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Un libro scomodo, per fortuna

La tesi di Federico Zappino in “Comunismo queer”. Note per una sovversione dell’eterosessualità (Meltemi, Milano 2019) è che occorre considerare l’eterosessualità come un modo di produzione delle persone, degli uomini e delle donne, che opera “leggendo” in modo gerarchico le differenze anatomiche, così da renderle strumenti di classificazione sociale

«L’eterosessualità non è l’opposto dell’omosessualità, ma della giustizia sociale». Questa frase di Jack J. Halberstam (2017) può essere considerata un punto di partenza, e, per certi versi, di arrivo, dell’ultimo lavoro di Federico Zappino, una raccolta di saggi scritti in diverse occasioni (conferenze, seminari, altri interventi pubblici) e legati fra loro da alcune tesi “forti” che suggeriscono precise scelte di campo ai movimenti queer. A partire da una concezione dell’eterosessualità che prende le distanze in modo esplicito da importanti tradizioni di pensiero – su tutte, quella foucaultiana, che vedrebbe nel suo (supposto) correlato, l’omosessualità, un’“invenzione recente”.

In Comunismo queer, Zappino prosegue e approfondisce, in un certo senso, il percorso delineato nel precedente lavoro Il genere fra neoliberismo e neofondamentalismo (2016). A differenza di quanti credono che il neoliberismo e il neofondamentalismo si rivelino a lungo andare incompatibili, e che il secondo non sarebbe nulla più che una scoria del passato, un residuo di fasi dello sviluppo occidentale in via di estinzione o (come troppo spesso si è sentito a margine del Congresso mondiale delle famiglie di Verona) un “retaggio del Medioevo”, Zappino elabora gli strumenti concettuali necessari a render conto del fatto che neoliberismo e neofondamentalismo, di fatto, vadano tranquillamente a braccetto: «Il capitalismo – scrive infatti fin dalle prime righe – resta invariabilmente maschio, bianco ed eterosessuale» (p. 18).

Occorre quindi considerare l’eterosessualità come un modo di produzione – ecco la tesi di Comunismo queer. E, precisamente, come un modo di produzione delle persone, degli uomini e delle donne, che opera “leggendo” in modo gerarchico le differenze anatomiche, così da renderle strumenti di classificazione sociale. In questo senso, la differenza si fa disuguaglianza. Meglio: è prodotta retroattivamente dalla disuguaglianza. L’eterosessualità così intesa, dunque, comprende già il “patriarcato”, dal momento che tale produzione dei generi si dà nel contesto di un “rapporto sociale” che trasfigura questa produzione gerarchica nella “differenza sessuale” da cui dipenderanno le modalità di inclusione condizionale o di esclusione radicale di tutte le forme di soggettivazione e di relazione. Solo secondariamente, pertanto, l’eterosessualità è un orientamento sessuale. «Gli uomini e le donne», scrive Zappino, «le loro attitudini, le loro propensioni, le loro inclinazioni, sono il frutto del modo di produzione eterosessuale della soggettività e della relazione. E questo modo di produzione è interamente sociale: noi stessi, che siamo il suo prodotto, siamo anche obbligati a riprodurre l’eterosessualità se vogliamo ambire a una qualche forma di intelligibilità e riconoscibilità, ed essere riconoscibili significa essere messi a valore e al lavoro dal capitale. Ecco su cosa il capitalismo si fonda. Pertanto, gli uomini e le donne possono solo essere oggetto di sovversione, non di tutela. Tutelarli significherebbe tutelare il modo di produzione eterosessuale, le sue diseguaglianze, i suoi rapporti di forza. […] E il fatto che ci sembri così difficile pensare che sovvertire gli uomini e le donne significherebbe gettare le basi per il comunismo non è che la conferma del fatto che qualunque tentativo compiuto finora di sovversione della matrice di ogni diseguaglianza politica, economica e sociale, sia stato coscientemente depistato dalla trasfigurazione di questa diseguaglianza in mera differenza» (p. 34).

Da questa seppur breve sintesi della tesi centrale del libro dovrebbe risultare chiaro perché il carattere «totalitario» (p. 43) del modo di produzione eterosessuale indica l’impossibilità di tradursi in semplici correttivi formali, come la lotta al pregiudizio omo-transfobico o quella contro gli stereotipi di genere – quest’ultima oggetto di serrata critica nel saggio scritto a quattro mani con Deborah Ardilli, “La rappresentazione dei normali rapporti di dominio” (pp. 187-202). Il modo di produzione eterosessuale non può che essere sovvertito o, per usare la formula di Monique Wittig, distrutto. E, infatti, il materialismo queer che emerge dagli scritti che compongono il volume si iscrive in una linea di pensiero che va proprio da Monique Wittig e da Mario Mieli (cui è dedicato il saggio conclusivo, “Mario Mieli e il gaio comunismo”) a Judith Butler, pervenendo a una «teoria materialistica della performatività di genere» (p. 241).

Si tratta di un approccio ricco di implicazioni. Prima fra tutte, il rapporto problematico che si evince con l’anticapitalismo, poiché, come scrive Zappino,

Il capitalismo non si limita a “creare” […] specifiche condizioni di esclusione e di sfruttamento per le singole situazioni di vulnerabilità o di oppressione. Tutt’al contrario: è a partire dalle singole, specifiche, condizioni di vulnerabilità e oppressione che il capitalismo deriva e modella le diverse forme di sfruttamento o di esclusione, riproducendo poi, attraverso di loro, specifiche condizioni di vulnerabilità (p. 49).

In altre parole, la teoria del comunismo queer postula che il capitalismo non costituisce l’inizio e la fine di ogni oppressione:

Se noi pensiamo che il capitalismo “crea” specifiche forme di sfruttamento e di esclusione, pensiamo anche che prima del modo di produzione capitalistico non vi fosse alcuna specifica forma di oppressione, e che il suo superamento le eliminerebbe automaticamente tutte. Il comunismo queer che propongo, invece, considera l’eterosessualità come modo di produzione che precede quello capitalistico e che, pertanto, è destinato tranquillamente a sopravvivergli, nel caso in cui il superamento del capitalismo non fosse preceduto da una sovversione dell’eterosessualità stessa. Se vogliamo lottare efficacemente contro il capitalismo – da cui dipende l’oppressione, la diseguaglianza e la violenza attualmente esperita dal maggior numero di persone al mondo – dobbiamo farci carico delle singole modalità che lo sfruttamento o l’esclusione assumono, perché ciascuna di quelle modalità riferisce di una specifica matrice di oppressione che concorre nella definizione di ciò che, in termini generici, definiamo poi “sfruttamento”, “esclusione” e, innanzitutto, “capitalismo”. Non dobbiamo demandare al proletariato che vincerà la lotta di classe la successiva abolizione del modo di produzione eterosessuale. Noi dobbiamo piuttosto fare in modo che la nostra vittoria, in quanto proletariato, promani essa stessa dalla sovversione dell’eterosessualità. Quando noi lottiamo genericamente contro lo sfruttamento o contro l’esclusione, ci opponiamo al capitalismo inteso come inizio e come fine di ogni oppressione possibile o immaginabile. Quando noi lottiamo invece contro le specifiche forme che lo sfruttamento o l’esclusione assumono, ci opponiamo innanzitutto a ciascuna delle singole matrici di oppressione da cui il capitalismo trae necessariamente linfa e sostanza per affermarsi e riprodursi. In entrambi i casi, si potrebbe dire, “lottiamo contro il capitalismo”. Ma è solo nel secondo caso che ci concediamo la possibilità di opporci ad esso a partire da ciò che ad esso si pone come presupposto necessario. È solo nel secondo caso che ci opponiamo al capitalismo a partire dalle sue cause, anziché dai suoi effetti più immediati o visibili (p. 50).

Per questo, il concetto marxiano di “classe” necessita di essere rivisto profondamente. Da una parte, se il genere (ossia, il “prodotto” del modo di produzione eterosessuale) non viene pensato in modo analogo alla classe intesa in senso strettamente economico, ogni articolazione della lotta anticapitalista sarà condannata a “includere” la questione del genere esclusivamente tramite correttivi liberali: la parità dei diritti, l’uguaglianza formale, le azioni positive. Dall’altra, i fenomeni che tradizionalmente vengono fatti discendere dal modo di produzione capitalistico – su tutti, la povertà – costituiscono per Zappino il frutto dell’incontro fra forme specifiche di vulnerabilità, tra cui la posizione che i soggetti occupano nell’ordine simbolico e sociale eterosessuale («La mia idea è che ciò che in quanto minoranze di genere e sessuali dovremmo includere nelle nostre rivendicazioni, è che esattamente come la subalternità razziale o determinata dall’abilità psicofisica, anche quella di genere e sessuale dovrebbe confluire nella de-naturalizzazione della povertà: si può entrare a far parte del gruppo sociale dei “poveri” proprio perché si diverge dal modo di soggettivazione e di relazione eterosessuale», p. 172). In questo quadro, a dire il vero, non è solo il concetto di classe a essere chiamato a una riconfigurazione. Anche la “classica” distinzione fra struttura e sovrastruttura viene a cadere: l’eterosessualità, che presiede alla produzione dei soggetti, è alla base dell’economia stessa.

Nella misura in cui l’eterosessualità è il modo di produzione in cui propriamente consiste la produzione degli uomini e delle donne, da essa scaturisce qualunque relazione – e di conseguenza la società, lo stato, il mercato. Paradossalmente, lo evinco dalle stesse parole di Friedrich Engels, quando nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, scrive che “secondo la concezione materialistica, il momento determinante della storia […] è la produzione e riproduzione della vita immediata”, tra cui “la produzione degli uomini stessi”. Ebbene, dalla mia prospettiva, quella “produzione” avviene nel segno dell’eterosessualità. Al punto che, come suggerì acutamente Mario Mieli, l’eterosessualità è addirittura “sottostrutturale”: “alla base dell’economia si cela la sessualità” (p. 208).

Quali alleanze sono dunque possibili? E, soprattutto, a quali condizioni? Comunismo queer – che si rivolge non solo a chi sia interessat* alla teoria queer, ma all’attivismo anticapitalista più in generale – ruota intorno a tali questioni sgombrando il campo dagli approcci improntati a ingenue versioni del metodo intersezionale. Nel saggio “Note sull’identità e sull’alleanza”, ad esempio, in cui Zappino esamina la visione delle questioni di genere nel pensiero di Toni Negri e Michael Hardt, vengono sottoposte a serrata critica i diffusi appelli all’alleanza “al di là delle differenze”. Tramite questo slogan, infatti, tali appelli intendono sostanzialmente mettere fra parentesi la specificità delle oppressioni, oppure ordinarle gerarchicamente:

Non c’è nulla di desiderabile in un’alleanza che, per la comprensibile istanza di “fare numero” contro un nemico di proporzioni immani – il capitalismo – finisce però per preservare tutte le gerarchie in assenza delle quali il suo stesso nemico non potrebbe materialmente funzionare. Ci si allea solo tra uguali, e là dove l’eguaglianza politica non esiste va fatta, affinché l’alleanza divenga materialmente possibile. Questa diseguaglianza, infatti, non è primariamente prodotta da quel nemico contro il quale ci si vorrebbe alleare. Piuttosto, è la causa della sua grandezza (p. 233).

Coraggiosamente, Zappino mette alla prova questa postura su un tema diverso da quello dell’eterosessualità, e molto controverso, quale quello dell’antispecismo, per cui applica la stessa fermezza nel distinguere fra un generico appello alla valorizzazione della “differenza” e il lavoro politico fondamentale di sovversione della disuguaglianza sui cui quella differenza si fonda. Prendendo in esame L’alleanza dei corpi di Judith Butler (2015), in cui l’autrice, muovendo dal pensiero di Donna Haraway, esprime vicinanza ai movimenti di liberazione animale, Zappino sottolinea come il mero riconoscimento butleriano dei legami di dipendenza fra gli umani e le altre specie animali non dice nulla sulle norme gerarchiche che li governano, cioè sui trattamenti differenziali di una comune, ontologica, precarietà. La “norma sacrificale” (Zappino 2015), che presiede alla produzione, e alla distinzione, dei corpi che contano e dei corpi che non contano, analogamente a quella eterosessuale, minimizza la precarietà di alcuni soggetti facendo leva sulla massimizzazione di quella di altri, configurandosi come «produzione antropocentrica della “specie”» (p. 232): pertanto, non può che essere sovvertita (e anch’essa, indiscutibilmente, costituisce uno dei presupposti del capitalismo). Ancora più esplicitamente, nel saggio dal titolo “Orgoglio, resistenza e sovversione”, Zappino formula le condizioni necessarie per un’intersezionalità foriera di alleanze autenticamente rivoluzionarie. Ossia: 1) la presenza di lotte specifiche contro specifiche matrici di oppressione; 2) l’attribuzione di uguale dignità a ciascuna di esse.

Come dicevamo sopra, l’impianto teorico da cui Zappino prende le mosse, anche e soprattutto in questo rifiuto del riduzionismo economicista tipico di molta pubblicistica marxista e dei movimenti anticapitalisti, opera un’attenta lettura dell’opera di Monique Wittig, cui è dedicato il saggio intitolato “L’eterosessualità, matrice della nostra oppressione”. Una lettura che ne sottolinea l’approccio materialista in grado di far emergere che la differenza sessuale, scambiata per l’origine dell’oppressione, non ne è in realtà che «il marchio imposto dall’oppressore» (Wittig 1992, 31): «È l’oppressione a creare il sesso, non il contrario» (p. 22). Da Wittig, Zappino mutua peraltro la definizione dell’eterosessualità come «sistema sociale che si fonda sull’oppressione delle donne da parte degli uomini, e che produce la dottrina della differenza tra i sessi per giustificare questa oppressione» (p. 41). Definizione che gli permette di motivare la propria scelta di parlare di eterosessualità senza alcun aggettivo (ad esempio “eterosessualità obbligatoria”, un concetto formulato da Adrienne Rich e oggi del tutto snaturato, impiegato a difesa dell’eterosessualità “buona”, “consensuale”, “scelta”) e senza ricorrere a locuzioni apparentemente più precise come “eteronormatività”. Una scelta terminologica scomoda, che sembra suscitare, da parte di molti anticapitalisti eterosessuali una resistenza immediata e spesso scomposta, verbalmente aggressiva, mirante a rassicurare sulla tenuta dell’ordine eterosessuale tramite l’appello al “diritto” all’eterosessualità in quanto semplice – e innocuo – orientamento sessuale. Si tratta di reazioni del tutto prevedibili, come sottolinea lo stesso Zappino:

Tra le parole che le ancelle dell’eterosessualità ti concedono di dire c’è “eteronormatività”. Oppure, puoi dire “eterosessualità obbligatoria”, di cui per prima parlò Adrienne Rich. Ma non si può nominare la parola eterosessualità, senza aggettivi o clausole concessive. Quando nomini l’eterosessualità vieni accusata di oltraggiare immotivatamente l’altrui “libertà” sessuale. Ciò, nella miglior tradizione che pure dovremmo conoscere, obbliga il tuo discorso minoritario a fare atto di sottomissione a quello dominante. Eccolo lì, all’opera, il pensiero eterosessuale. Eccola, in alcune delle sue forme, la straight mind. Ed ecco che allora inizi a fare tutti i distinguo del caso, azzardi addirittura una difesa dell’eterosessualità (a volte inizi a pensare che il contenuto dei tuoi discorsi possa urtare la sensibilità dei tuoi amici eterosessuali, che in fondo sono brave persone), cerchi di riparare al torto procurato, alla lesa maestà nei riguardi della “libertà” sessuale spiattellata ovunque, che non necessita affatto della tua difesa, ma che tuttavia la pretende, perché pretende che chiunque vi si sottometta, e perché al di fuori di quella sottomissione non esisterebbe nemmeno. Come se non fosse sufficientemente evidente, a chi si sente oltraggiato, che l’eterosessualità intesa come “orientamento sessuale” non è che la dimostrazione più lampante del perfetto funzionamento dell’eterosessualità come “sistema sociale che si fonda sull’oppressione delle donne da parte degli uomini, e che produce la dottrina della differenza tra i sessi per giustificare questa oppressione” (Wittig). Non solo sei tu a esperire l’oppressione di quel sistema sociale da cui invece chi si sente oltraggiato deriva quantomeno una forma di privilegio; devi fare anche attenzione a come ti esprimi, per non urtare la sensibilità di chi è parte del problema. Coloro che hanno da ridire quando nomini la parola eterosessualità, coloro che trasformano la coda di paglia in intimidazione, sono tra i principali responsabili della tua oppressione: e non, primariamente, per le loro pratiche sessuali, ma per il volontario ostracismo che mira a inibire la tua lotta (pp. 90-91).

Verrebbe da chiedersi, a questo punto, perché conservare un termine così abusato e ambiguo come “queer” per definire un progetto teorico e politico che mira a sovvertire l’eterosessualità. Zappino, tuttavia, nell’affermare la continuità fra femminismo (lesbico, in particolare) e queer, attribuisce a quest’ultimo il compito di indicare la matrice comune dell’oppressione delle donne e delle altre minoranze di genere/sessuali (il modo di produzione e il sistema sociale eterosessuale, appunto), pur esprimendo le proprie riserve su una serie di limiti che riguardano, soprattutto, gli sviluppi che il termine ha avuto in ambito accademico. Il posizionamento di Zappino rispetto all’accademia, del resto, emerge come uno snodo critico tutt’altro che secondario. Nel saggio dal titolo “L’altro dell’università può parlare?”, infatti, l’autore riprende le tesi espresse in un precedente articolo, La volontà di negare (Ardilli e Zappino 2015), in cui veniva sottoposta al vaglio critico la tendenza di un’ampia maggioranza dei movimenti Lgbtqi a rispondere agli attacchi neofondamentalisti negando l’esistenza di quello che questi ultimi identificano come ‘teoria del gender’ o come ‘ideologia del gender’. Tali strategie di risposta, pur comprensibili, sembrano effettivamente paradossali, poiché negano l’esistenza stessa delle teorie queer (in primis, della performatività di genere butleriana) su cui si fonda (o si dovrebbe fondare) la sovversione dei presupposti che animano l’azione dei neofondamentalismi – la stessa mossa di rispedire al mittente l’accusa di essere “ideologici” viene rigettata più in dettaglio nel saggio dal titolo “Elementi gramsciani per un separatismo queer”, che contiene anche un’appassionata difesa del separatismo come pratica politica depurata delle sue possibili connotazioni essenzialistiche. Nel saggio sull’accademia, Zappino propone una lettura di queste contraddizioni che mette a nudo alcune miserie del sistema universitario, un sistema in cui l’accesso è sapientemente regolato grazie a un dispositivo che, per quanto riguarda la critica all’eterosessualità, distingue fra il campo dei rispettabili Gender Studies (in nome dei quali si esprime l’opposizione di cui sopra ai neofondamentalismi) e una serie di saperi minoritari, contro-egemonici, queer, che si propongono di mettere radicalmente in discussione l’eterosessualità. L’apparente inclusione delle minoranze di genere da parte del sistema accademico si configura dunque come un’inclusione condizionata, il cui prezzo è un disciplinamento di coloro che vengono accolti e delle istanze di riconoscimento di un’ampia gamma di soggettività marginali.

In generale, l’approccio proposto da Comunismo queer sembra fornire le coordinate per impostare in modo coerente e radicale una serie di questioni aperte. Su alcune di queste, inoltre, l’autore tenta un primo esercizio pratico, come nel caso della lettura del film The Danish Girl (dedicato alla storia di Lili Elbe) alla luce delle categoria butleriane (“Performatività del genere e allegorie della transessualità”), in cui, ripercorrendo l’opera di Butler nei termini di un’ontologia del soggetto, oppone alle letture correnti, compromesse con l’ordine del discorso eterosessuale dominante, una lettura controegemonica della storia, in grado di aggirare il pericolo di ridurre «l’esperienza trans* alla ricerca di una vera identità, o alla correzione di un corpo sbagliato» (p. 145). Ma, soprattutto, Zappino non teme di affrontare i temi “divisivi” per eccellenza: gestazione per altri e sex work. emerge Argomenti attorno ai quali sottolinea l’importanza di avviare una discussione in cui i termini del problema non siano già di per sé fuorvianti e, per un verso o per l’altro, funzionali al mantenimento e alla riproduzione dell’eterosessualità, anziché alla sua sovversione: per un verso, per esempio, una concezione dell’“autodeterminazione” che affonda le proprie radici nell’ottimistica visione liberale dell’individuo sovrano e in grado di negoziare liberamente le proprie relazioni (visione che, chiaramente, occulta e allo stesso tempo naturalizza le profonde diseguaglianze che strutturano il contratto sociale); sul versante opposto, invece, una visione sacrale o essenzialista della maternità. La polarizzazione del dibattito sullo scontro fra questi due poli, secondo Zappino (che non parla dalla posizione di chi ha condotto gravidanze per altri, bensì «in quanto ascritto al gruppo sociale solitamente annoverato tra quelli che più di altri avrebbero interesse e motivo di riporre fiducia in questa pratica», p. 80), non farebbe che ostacolare l’articolazione di domande più utili ai progetti di trasformazione radicale, come ad esempio quelle sui nessi fra lavoro salariato, composizione di genere, modo di produzione eterosessuale.

Comunismo queer è dunque, indubbiamente, un libro scomodo: scomodo, innanzitutto, per gli «esecutori materiali» dell’oppressione del sistema sociale eterosessuale, ossia gli uomini eterosessuali, o almeno quelli che, fra loro, non sono intenzionati a condividere l’obiettivo politico della sovversione dell’eterosessualità; scomodo per le sinistre antagoniste che derubricano, in modo più o meno sofisticato, le “questioni di genere” a questioni sovrastrutturali, ossia secondarie, rispetto alla lotta alle disuguaglianze economiche; e scomodo, infine, per quei settori della galassia Lgbtqi il cui orizzonte è interamente occupato dalla “lotta agli stereotipi di genere”, dall’“educazione alle differenze” e dalla ricerca di un’inclusione delle minoranze che, puntualmente, implica però l’esclusione dei soggetti che il sistema sociale eterosessuale non può, e non vuole, arruolare.

Riferimenti bibliografici

Ardilli, D. e Zappino, F. (2015), La volontà di negare. La teoria del gender e il panico eterosessuale, in «il lavoro culturale», 14 luglio, http://www.lavoroculturale.org/la- volonta-di-negare/.

Butler, J. (2015), Notes Toward a Performative Theory of Assembly; trad. it. L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, Nottetempo, Milano 2017.

Halberstam, J.J. (2017), Whiners, Weinsteins, and Worse, in «BullyBloggers», 23 ottobre, https://bullybloggers.wordpress.com/2017/10/23/wieners-whiners-weinste ins-and- worse-by-jack-halberstam/.

Wittig, M. (1992), The Straight Mind and Other Essays; trad. it. Il pensiero eterosessuale, ombre corte, Verona 2019.

Zappino, F., a cura di (2016), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, ombre corte, Verona.

Zappino, F. (2015), Norma sacrificale / Norma eterosessuale, in Filippi, M. e Reggio, M., Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, Mimesis, Milano-Udine.

Una precedente versione è apparsa sulla rivista “About Gender”, V. 8, n. 15, 2019