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Com’è fatto un fantasma. Lacan visto da Leoni

Che cos’è un fantasma? È un evento, un gesto che accade, un assemblaggio di circostanze che assume una transitoria consistenza – come l’oggetto luminoso alla cui ricerca va l’Alice di Lewis Carroll; il mana del pensiero magico di Marcel Mauss; l’odradek di Kafka o le scatole di oggetti di Joseph Cornell. È attraverso questi fantasmi che Federico Leoni rilegge il pensiero di Jacques Lacan nel suo ultimo libro “Jacques Lacan, una scienza di fantasmi” (Orthotes)

Joseph Cornell ha iniziato la sua carriera di artista incontrando oggetti. La mattina presto usciva di casa e, girando per la città, ne raccoglieva gli scarti: bottigliette, piume, pezzetti di stoffa, bicchieri, vecchie fotografie abbandonate, perline, conchiglie, occhiali, rottami di ogni tipo. Erano incontri contingenti con pezzi di mondo a loro volta contingenti: cose cadute fuori dal loro uso, residui abbandonati dalla vita, resti di lavori e di progetti altrui. Immagazzinando tutto ciò, Cornell aveva trasformato il seminterrato di casa propria in un grande accumulatore di potenza. Di lì emergevano, come da un vulcano, nuove combinazioni. Tornate in superficie, le cose morte riprendevano vita in assemblaggi inusitati, con accostamenti spesso sorprendenti, incorniciati dentro scatole di legno con un’anta di vetro. A mezzo secolo dalla loro creazione, le sue shadow boxes non finiscono di suscitare un certo stupore: come suggerisce il loro nome, sembrano aver catturato e messo sotto teca delle ombre. Malinconiche reliquie del passato, ma anche sguardi sull’infinita possibilità di ricombinazioni future. Cose non più necessarie divenute segni del caso, il quale, sotto gli occhi dell’artista, si consolida in una nuova necessità, salvo rifluire in una futura casualità che sarà la necessità di qualcos’altro ancora. Ciò che le scatole di Cornell incorniciano è esattamente questo transito dalla necessità alla contingenza e viceversa, il punto in cui l’una si rivela l’ombra dell’altra.

Hanno la stessa umbratile consistenza i fantasmi di cui si occupa l’ultimo libro di Federico Leoni, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi (Orthotes): oggetti ed eventi sempre sul punto di stagliarsi all’orizzonte, mentre vacillano tra un non più e un non ancora, tra la contingenza di una fine e l’inizio di una nuova necessità. Non per nulla all’opera di Cornell è dedicato un capitolo e una delle sue scatole-fantasma campeggia in copertina, esibendo una pipa da cui spuntano immagini di conchiglie come bolle di sapone.

 

 

Peculiarità del libro è il punto di osservazione adottato: l’autore volge lo sguardo verso l’alba e costringe a guardare le cose nella luce della loro insorgenza. Scorgiamo così costellazioni che si sfaldano e si riassemblano entro nuove coordinate, istituendo un nuovo mondo, una nuova struttura, una nuova cornice. Ciò che ogni capitolo mostra è allora sempre la stessa cosa, come suggerisce la Nota finale che congeda il lettore. Ovvero, non una cosa, ma un movimento: lo strutturarsi di una struttura, l’istituirsi di un oggetto e di un soggetto, l’affiorare di una bolla. Per riuscire a vedere questa insorgenza, è necessario uno sguardo obliquo, che risalga controcorrente, riportando ogni cosa alla propria cornice e ogni cornice al suo stesso comporsi. Leoni apparecchia tale operazione in ognuno dei dieci capitoli, assimilabili ad altrettante scatole di Cornell o alle bolle fantasmatiche della sua pipa.

Ora, non è semplice descrivere com’è fatto un fantasma (se non altro perché non è un “fatto”, piuttosto un farsi sempre in via di configurazione); ci proviamo raccogliendo alcuni tratti che emergono dal testo.

 

Lunghi capelli

Anzitutto, quelli di Leoni sono fantasmi capelluti. Potrebbe sembrare un luogo comune della letteratura e del cinema di genere, dato che gli spettri difficilmente vanno dal barbiere. Ma qui intendiamo altro. Di “oggetti capelluti” parla Bruno Latour in un volume recente, Essere di questa terra (Rosenberg & Sellier, 2019), e la definizione da lui coniata, nel contesto di un discorso ecologico volto alla prudenza, si adatta perfettamente agli oggetti fantasmatici che popolano il libro di Leoni. Latour porta a esempio il fiume: la costruzione di bacini di espansione per ridurne le piene può portare alla sparizione di quello stesso corso d’acqua, o magari alla sua ricomparsa altrove e in altra forma, con conseguenze ambientali non sempre desiderabili. Gli oggetti capelluti sono così, hanno frange che si intramano ovunque, sicché, come nel gioco dello shangai, se ne tocchi uno è facile che tu prenda dentro tutti gli altri con esiti imprevedibili.

Il paradigma dell’oggetto capelluto, in antropologia, è senz’altro il mana dei melanesiani. Su di esso ha attirato l’attenzione Marcel Mauss facendone un termine chiave del pensiero magico. Tradurlo come “forza” cancellerebbe la magia che lo avvolge. Invero, ogni traduzione sarebbe un avvilente taglio di capelli, considerato che la parola è, a un tempo, sostantivo, aggettivo e verbo e si riferisce sia a cose, sia a qualità sia ad azioni, prolungando i propri effetti di significato in una rete di discorsi difficilmente districabile. Si è meritato per questo l’appellativo di “significante fluttuante”, quasi a risaltarne la folta chioma. Il conio è di Lévi-Strauss, che del mana dà una formalizzazione algebrica paragonandolo allo zero, sorta di “casella vuota” o di carta matta, senza posto e senza valore, tutti i posti potendo occupare e tutti i valori potendo assumere. Va colto qui, osserva Leoni, lo strutturarsi della struttura, il suo grado zero, il punto cieco che non si lascia incorniciare in quanto accadere della cornice stessa. Lévi-Strauss è dunque riletto in contropelo: laddove l’antropologo, prendendolo dalle mani di Mauss, ha pettinato il mana dandogli un tono rispettabile, algebrico, scientificamente trattabile, Leoni lo spettina, rimettendole nelle mani di Mauss ed esibendone l’originaria capigliatura selvaggia. Non di un semplice vuoto si tratta, né di un composto e innocuo zero, ma di qualcosa nell’ordine di un gesto, di un movimento. La marca di un evento.

 

 

Così dovremmo intendere anche un altro fantasma capelluto, l’oggetto luminoso che l’Alice di Lewis Carroll tenta di catturare con lo sguardo tra gli scaffali di un negozio ma che scivola costantemente da un ripiano all’altro, come se vi lasciasse balenare solo la punta dei capelli. A sfuggire ad Alice, chiosa Leoni, è l’evento del suo stesso sguardo. Così dovremmo intendere anche un altro esemplare di oggetto capelluto tratto dalla letteratura, quel groviglio di fili che in uno dei suoi racconti Kafka ha chiamato Odradek e che dà il titolo all’ultimo capitolo di Jacques Lacan, una scienza di fantasmi.

Se il fantasma è un evento, un gesto che accade, un assemblaggio di circostanze contingenti che assume una transitoria consistenza, i suoi capelli ne sono il prolungamento, le diramazioni, gli effetti immanenti. In questa prospettiva l’autore rilegge un altro oggetto fantasmatico, quella creazione che Lacan ha considerato come il proprio originale contributo alla psicoanalisi, l’oggetto a piccolo. Sempre in quest’ottica viene tratteggiata anche la figura dello sciamano, altro topos degli studi antropologici, caro tanto a Mauss quanto a Lévi-Strauss, altro personaggio capelluto e particolarmente spettinato. E se il mana fa coppia con lo sciamano – giacché incarnano esemplarmente “i due lati di ogni gesto”, scrive Leoni, l’istituirsi sempre in corso di un oggetto e di un soggetto – l’oggetto a piccolo fa coppia con lo psicoanalista. Anche quest’ultimo ha qualcosa di fantasmatico o di sciamanico, se teniamo fede al paragone che sempre Lévi-Strauss ha tessuto a suo tempo tra psicoanalisi e magia e che risuona in sordina in queste pagine. Anche lo psicoanalista è un evento, un incontro contingente come quelli mattutini di Cornell con gli scarti disfunzionali della città.

 

Uno

Sin qui il libro di Leoni potrebbe sembrare una collezione di oggetti assurdi o particolarmente bizzarri. È certamente anche così, ma l’intento non è quello di allestire una wunderkammer con esotici souvenir tratti dalla psicoanalisi, dalla filosofia, dall’antropologia e dalla letteratura. La posta in gioco è tutta etica. E riguarda, in primo luogo, un’etica della psicoanalisi, dunque della cura e della formazione umana, proseguendo in questo il lavoro già iniziato dall’autore col precedente Jacques Lacan, l’economia dell’assoluto (Orthotes, 2016). A tal fine il libro insiste sull’Uno (ma forse, direbbe Leoni, è l’Uno che insiste nel libro): la scommessa etica passa attraverso una rilettura della formula lacaniana “il y a de l’Un”, discusso nodo teorico che non cessa di interrogare filosofi e psicoanalisti, come testimonia anche una recente pubblicazione di Alex Pagliardini, Lacan al presente (Galaad Edizioni, 2020).

Di qui un’ulteriore caratteristica dei fantasmi di Leoni: il loro accadere in Uno, essendo ogni volta quell’Uno che accade. Tutti quegli esseri capelluti che popolano le pagine del volume, tutti gli eventi che l’autore inanella da un capitolo all’altro, tutte le insorgenze di cui ci mostra simultaneamente necessità e contingenza, non sono in fondo che declinazioni (ulteriori capelli) di quell’unico fantasma che è l’accadere del mondo. O, come lo definisce Leoni, “l’operare sempre in corso”. Questo, nella sua rilettura, è l’Uno lacaniano: il fantasma dei fantasmi, ossia il fantasma che insiste in ogni fantasma. Qualcosa che non ha alcuna consistenza se non in quelle momentanee circostanze, in quegli oggetti e soggetti divenienti, a cui dà continuamente luogo.

 

 

Siamo dunque molto distanti dall’Uno solitario, vagamente autistico e masturbatorio, di milleriana memoria. Certo, come l’Uno di Pagliardini, anche quello di Leoni è inumano, del tutto indifferente alle nostre vicissitudini. Ma è anche l’Uno che insiste in ogni umana vicenda, che batte il ritmo di ogni sospiro come di ogni respiro, della fatica che ogni dissolvimento comporta e della gioia con cui ogni nuova relazione si tesse, ma anche della fatica di tessere e della gioia di dissolvere. Come la sostanza di Spinoza, che non sta altrove dai suoi modi senza per questo identificarsi con loro, così l’Uno di Leoni è l’intrecciarsi sempre in corso di un legame e, insieme, indifferenza a ogni legame.

È a questo Uno che l’autore affida il compito squisitamente “filosofico” di tenere sempre in bilico la psicoanalisi, evitando che essa caschi nella psicologia o nelle irrigidite procedure di una qualche pratica terapeutica. Così come, d’altra parte, la psicoanalisi può aiutare a tenere in bilico la filosofia, evitando che essa caschi in un gioco teorico fine a se stesso o in una qualche forma di sapere costituito. Non per nulla tornano in queste pagine temi e motivi di un altro recente libro dell’autore, gemello di questo ma più giocato sul versante filosofico: L’automa. Leibniz, Bergson (Orthotes, 2019). Lette insieme le due opere danno conto dell’operazione complessiva di Leoni: non acchiappare fantasmi ma liberarli dalle catene del già fatto e del già detto. Fantasmizzare il mondo per riscoprirne la potenza.

 

 

In copertina e all’interno del testo alcuni immagini delle opere di Joseph Cornell