmante dell’avvicinarsi di una guerra.

Dove andiamo a parare?

Cosa concluderne?

Che è difficile fare previsioni sulla direzione e sui risultati che possono ottenere i movimenti attuali, la cui maggiore analogia con il passato è la velocità di contagio e diffusione, anche se l’area interessata è al momento più ristretta per quanto riguarda l’incidenza politica (forte negli Usa, discontinua in Europa, debole in Italia). Nell’ambito tuttavia di una generale deplorazione della politica israeliana, che coinvolge largamente il Sud del mondo (molto più che la solidarietà con il Vietnam di un tempo). Intendo dire che il nesso fra mobilitazione universitaria, causa palestinese ed effetti politici tangibili (sulle elezioni presidenziali Usa, per esempio) è molto stretto nei campus statunitensi, fino a costringere Biden a cambiare i termini del suo appoggio, prima incondizionato, a Israele. Non vi è stata però, finora, una frattura culturale epocale come nel 1968, piuttosto un’implementazione della svolta accademica e mediatica woke degli ultimi anni.

Ma il punto decisivo è che oggi viviamo in un regime di guerra globale, non paragonabile ai giorni del Vietnam. Gli studenti americani (e solo loro) avevano paura di andarci a morire, ma non di morire a casa loro per una estensione del conflitto (quella paura era finita con la crisi dei missili a Cuba nel 1962). Gli studenti europei erano nati dopo la fine della seconda Guerra mondiale e vivevano da venti anni in una pace continentale ininterrotta. Per quanto ingiusto e oppressivo l’ordine della guerra fredda era un ordine.

Lo sconvolgimento geopolitico attuale si innesta su una situazione incancrenita che mette in luce l’ingiustizia profonda dell’assetto precedente e il cuore di tenebra del sistema occidentale di potere con la giustificazione diplomatica e valoriale del colonialismo vecchio e nuovo e perfino dell’apartheid. Senza tuttavia che la generosa solidarietà da fuori di quei teatri di guerra possa agganciarsi a una direzione politica soggettiva all’interno di quei teatri e lasciando dunque irrisolto il problema di una ricomposizione effettuale delle lotte ­– che restano tali e legittime ma reciprocamente separate con forti rischi di derive identitarie e “campiste”.

Il progetto israelo-statunitense di mettere una pietra tombale sulla questione palestinese e di accerchiare l’Iran con gli accordi d’Abramo è saltato con il 7 ottobre e si è approfondito con la feroce e sconsiderata reazione del governo Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania e l’apertura di un fronte houthi anti-occidentale sul Mar Rosso. La questione palestinese, molto più di quella ucraina, è diventata la linea di frattura fra Occidente e Sud globale, come ha testimoniato l’iniziativa giudiziaria del Sud Africa e la resurrezione parziale dell’Onu. Si sono aperte due faglie vistose all’interno dell’Occidente stesso: lo indicano le proteste studentesche Usa e la diserzione di parti consistenti dell’elettorato dem e della diaspora ebraica statunitense dai rispettivi orientamenti prevalenti. Se la terza guerra mondiale potrà essere evitata o dilazionata dipenderà molto da queste secessioni.

Foto di copertina di wikicommons

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