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“Tonya”, fenomenologia del white-trash

Esce in questi giorni nelle sale italiane “Tonya”, il film con Margot Robbie sulla pattinatrice americana Tonya Harding, protagonista di un celebre scandalo sportivo degli anni Novanta. Ma che mostra soprattutto una storia di impossibile emancipazione dell’America working class

Qualcuno forse si ricorderà di uno degli scandali sportivi più eclatanti degli anni Novanta quando durante i campionati nazionali di pattinaggio americani del 1994, qualche mese prima delle Olimpiadi di Lillehammer, la pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding fu accusata di aver organizzato e partecipato alla violenta aggressione della rivale Nancy Kerrigan, che fu bastonata alle gambe dopo un allenamento e che rimase infortunata per tutti i mesi precedenti alle olimpiadi.

Tonya, biopic sportivo del regista australiano Craig Gillespie, presentato lo scorso autunno al Toronto Film Festival e ora da pochi giorni nelle sale italiane, ripercorre non solo l’evento che segnò la vita sportiva della Harding (impersonata da una strepitosa Margot Robbie) ma anche l’intera parabola rise-and-fall della sua vita a partire dal milieu sociale della sua famiglia poverissima delle campagne dell’Oregon, in cui si poteva finire a tagliare la legna prima di andare a scuola o dopo gli allenamenti.

E in una famiglia proletaria di questo tipo, come accade spesso in America, la passione per lo sport coltiva l’illusione di una riscossa sociale e di una fuoriuscita dalla condizione di povertà. Il problema è il difficile contesto degli sport a punteggio, specialmente femminili, in cui conta molto la presentazione, il sorriso, l’eleganza, l’apparenza dell’outfit e del trucco. Tonya Harding, la cui capacità tecnica era straordinaria (fu la seconda donna, dopo la giapponese Midori Itō, ad eseguire un triplo axel in una competizione ufficiale) non piacque mai alle giurie delle proprie gare, che probabilmente preferivano un modello angelicato di pattinatrice sul ghiaccio: lei, bella, ma goffa non riuscì ma a scrollarsi di dosso l’immagine di ragazza white-trash senza speranze.

Ma Tonya è anche un film sulla violenza nella famiglia di partenza e nella famiglia di arrivo. La Harding ha una madre “mostro” (e Allison Janney ha vinto un oscar per quest’interpretazione agli ultimi Academy Awards), che una sigaretta dopo l’altra, abusa di lei verbalmente, psicologicamente, fisicamente sin dall’infanzia, e a cui lei “sostituisce” un compagno e un marito altrettanto violento, Jeff Gillooly, che ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda della disintegrazione della sua carriera da pattinatrice. A ogni tentativo di fuoriuscita dalla povertà e della violenza tramite lo sport, fa da contrappasso l’impossibilità di staccarsi dal contesto di provenienza, il rischio materialissimo di lavorare al ristorante come la madre, la consapevolezza di aver buttato ore e anni di allenamento per rimanere nello stesso buco di prima.

Girato come un mockumentary (cioè un finto documentario) Tonya non solo passa continuamente tra l’ironico e il grottesco, ma tramite questo registro svela anche come la verità sia un’acquisizione stratificata, oggetto conteso tra il finzionale e il reale. Se il personaggio di Tonya Harding, negli anni Novanta fu una vicenda oltremodo mediatizzata, il lavoro di Craig Gillespie si propone allora di operare una riflessione di secondo livello: una critica esplicita proprio su quello specifico uso mediatico della vicenda nella ricostruzione della verità. Alla violenza della madre e del marito si aggiunge la violenza delle telecamere, che portano la pattinatrice in cima solo per un attimo verso la gloria, per farla poi precipitare nell’abisso delle accuse. Tonya Harding arriverà lo stesso alle Olimpiadi invernali qualificandosi come ottava proprio perché la pubblicità data dell’aggressione aumenterà l’audience generale della competizione sportiva. In sede processuale le verrà invece ritirato il titolo di campionessa americana e sarà esclusa da ogni ulteriore competizione nel settore.

I media negli anni hanno tentato di riannodare i fili della vita della Harding, cercando di carpirne i dettagli, raccontandola ora come una bieca arrivista, ora come una pedina della madre-monster e del marito reaganiano, comunque sempre come l’ultima degli ultimi che voleva andare lontano più delle altre, ad ogni costo e oltrepassando “sul ghiaccio” (fisicamente anche) qualunque altro corpo danzante si sovrapponesse davanti a lei.

La narrazione mediatica dello sport è da sempre infarcita di immagini stereotipate, misoginia, sessismo neppure troppo latente e spesso ogni evento sportivo, diventa l’occasione per dare libero sfogo al behind the scene, al gossip che racconta le biografie umane che “si celano” dietro la rigida (e molto poco glamour) disciplina degli allenamenti. Lo dimostrò l’analogo caso (pure citato nel film) di O. J. Simpson che sempre nel 1994 fu coinvolto in quel cosiddetto “processo del secolo” che mostrò a tutto il mondo l’intreccio tra il machismo e la violenza (di lui), le discriminazioni razziali della polizia e i rilievi delle prove eseguiti maldestramente.

Il film di Gillespie riesce a restituire uno scorcio degli anni ’80 e ’90 che va dalle periferie e dalla marginalizzazione della working class di Portland alle paillettes delle gare Olimpiche internazionali, evitando molti dei cliché sulle parabole cinematografiche sportive dell’eroe perdente, ma dando spessore al personaggio della Harding, che a modo suo è stata un’icona e che ha avuto la sua “gloria” mediatizzata, parafrasando il cult Flashdance omaggiato nel film. Perché Tonya non tocca solo la violenza nello sport dentro e fuori i luoghi deputati, e neppure soltanto la violenza di genere, ma il modo in cui entrambi questi aspetti siano amplificati dal surplus della rappresentazione mediatica (TV, assedio dei giornalisti alle gare, scandalismo, replica infinita in rete), fino a farci vedere una violenza autonoma e supplementare, che per quanto estremamente incisiva, è spesso molto difficile riuscire a rendere visibile.