cult

CULT

Prendere atto di Lacan, acconsentire al Reale

Nel suo ultimo libro, “Lacan al presente. Per una clinica del reale”, Alex Pagliardini si confronta con una delle categorie ancora oggi più scandalose e sfuggenti del pensiero lacaniano, quella di Reale. E prova a metterne in luce una linea “minore”, in controtendenza rispetto alle interpretazioni oggi più in voga, dove il Reale non è né impossibile, né mancante, ma è sempre e soltanto il suo accadere

Quante perfezioni, quante
quante totalità. Pungendo aggiunge.
E poi astrazioni astrificazioni formulazione d’astri
assideramento, attraverso sidera e coelos
assideramenti assimilazioni –
nel perfezionato procederei
più in là del grande abbaglio, del pieno e del vuoto,
ricercherei procedimenti
risaltando, evitando
dubbiose tenebrose; saprei direi.

(Andrea Zanzotto, La perfezione della neve)

 

Saprei direi, scrive Zanzotto, in alcuni dei suoi versi più belli, che, a opinione di chi scrive, sembrano rappresentare una testimonianza di quella che Lacan e gli analisti che si ispirano al suo insegnamento chiamano passe, dove l’analizzante A.Z. parrebbe raccontare della propria fine analisi, di quel momento in cui ci si mette – non si è messi – di mezzo a questo movimento-mancamento radiale – non mancanza – e il primo brivido del salire, del capire, partono in ordine, sfidano: ecco tutto.

Saprei direi, che cosa – non si trattiene dal domandare, assecondando il suo vizio più antico, il filosofo che scrive, che, immediatamente, prova a correggersi e aggiunge – o meglio, come? Sono queste le domande-forbici con cui vorremmo provare a ritagliare qualcosa dell’ultima fatica di Alex Pagliardini – Lacan al presente. Per una clinica del reale (Galaad 2020, 510 pp., 24€) – che si presenta, in un certo senso, come una corposa produzione di sapere su qualcosa – il reale – che, di rigore, sembra sottrarsi pervicacemente alla cattura da parte del sapere e che, conseguentemente, ha massimamente a che vedere con il sapere e le sue sorti.

Un reale che, cominciamo col dire questo, occupa totalmente la scena del libro. E non poteva essere altrimenti, dal momento che la declinazione del reale con cui solidarizza Pagliardini nei suoi testi – Jacques Lacan e il trauma del linguaggio (Galaad 2011), Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale (Galaad 2016) e, da ultimo, questo – non è quella – con cui ci ha abituato ad avere a che fare per lungo tempo Lacan e con cui ha ugualmente a che fare la maggior parte della letteratura lacaniana contemporanea – del reale come eccedenza che non cessa di tormentare le maglie del simbolico, non cessando di non scriversi al suo interno. È piuttosto quella – con cui prova ad avere a che fare quella linea che, nel testo, Pagliardini definisce «minore, cioè residuale, nell’insegnamento di Lacan» (p. 10) – del reale come assoluto, il reale dell’Uno-tutto-solo, come lo definisce lo psicoanalista francese nel Seminario XIX. Un reale che ci sembra poter fornire una nuova vita (minore anch’essa, probabilmente) alla categoria dell’impossibile – è questa una provocazione che facciamo all’autore –, dal momento che, si potrebbe dire, non cessa di non scriversi tout court, nella misura in cui il non cessare di non scriversi costituisce ciò in cui consiste il timbro specifico del suo ripetersi, del suo essere costantemente in atto.

 

La forma del libro e la sua strutturazione interna sono forse il sintomo più evidente del ruolo da protagonista indiscusso conferito al reale. La scrittura ne risulta traumatizzata. Essa, come i matemi di Lacan, accompagna al rigore di un ragionamento limpido e completamente trasmissibile, l’evocazione delle faglie che lo fendono. E, come i suoi nodi, rende icasticamente visibile la difficoltà di avere a che vedere, in un continuo fare e disfare, con quello che, facendo uso del vocabolario dell’autore, definiremmo l’accadere del reale come accadere.

 

La strutturazione interna porta lo stesso marchio. Il testo si compone di variazioni; si occupa, cioè, «sempre e solo della stessa cosa» (p. 12). Non si tratta più solamente di «incontri con il reale», ma di «variazioni sul reale».

Che cosa significa tutto questo?

Significa, in primis, almeno per come noi lo comprendiamo, che pensare il reale dal punto di vista del suo accadere diventa l’unico modo di avere a che fare con il reale e non un modo fra tanti. Corollario di ciò è che pensare il reale come eccedenza non è un modo di avere a che fare con il reale, o, almeno, ma forse qui è ancora il filosofo a parlare, non è un modo sufficientemente radicale di avere a che fare con esso. È un qualcosa di estremamente rilevante, nonché un passaggio necessario, ma rimane pur sempre un qualcosa che serve a mostrare la verità di tutti quei modi di non avere assolutamente a che fare con il reale – pensiamo a quello che per J.-C. Milner costituisce l’unico matema lacaniano, vale a dire le tavole della sessuazione –, di tutte quelle strutture che non hanno come obiettivo quello di avere a che fare con il reale, ma piuttosto di forcluderlo silenziosamente, collocandolo ai margini, dove si spera – e si agisce affinché – faccia meno rumore possibile. È tutto questo, ma non è ancora un modo di avere a che fare con esso.

Ma significa anche che esiste solo un modo in cui il reale accade. Sono certamente molteplici e radicalmente eterogenee le modalità con cui ci si può ritrovare ad avere a che fare con questo accadere, eppure ciò non toglie che sia solo uno il modo in cui il reale accade.

In che modo, allora, ci si deve domandare, il reale accade? La risposta non potrà che essere tranchant, a tal punto da lasciarci insoddisfatti, come ci lasciano insoddisfatti tutte quelle perifrasi con cui Lacan cerca di renderne conto – C’è dell’Uno, Non esiste che l’Uno, etc. –, che, infatti, lui non cessa di ripetere quasi fossero dei mantra e noi, ugualmente, non cessiamo di interrogare.

In che modo il reale accade? Accadendo.

 

Le variazioni di cui il libro si compone sono, pertanto, delle modalità con cui, spinozianamente, Pagliardini cerca di fornire delle espressioni all’accadere di questo accadere come accadere.

 

Cinque variazioni, tutte ugualmente dense, del cui contenuto non proviamo nemmeno a rendere conto dal momento che tale tentativo si risolverebbe nell’enunciazione di poche scarse generalità che nulla avrebbero a che spartire con la profondità e la singolarità che, invece, le caratterizza.

Preferiamo concentrare il nostro ritaglio su una di esse, l’ultima, quella il cui timbro è più immediatamente clinico e di cui, per questa ragione, probabilmente, saremmo meno titolati a parlare. Ci assumiamo lo stesso questo rischio nella misura in cui ci sembra la più titolata a rendere conto del senso più intimo del testo, quella in cui si riscontra più visibilmente la sua verità, nonché la più indicata a rispondere ai nostri interrogativi iniziali. Saprei direi. Che cosa? Come?

In questa variazione, Pagliardini affronta la questione dell’atto analitico e della fine analisi a partire da un’affermazione che non lascia spazio a dubbi di alcuna sorta: c’è psicoanalisi se e solo se c’è atto analitico. Per quale ragione? Pagliardini non lo esplicita, ma ci permettiamo di dedurlo: perché, come afferma Lacan nel Seminario XVI, «[è] fin troppo evidente che il godimento costituisce la sostanza di tutto ciò di cui parliamo nella psicoanalisi» (J. Lacan, Il Seminario. Libro XVI. Da un Altro all’altro (1968-1969), testo stabilito da Jacques-Alain Miller, a cura di A. Di Ciaccia, tr. di A. Di Ciaccia e L. Longato, Torino, Einaudi, 2019, p. 39). E l’atto analitico è l’unico tramite attraverso cui il parlessere può porsi nelle condizioni di avere davvero a che fare con il godimento.

Proveremo a interrogare l’ampia riflessione che Pagliardini istruisce attorno all’atto analitico da due versanti differenti – a partire da due interrogativi –, accomunati da due efficaci definizioni di che cosa è l’atto, proposte dall’autore in uno dei capitoli di cui si compone questa variazione – L’atto psicoanalista.

 

L’atto analitico che determina la fine analisi – altrimenti non è un atto analitico – è, afferma Pagliardini: i) un prendere posizione rispetto al reale, che si risolve in ii) un assenso al reale. Tale assenso, a sua volta, consiste nell’accadere del reale. La fine analisi è, pertanto, teatro di un acconsentire all’accadere del reale che è un acconsentire al reale come accadere.

 

Il primo interrogativo concerne il portato epistemologico di tali definizioni. Lo articoliamo, pertanto, in questo modo: esiste un sapere dell’/nell’atto?

A partire dalle considerazioni di Pagliardini, tenderemmo a rispondere di sì.

Il fatto che nessun soggetto padroneggi tale sapere non dovrebbe spaventare, nella misura in cui un vero sapere è sempre senza soggetto. C’è del sapere dell’atto, che consiste in quello che, con Lacan, definiremmo un saperci fare e che, a nostro avviso, si esercita, nel teatro della fine analisi, in due forme differenti, attraverso due soggetti differenti: l’analista e l’analizzante.

Per quanto riguarda l’analista – se agisce come quello che Pagliardini definisce un analista sinthomo – esso si esplica nel tentativo di fare accadere il reale come accadere. Per quanto concerne l’analizzante, invece, esso si esplica nel tentativo di lasciare accadere il reale come accadere e, aprendo a uno spazio che, probabilmente, non è più (solamente) territorio psicoanalitico, saperci fare, saperlo sbrogliare, saperlo manipolare. A vegliare su entrambe, sembra dirci Pagliardini, c’è la figura di Joyce. Nel primo caso, ciò che della scrittura di Joyce consente di accostarlo a quel Santo con cui Lacan interpreta la figura dell’analista, ossia il fatto che faccia del linguaggio un urto che non vuole fondare niente, ma si afferma come tale e, così facendo, tocca l’assoluto. Nel secondo, ciò che della sua scrittura ambisce a fondare un (nuovo) linguaggio. È il Joyce, ci sembra, che, attraverso la sua scrittura, supplisce all’assenza del Nome-del-Padre, il Joyce sinthomadaquin ed S.Ca.bello di cui ci parla, enigmaticamente, Lacan nell’ultimissima fase della sua riflessione.

Il secondo interrogativo è più arrischiato nella misura in cui si produce a partire da un’inversione non certo priva di problematicità, ma che riteniamo possa rivelarsi produttiva al fine di fare luce su una serie di questioni. Lo articoliamo in questo modo: esiste un atto del/nel sapere? E ce ne serviamo per interrogare la citazione di Lacan che Pagliardini ha posto in esergo al suo libro e che ci sembra rivelare molto di più sul suo senso di quanto solitamente una citazione posta in esergo fa. Pagliardini, via Lacan, scrive: Segnalo che, come sempre, i casi di urgenza mi intralciavano mentre scrivevo queste righe.

Domandiamoci, allora, che cosa fa Pagliardini quando scrive questo libro? E, allo stesso modo, che cosa stava facendo Lacan quando, invece che stare accanto al lettino, teneva il proprio seminario?

 

A nostro avviso, Lacan e Pagliardini fanno qualcosa che, quando è fatto bene, ha molto a che vedere con quello che abbiamo definito sapere dell’/nell’atto. Essi prendono posizione rispetto al reale, forniscono a esso il proprio assenso, acconsentono al suo accadere (come accadere) anche sul piano della produzione di sapere.

 

Che cosa significa? Significa che si impegnano, all’interno del proprio singolare dominio epistemico, nella creazione di nuovi concetti, nel disegno di nuove piste d’indagine, la cui necessità è resa visibile proprio dall’emergenza del reale – dal suo accadere –, la quale rende necessaria una costante ri-articolazione dei gangli di qualsiasi sapere che si proponga di averci a che fare.

Lacan lo faceva rispetto a Freud. Quel Freud a cui rimase badiousianamente fedele per tutta la vita, a tal punto da affermare, un anno prima di morire, a Caracas, in occasione del primo Incontro internazionale del Campo freudiano: Tocca a voi essere lacaniani, se volete. Io sono freudiano. Fedeltà che, tuttavia, non gli impedì di riarticolare molte delle architetture concettuali freudiane e di fare un’affermazione come quella che ritroviamo in Joyce il Sintomo: «Ne discende la mia espressione del parlessere che si sostituirà all’ics di Freud (si legga: inconscio): fatti il là che mi ci metto io, dunque» (J. Lacan, Joyce il Sintomo, in Altri scritti, tr. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 558).

Pagliardini lo fa rispetto a Lacan. Significante che compare nei titoli di tutti i suoi libri e che, in questo, è opportunamente declinato al presente. Altro significante, «che lasciamo senza significazione, cioè un significante scritto per non essere letto» (p. 12), afferma Pagliardini, ma nel quale noi decidiamo, invece, di leggere il tentativo di scongiurare che il riferirsi a Lacan divenga un ostacolo al rilancio continuo di quel processo di concettualizzazione – era lo stesso Lacan a scongiurarlo, quando affermava: Fate come me, non imitatemi! – che, come abbiamo già detto, dovrebbe orientare l’esercizio, teorico e pratico, di qualsiasi sapere che si proponga di ricalibrare le proprie architetture a partire dall’accadere del reale, anziché proteggerle da esso, come si fa con le reliquie dal tempo.

Nella volontà di Pagliardini di costruire una clinica del reale – ecco l’ultimo significante che compare nel titolo, a indicare «un orizzonte, qualcosa per il quale non siamo pronti» (ibid.) – rileviamo uno dei tentativi più riusciti, in ambito psicoanalitico, di assumersi l’onere di rilanciare tale processo di concettualizzazione, di acconsentire al reale.

Ecco perché crediamo che la cosa più indicata da fare sia considerare il suo stesso libro come un atto, nel quale egli stesso agisce tanto come analista – nella misura in cui lascia che il reale accada –, quanto come analizzante – nella misura in cui prova a trovare il modo di avere a che fare con tale accadere, a sbrogliarlo, a manipolarlo. In ognuna delle sue pagine, egli prende atto di Lacan o, che è lo stesso, acconsente all’accadere del reale.

 

Nell’immagine di copertina, un fotogramma di Pierrot le fou di Jean-Luc Godard