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The Art of The Brick: DC Super Heroes

Fino all’8 aprile a Palazzo degli Esami a Trastevere è possibile vedere “The Art of the brick: DC Super Heroes” di Nathan Sawaya, l’avvocato divenuto artista che ha trasformato il gioco in una vera e propria mostra

Billund, Danimarca. Una città composta da file di piccole casette colorate disordinatamente e incastrate l’una con l’altra, addossate sulla riva di un fiume. Qui, all’incirca a metà del secolo scorso, forse proprio traendo ispirazione da quelle buffe costruzioni, un modesto falegname-giocattolaio comincia ad utilizzare la plastica colorata per creare giocattoli componibili con sistemi modulari, abbandonando l’utilizzo del legno (memore forse del disastroso incendio che nel 1924 aveva distrutto la sua prima bottega). È l’inizio della storia commerciale di un’azienda che si espande di pari passo con l’espansione del sistema capitalistico perdendo le sue radici artigiane. Nei settant’anni che ci separano dalla creazione del primo mattoncino LEGO (dalla crasi delle parole danesi leg godt, “gioca bene”, cui più tardi si sovrappone la coincidenza con il verbo latino “lego”, raccogliere, assemblare) tante sono le innovazioni ludiche lanciate sul mercato dall’azienda: trenini con motore elettrico, giocattoli ipertecnologici per adulti, linee produttive brandizzate che si richiamano ai successi del mondo cinematografico. Per i fanciulli, ore ed ore di gioco creativo passate ad incastrare mattoncini pensando di costruire castelli, grattacieli, caserme (per poi abbatterle pezzo per pezzo) o chissà quali oggetti concettuali, bruscamente interrotti dalle urla genitoriali causate dall’incauto e scalzo incontro con uno dei pezzi colorati più famosi del mondo. Nel frattempo, un altro insieme di tecnologie era in procinto di cambiare per sempre il rapporto puerile con la fantasia e l’immaginazione: gli effetti speciali cinematografici. Così un rametto diventava la luminosa e sonora spada laser di un Cavaliere Jedi, i salti dal divano diventavano vorticosi spostamenti fra grattacieli come quelli di Spider-man e una bicicletta scassata e cigolante sfrecciava fiammante come una Batmobile.

Probabilmente è proprio in queste passioni che va ricercato il successo dell’exhibition dello statunitense Nathan Sawaya, in mostra fino all’8 aprile a Palazzo degli Esami. Imponente e bianco edificio alle porte di Trastevere, un tempo sede di concorsi pubblici e oggi ceduto al fondo immobiliare privato FIV. All’interno della mostra, che ha già viaggiato in 75 città, si trovano 120 creazioni divise in più di una quindicina di sale per un totale di circa due milioni di mattoncini. Ma non è quello numerico, sebbene impressionante, l’aspetto più rilevante della mostra, e tantomeno l’esoso prezzo del biglietto (in realtà è possibile trovarne a prezzi scontati sui siti che propongono deal). All’ingresso, dopo una foto in posa con Joker che mangia i pop-corn indossando occhialini 3D come nel cartone animato “The Batman”, è lo stesso autore che in un breve video introduttivo rivela il cuore pulsante della mostra, accompagnando anche in seguito il visitatore con spiegazioni soggettive di ogni opera. Ex-avvocato che abbandona la noiosa professione forense per convertirsi all’arte del mattoncino, come un moderno Socrate invita lo spettatore a vivere l’esposizione non in maniera passiva ma come un percorso per cercare il supereroe che è in lui o in lei, convinto aprioristicamente che un qualcosa di straordinario ci sia e vada solo ricercato. Non resta che immedesimarsi nelle statue, in verità stupefacenti per lo statico dinamismo, non tanto per reificazione, quanto per l’esaltazione di un superuomo o di una superdonna che, secondo Sawaya, sicuramente ognuno custodisce in sé. A partire dalla straordinarietà delle opere, soprattutto quelle bidimensionali che tramite mattoncini piatti raffigurano le copertine di alcuni numeri dei fumetti DC in un lavoro analogo a quello dei puntinisti, la mediocrità non è ammessa: si indaga il lato straordinario di tutto, senza mai guardare a quello umano, non un accenno a Clark Kent, a Bruce Wayne, a Barry Allen, a Diana Prince. È facile immedesimarsi con il timido, occhialuto giornalista innamorato di Lois Lane o con il brillante studentello di chimica appassionato di fumetti… ma chi vuole vivere un’esperienza di entertainment per sentirsi ordinario?

Va detto che gli eroi DC si prestano tutt’oggi in modo particolare a questo tipo di interpretazione che trascende la quotidianità. Ben lontani dalla svolta più “umana” subita da alcuni eroi dell’universo Marvel (cominciata anni fa con lo stigma sociale e i tumulti adolescenziali dei mutanti di X-Men e sicuramente imposta agli altri personaggi per ragioni di budget nel passaggio alla piattaforma Netflix), i supereroi DC continuano a essere lontanissimi dalla banalità umana:  se Jessica Jones e Luke Cage sono avanzi di galera che trovi al bar a bere e come superpoteri hanno una mente analitica e saper fare a cazzotti, Wonder Woman è una semidea che vola, corre e nuota oltre la velocità della luce, ha un super-lazo d’oro, non conosce dolore e , in omaggio a quella che si ritiene essere la più grande paura umana, non invecchia mai.

Altrettanto approfonditamente, attraverso le rappresentazioni delle più famose nemesi, viene indagato un classico dei comics: il rapporto fra il bene e il male. Di solito le storie e i personaggi sono costruiti in un dualismo continuo in modo da agevolare la presa di posizione per chi, nonostante si ponga al di sopra di polizia, giudici, politica e istituzioni, si può identificare con il generico concetto di “bene” e mira a un’idea di mondo “più giusto” e città “pulite” che non prevedono l’esistenza di ladri, truffatori o peggio ancora di malvagi supercattivi che vogliono governare il mondo (quando non distruggerlo con intenti francamente suicidi).

In deroga a questa impostazione esistono figure come Joker: in bilico fra il mondo dualistico disegnato, Joker è in grado di far vacillare le convinzioni etiche di chiunque in questo semplicistico gioco di parti fra buoni e cattivi. E anche in questo caso è lui il personaggio che arriva a scombinare le carte, offrendo l’unico spunto umano della mostra. Lo storytelling DC lascia in fin dei conti libera interpretazione del sentimento che lega Joker all’ex psichiatra Harley Quinn. Sawaya lascia intendere la sua decidendo di esporli insieme in una piccola saletta a loro dedicata, richiamando il tormentato, distruttivo, stupendo e intenso rapporto d’amore esistente fra i due, vissuto lontano da qualsiasi altra vicenda fumettistica (fino all’estremo del viverlo su un’isola dove sono soli).

I supereroi raffigurati in varie pose peculiari dei loro poteri sono quelli della Justice League of America degli anni ’60: Aquaman, Green Lantern, Cyborg, Flash, Superman, Wonder Woman, Batman. Chi corre, chi vola, chi nuota, pugni possenti, mantelli svolazzanti. Ma dal numero delle statue dedicatogli è chiaro dove si dirigano le preferenze dell’artista. Mentre gli alter ego di quasi tutti i supereroi sono comuni umani che nascondono meticolosamente la loro missione in vite assolutamente average, c’è chi fugge da questo schema: Bruce Wayne. L’orfano miliardario che vive in un castello col maggiordomo Alfred non ha assolutamente nulla di ordinario, se non che il suo potere deriva dalla ricchezza. Il percorso espositivo è un crescendo che alla fine ci porta diretti in una Gotham City perfettamente incastonata nella location post-industriale del Palazzo degli Esami. Fra proiezioni del fascio di luce sul simbolo del pipistrello, arcigni gargoyle e maschere di Batman in policromia, quasi nascosta si intuisce l’apertura del luogo che in tanti avranno sognato. La Batcaverna accoglie nel suo ventre il vero capolavoro della mostra, una Batmobile a grandezza naturale costruita con mezzo milione di mattoncini, con tanto di ruote e fiammate posteriori.

Qui si conclude il percorso. Ci si sente straordinari, è vero, ma tutto si conclude nell’ultimo paio di stanze, fra merchandising e grandi vasche di mattoncini a disposizione di bambini e di chiunque desideri cimentarsi nel ricordare a se stesso che di Nathan Sawaya, l’uomo che ha lasciato i completi grigi e i tribunali per trasformare la passione di ogni bambino in un lavoro, ce ne vorrebbero un milione. O Forse due, quanto lo strabiliante numero di mattoncini che ci si lascia alle spalle salendo sui tram di viale Trastevere per reimmergersi nell’assordante traffico cittadino.