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The Assistant

Primo lungometraggio dell’australiana Kitty Green, “The Assistant” è un film sull’invisibilità del lavoro contemporaneo e sottopagato. Ma anche quella di un potere, di classe e di genere, capace di rompere qualsiasi legame e solidarietà

C’è un momento simbolico in The Assistant, il primo lungometraggio di finzione dell’australiana Kitty Green. Uno dei compiti della giovane protagonista, al primissimo lavoro come assistente di un importante produttore a capo di una casa di produzione cinematografica, è quello di sistemare le stanze dove si tengono le riunioni. Alla fine di una di queste Jane mangia un cornetto rimasto intatto. È effettivamente un rifiuto, uno scarto, un qualcosa che chi sta sopra lascia (volente o nolente) alla sottoposta affamata, a cui manca il tempo materiale per mangiare dati i ritmi lavorativi. Lo sguardo di disapprovazione e pena dei due impiegati, maschi, in giacca e cravatta, che entrano mentre Jane addenta il prezioso avanzo è uno dei momenti più potenti del film: non un sopruso esplicito, come ne vediamo altri, ma un paternalista sdegno che svela precise dinamiche di classe e di genere.

Uscito in sala in USA e poi presentato nella sezione Panorama al festival di Berlino, il film non è arrivato nelle sale italiane a causa della pandemia, ma lo si può recuperare online. Non si vede mai, l’illustre produttore, viene solo chiamato “Lui”, ma è chiaro che il riferimento implicito è a Harvey Weinstein: anche il Lui del film ha giovani amanti, anche lui è un molestatore, anche lui usa il suo potere per sedurre e molestare. Ma c’è molto di più in questo sorprendente film.

 

The Assistant è soprattutto un film sull’invisibilità. L’invisibilità è quella del lavoro sottopagato di molte e molti giovani laureati in grandi compagnie di vario tipo, sfruttati con la promessa di una carriera futura – un meccanismo tipico del capitalismo contemporaneo, un continuo rinviare a tempi migliori.

 

L’invisibilità è poi quella della protagonista; solo alcuni la vedono e possono interagire con lei: i suoi vicini di stanza, appena superiori, ma comunque incredibilmente maschilisti e paternalisti, che scrivono le email per lei dettandogli le parole quando questa si inimica il capo. E invisibile è lo stesso capo, di cui udiamo (spesso in maniera volutamente confusa) la voce, vediamo l’ufficio vuoto ma sicuramente abitato, ma non lo vediamo mai. Eppure se Jane è invisibile per gli altri, non lo è per noi (ecco che la maschera cade): l’impressionante Julia Garner – già vista nelle serie The Americans e Ozark, qui a una prova forse decisiva per la sua carriera – viene ripresa da tutti i punti di vista, continuamente, spesso diventiamo noi i suoi occhi attraverso spettacolari soggettive. A tratti il film sembra quasi un esercizio su quanti punti di vista si possono costruire su corpo e volto di un’attrice, esaltandola e valorizzandola. Un’ossessiva partecipazione emotiva con la protagonista che diventa claustrofobica e totalizzante, che ci fa sentire con lei più che per lei. Tanti i punti di vista quante le attività, le skills che Jane deve mettere in pratica, sapendo fare tutto, accontentando tutti, in un vortice di cose da fare dalla mattina prestissimo (la prima ad arrivare, non è ancora l’alba) fino a sera tardi, finché il capo, che ridacchia in ufficio con l’amante di turno, le concede di andarsene, ben oltre tutti gli altri.

 

Vediamo messo in scena un processo di de-umanizzazione costante, per cui appena possibile tutti i protagonisti si mettono a guardare il cellulare, incapaci di comunicare l’uno con l’altra, incapaci di vedersi.

 

 

 

È uno stimolo continuo, un lavoro che non si ferma mai, che non può fermarsi, un flusso diverso ma forse complementare a quello che abbiamo visto in Uncut Gems (Josh e Benny Safdie, 2019). I timidi tentativi di uscire da questa dinamica infernale sono stroncati sul nascere. Per ben due volte, Jane tenta di fare qualcosa di diverso, e si prende violentissime strigliate del capo via telefono, che intuiamo più che udire perché il suono è via telefono nelle orecchie di Jane mentre la camera rimane appena distaccata, concentrata su di lei e non su Lui: la prima volta, aiuta la moglie con una questione di carte di credito, ma questo non solo esula dalle sue competenze, ma è una violazione di campo e di sfera (non c’è solidarietà femminile possibile, in questa e altre scene); la seconda volta, Jane va dal capo delle Risorse Umane (le famigerate HR) per denunciare, con una serie di eufemismi, le relazioni del capo con giovani attrici e assistenti, solo per venire umiliata con condiscendenza («sei qui da poche settimane, la prima ad arrivare l’ultima ad andare via, non credi di essere solo un po’ stressata?») e respinta con un chiarissimo invito a star zitta e cieca se vuole fare carriera, seguito da un atroce «non preoccuparti, non sei il suo tipo». L’HR, come chi ha visto The Office sa, è in teoria un arbitro, un attore imparziale tenuto ad ascoltare le critiche dei dipendenti al capo: ma qui e altrove è prima di tutto un maschio che difende un altro maschio più potente.

Il momento in cui Jane lascia l’ufficio, alla fine di una lunghissima giornata, infilandosi in un minimarket per mangiare qualcosa, dovrebbe essere un momento di pace, finalmente fuori. Ma subito si attacca di nuovo al cellulare per chiamare i genitori apprensivi e orgogliosi, perché Jane ha dimenticato di fare gli auguri di compleanno al padre: la de-umanizzazione è completa, non rimane nulla di Jane, nessun rapporto, nessuna possibilità di interazione che non sia inquadrata all’interno delle strutture economiche e lavorative. Solo la carriera molto in potenza e poco in atto.

 

Le immagini sono dei fotogrammi presi da “The Assistant”