approfondimenti

ITALIA

Sulle uniformi e sull’uniformità. La “buona integrazione” come misura di polizia

A partire dal caso di Madalina Gavrilescu, attivista rumena allontanata dall’Italia, una riflessione sulla trasformazione delle politiche d’integrazione dei migranti e sul “lato oscuro” delle misure del governo gialloverde

A metà gennaio, Madalina Gavrilescu, cittadina rumena attivista dei movimenti per il diritto all’abitare di Roma, ha ricevuto un provvedimento di allontanamento dal territorio italiano. Il dispositivo inviato dal Prefetto le ordina di lasciare l’Italia entro 30 giorni «per motivi di sicurezza non imperativi», motivando la decisione con le seguenti parole: «gli atti e i comportamenti posti in essere, anche reiteratamente, dal soggetto sopra generalizzato evidenziano la mancanza di integrazione».

 

Una mobilità apparente

Quanto accaduto a Roma non rappresenta in assoluto una novità né, purtroppo, un fatto di per sé sorprendente. Nonostante la retorica sulla libertà di movimento e soggiorno, i cittadini europei possono essere espulsi dal territorio di uno stato comunitario diverso da quello di appartenenza, per diverse ragioni. Il diritto alla mobilità all’interno dello spazio UE, se fino a tre mesi è garantito senza particolari condizioni, subisce sensibili limitazioni una volta che questa soglia temporale viene superata. Inoltre, l’allontanamento può essere disposto in qualsiasi momento, in presenza di determinati elementi.

La Direttiva UE n. 38 del 2004, recepita in Italia dal Decreto legislativo n. 30 del 2007, specifica questi elementi e disciplina i diversi tipi di espulsione, indicandone le giustificazioni. Tra queste, figurano anche ragioni di tipo economico e lavorativo. Si può essere allontanati dal territorio di uno stato membro perché i requisiti previsti per il diritto al soggiorno sono venuti meno: perdere il lavoro e, quindi, avere un reddito inferiore a una certa soglia e non riuscire a mantenersi autonomamente, possono costituire fattori sufficienti.

La solidarietà tra i paesi membri, dunque, è un principio spesso evocato per dare sostanza al processo di integrazione ma non costituisce un tratto concreto e materiale del progetto europeo. Per quanto paradossale possa sembrare, il venir meno dell’obbligo di disporre di un permesso di soggiorno per vivere in un paese comunitario diverso dal proprio non ha significato, per i cittadini europei – e quindi anche per quelli rumeni –, né la fine dei vincoli alla mobilità né, tantomeno, l’accesso a un sistema di welfare transnazionale.

Oltre alle ragioni welfaristiche, alla base dell’allontanamento si trovano, di frequente, motivazioni legate a presunte minacce alla sicurezza dello stato, alla sicurezza pubblica, all’ordine pubblico, alla salute e alla sanità pubbliche. Le misure di questo tipo, invocate soprattutto nei confronti di persone che soggiornano da diversi anni in uno stato diverso dal proprio, si fondano su elementi meno “misurabili” di quelli relativi alla sfera economica e lavorativa. Certamente, condanne o vicende giudiziarie possono avere un peso rispetto alla decisione di espellere un cittadino comunitario. Tuttavia, alla base dei decreti normalmente emessi in questo ambito si trovano processi di etichettamento e di categorizzazione sociale, che rimandano a comportamenti e atteggiamenti considerati “sospetti” o “pericolosi” sebbene non necessariamente rilevanti sul piano penale.

Ci troviamo, insomma, nel campo del diritto poliziesco-amministrativo del “nemico”. Un campo dove le decisioni sulla vita delle persone sono prese sulla base di valutazioni effettuate da organismi di polizia, non – salvo rari casi – di indagini condotte dalla magistratura e seguite, magari, da percorsi processuali. All’interno di una cornice giuridica di questo tipo, la minaccia che Madalina rappresenterebbe per la sicurezza pubblica deriva – a detta della prefettura di Roma – dal suo non essere pienamente inclusa nel tessuto sociale in cui materialmente vive.

 

Una strana integrazione

L’argomento della mancata integrazione, a nostra memoria, è stato impiegato più volte, negli anni, nei confronti di rom rumeni, richiamando le condotte di vita e le attività economiche informali, o addirittura illecite, che caratterizzerebbero la loro quotidianità. In questo caso, tuttavia, la stessa argomentazione viene impiegata per punire indirettamente scelte e azioni di carattere politico. È l’attivismo di Madalina, infatti, che costituisce un problema agli occhi delle istituzioni. Le sue azioni in difesa del diritto all’abitare ne provocherebbero la mancata inclusione.

L’argomento impiegato dalla prefettura di Roma chiama in causa esplicitamente la questione dell’integrazione per nascondere la natura profondamente politica – e come tale minacciosa, dal punto di vista delle istituzioni – dell’agire quotidiano dell’attivista dei Blocchi precari metropolitani. Anziché dichiarare esplicitamente illegittima, e non soltanto illegale, una certa condotta politica, assumendosi le responsabilità di una simile dichiarazione e delle scelte che ne conseguono, si preferisce “depoliticizzarla” in maniera indiretta, chiamando in causa il mancato inserimento sociale e l’estraneità alla comunità italiana.

L’affermazione contenuta nel decreto di espulsione appare ancora più paradossale se la si legge alla luce delle categorie, teoriche e politiche, che plasmano le attuali politiche di integrazione. Dalla prospettiva della civic integration, ossia del paradigma al momento dominante nel settore, la piena inclusione si misura imparando la lingua del paese “ospitante” e dimostrando di conoscerne le norme civiche e giuridiche basilari. L’integrazione civica è una visione che agisce come dispositivo di disciplinamento assimilatorio rispetto a presunti valori fondativi della comunità ospite, che norma comportamenti sociali, che restituisce enfasi all’attivazione finanche morale dei cittadini, implicati nella partecipazione alla costruzione del bene collettivo (che sia attraverso l’opera volontaria, il lavoro di pubblica utilità, la prestazione lavorativa a carattere formativo gratuito in cambio del sempre più rarefatto welfare). Il richiamo all’ordine pubblico associato alle politiche di integrazione non fa che rinforzare l’idea di un ordine sociale immutabile, in cui ogni soggetto è collocato al proprio posto e le condotte non gradite, e dunque non meritevoli, vengono stigmatizzate. Autonomia e proattività individuale, unitamente all’omogeneizzazione linguistica e culturale, costruiscono i contorni del “buon cittadino integrato”.

Tra le azioni richieste ai non cittadini per dare conto della propria avvenuta integrazione – che non coincide automaticamente con il riconoscimento della cittadinanza – vi è il richiamo alla partecipazione ad associazioni e organizzazioni che si prendono cura del bene comune. Non a caso, il dibattito politico e accademico sulla rilevazione del grado di integrazione degli immigrati, che negli ultimi decenni si è sviluppato a livello internazionale, si è a lungo focalizzato sulla scarsa dinamicità politica di questi soggetti, osservata con forte preoccupazione. In Italia, peraltro, il sistema di indicatori dell’integrazione costruito dalle apposite Commissioni – istituite dalla legge Turco-Napolitano e poi di fatto soppresse dopo l’emanazione della Bossi-Fini – attribuiva una notevole importanza alla dimensione dell’associazionismo e dell’attivismo politico. Nella stessa direzione è andato l’Accordo di integrazione (Dpr 179/2011), nel cui ambito la partecipazione ad attività di volontariato e associative vale l’acquisizione di crediti per il cosiddetto “permesso a punti”, via maestra verso il processo di cittadinizzazione.

Più di recente, la “buona integrazione” promossa dall’ex ministro dell’interno Minniti attraverso il Decreto, poi legge, sulla protezione internazionale e il Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale ha individuato nel lavoro gratuito – rappresentato come una legittima “ricompensa” per la “generosa” accoglienza” riservata ai nuovi arrivati dalla componente “autoctona” della popolazione – la strada privilegiata per una piena inclusione di rifugiati e richiedenti asilo. Questa linea, peraltro, è stata fatta propria nelle scorse settimane da un altro esponente del PD, Giorgio Gori: l’attuale sindaco di Bergamo, in risposta al Decreto Salvini e ai suoi contenuti esplicitamente escludenti, ha pensato bene di proporre un modello di integrazione “alternativo”, che si è concretizzato nell’esperimento dell’Accademia dell’integrazione. Questo “progetto”, al di là delle retoriche inclusive e progressiste, si presenta come un percorso disciplinante, paternalistico e infantilizzante, che, invece di rendere le persone veramente autonome e capaci di autodeterminarsi, non fa che mirare alla costruzione di soggetti docili, riconoscenti e disponibili al lavoro, anche gratuito.

Se la disponibilità a farsi sfruttare è la cifra dell’antisalvinismo democratico, il salvinismo originale, più che sul lavoro – che preferisce riservare agli italiani, anche se gratuito o impiegato in maniera ricattatoria come condizione di accesso al welfare – sembra puntare sul civismo, altra dimensione dell’integrazione civica. Il Decreto legge Salvini (DL 113/2018, conversione in L. 132/2018), dopo aver abrogato lo statuto della protezione umanitaria, introduce infatti un permesso “speciale” per atti di particolare valore civile (art. 42bis del Testo Unico Immigrazione 286/98). Quale prova più fondata di integrazione per “meritare” la titolarità del soggiorno?

 

C’è partecipazione e partecipazione

Le istituzioni, dunque, considerano importante che il non cittadino partecipi, lavorando gratuitamente o svolgendo attività sociali: il suo impegno civico e la sua attivazione meritevole sono indice di “buona integrazione”. Una delle due attuali forze di governo, del resto, ha costruito sulla retorica della partecipazione la propria fortuna: il Movimento 5 stelle – almeno a parole – ha messo al centro del suo programma un progetto di democrazia diretta, facendo di slogan come “uno vale uno” una sorta di bandiera politica. Evidentemente, però, qualche “uno” è “meno uno” degli altri. In altre parole, c’è partecipazione e partecipazione: agli occhi delle istituzioni, alcune forme di attivismo, e i soggetti che le praticano, sono accettabili, mentre altre forme, e gli individui che ne sono protagonisti, non hanno legittimità. Un immigrato che subisce passivamente ingiustizie e discriminazioni, di conseguenza, risulta essere più integrato di un altro non cittadino che reagisce e prova a cambiare la sua condizione.

Il nesso tra partecipazione e integrazione non è quindi così stretto come appare. Sussiste soltanto a determinate condizioni. Ossia, in presenza di specifiche modalità di attivazione, contrassegnate da tratti ben definiti. La non conflittualità ne è una caratteristica necessaria: l’attivismo legittimo e riconosciuto non mette in discussione le regole del gioco. Al contrario, una partecipazione che implica la contestazione delle scelte politiche di chi governa equivale a un rifiuto delle regole della vita civile e, quindi, indica una sconnessione dal tessuto sociale. La partecipazione ammissibile, in quanto capace di facilitare l’integrazione, è, insomma, una sorta di “attivazione passiva”: è consentita soltanto se chi la pratica non alza troppo la testa.

 

Per (non) concludere: tra processi di confinamento e spazi di reazione

Naufragi, chiusura dei porti, violenza razzista, svuotamento dello statuto della protezione internazionale, umanitaria, sociale e dell’accesso ai diritti più basilari, unitamente alle pratiche di delocalizzazione coatta dei Centri di accoglienza e della smobilitazione forzosa di insediamenti informali e, anche, dei modelli di inserzione e valorizzazione comunitaria (Riace). Sono le forme più sfacciate dell’orrore che si sta producendo nello spazio nazionale. L’intensa attività di deportazione di questi ultimi mesi    sta comportando, inoltre, lo sradicamento da territori in cui proprio le pratiche di integrazione, tanto decantate dalle retoriche pubbliche, con fatica stavano trovando forma, rendendo “invisibili” persone in carne ed ossa.

Tali politiche costruiscono un campo in cui viene tracciato un confine che mira a proteggere l’ordine pubblico e la sicurezza (quella dei cittadini), configurando di fatto una vera e propria strategia di governo delle migrazioni e, allo stesso tempo, favorendo la produzione di soggetti esclusi dal perimetro della comunità legittima perché considerati pericolosi, devianti, “spostati”, fastidiosi. I confini esterni dello spazio nazionale, quelli visibili, sempre più a vocazione securitaria, “muscolare”, persino brutale nella loro disumanizzazione, rappresentano, infatti, solamente la prima forma di filtraggio e di selezione di quel processo di cittadinizzazione, fortemente stratificato e segmentato, caratterizzato da molteplici forme di confinamento, materiale e simbolico.

Vi è un “lato oscuro” delle nuove forme della governamentalità, forse meno evidente, che, tuttavia, ha i medesimi effetti devastanti sulle vite, che agisce sottotraccia nella quotidianità dei rapporti sociali, attraverso processi di normalizzazione delle soggettività (non solo migranti) e del corpo sociale neoliberale. Le politiche gialloverdi (Salvini & Di Maio) non vanno lette solamente attraverso i numeri drammaticamente crescenti dei sommersi nel Mediterraneo, dei respinti nei lager libici o dei non accolti: il senso delle misure di controllo (anche morale) e di gestione della popolazione (non solo) migrante non risiede tanto nella demarcazione del noi (cittadini) rispetto al loro (stranieri), quanto nella separazione degli attivi dagli inoperosi, di chi produce (anche figli) da chi sopravvive da “parassita”, di chi si conforma da chi non lo è.

Quello della costruzione selettiva della comunità, a nostro avviso, sarà sempre più il terreno di frizione sul quale sperimentare contaminazioni e trovare alleanze tra soggetti sociali precarizzati, impoveriti, non graditi, indecorosi.

Forse è ora, anche su questo, di alzare la testa, tutte e tutti insieme.