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Sociologia di posizione: prospettive teoriche e metodologiche

“Sociologia di posizione” è il primo lavoro collettaneo e insieme il manifesto della rete omonima, che si propone di indagare gli aspetti più profondi e contraddittori del legame sociale e delle diseguaglianze planetarie restituendo alla sociologia un ruolo spesso offuscato dalla sua cristallizzazione accademica

Di posizione, la sociologia reale è sempre stata. È una favola che la sociologie de papa fosse astorica e oggettiva, sine ira et studio nel senso di estranea alla localizzazione e alle passione dell’autore. Esemplari sono i casi dei tre padri riconosciuti della sociologia, Durkheim, Simmel e Weber. Il primo, di ascendenza positivistica e organicistica passò con l’esplodere dell’affare Dreyfus, da una critica dell’individualismo anomico a una sorta di religione dei diritti individuali piegati però sul sentimento nazionale più che sull’universalismo. Simmel si autorappresentò come straniero e luogo di contraddizione fra la vita e le forme, con toni talmente romanzeschi che è quasi impossibile capire a fondo la sua descrizione della distanza alienata se non si è viaggiato sui vagoni con sedili di legno della S-Bahn berlinese, conservati integri sino alla caduta del Muro nella gestione DDR della rete… Weber, invece, vive schizofrenicamente nella teoria (come se non bastasse la sua depressione ricorrente) lo stacco fra la proclamazione dell’avalutatività e l’assunzione del politeismo (infondato) dei valori, fra l’ordinata tipologia delle forme di potere legittimo e l’insorgenza del potere illegittimo (dei Comuni medievali, ma anche dei soviet della rivoluzione russa del 1905 e 1917 e dei Räte monacensi), per tacere della “messa a terra” del potere carismatico nell’art. 48 della Costituzione di Weimar sul ruolo del Presidente del Reich.

Vero è che furono proprio tali aspetti – più che sostanziali – a essere omessi nella monumentalizzazione di questi “fondatori” da parte di una sociologia che ambiva a uno statuto accademico e ancor più a un ruolo di “servizio” del potere con alibi comunitaristi alla Tönnies o in nome di ordini funzionalistici in salsa anglosassone.  

Buona parte della sociologia spettrale contemporanea si è a lungo coccolata nel caldo guscio della misurazione e della avalutatività rendendo in realtà modesti servizi al potere costituito e costituendosi piuttosto per autoreferenzialità un rispettabile statuto accademico, senza peraltro esercitare (a eccezione di Luhmann) una significativa influenza politica.

Il costituirsi, quindi, di una rete di sociologi e sociologhe “di posizione”, fornita di una collana omonima, inaugurata con questo Sociologia di posizione. Prospettive teoriche e metodologiche, a cura di Fabio de Nardis, Antonello Petrillo e Anna Simone (Meltemi, Roma 2023), è un’operazione di tendenza forte in polemica con tali recenti antecedenti e di ricostruzione di una postura critica e situata che rimanda, a nostro avviso, alle migliori e svisate tradizioni del settore e, più recentemente, all’indirizzo di Pierre Bourdieu.

Scrivono i curatori nell’introduzione che «la relazione che immaginiamo con lo spazio sociale non può che essere agli antipodi di quella istituita dalla tradizione positivista; antipodica la nostra idea di “posizione”, la nostra accezione del lemma. Riteniamo infatti che al verbo ponere vada restituito tutto il suo potenziale dinamico, ben oltre l’ipostatizzazione determinista e prescrittivista del suo participio passato. Intendiamo anzitutto la “posizione” come il luogo in cui ciascuna e ciascuno (anche le sociologhe e i sociologi) possa “situarsi” all’interno di uno spazio sociale che è socialmente costruito e dunque “politico”, in quanto storicamente dato e irriducibilmente altro da quello “naturale”», così da rilanciare «il ruolo pubblico, emancipatorio, politico, trasformativo della sociologia» aggiornando la cassetta degli attrezzi dei classici. Si apre in tal modo un percorso tutto pubblico e propositivo, «al fine di tornare a determinare i grandi mutamenti di scala, anziché esserne solo spettatori passivi, se non addirittura già determinati da essi», raccogliendo nel contempo «sia i saperi sociologici che i saperi delle soggettività che compongono le società contemporanee» e rispondendo al topico interrogativo spivakiano, “i subalterni possono parlare?”» (pp. 10-11).

De Nardis, specificando i compiti della “sociologia trasformativa”, afferma che una sociologia così intesa «è infatti quello di fare emergere contraddizioni laddove tutti vedono normalità ed elementi di regolarità laddove tutti vedono contraddizioni», esibendo, come il materialismo storico cui si ispira nella dimensione analitica, la propria natura «intimamente sovversiva» (p. 40).

Per un verso, questo significa mettere in luce il carattere storicamente determinato di organizzazione collettiva e la provvisorietà di ogni tipo storico-sociale, per l’altro «liberare il marxismo dalle incrostazioni ideologiche del Novecento e intenderlo come approccio materialistico all’analisi dei fenomeni» per pervenire anche alla «propulsione pratica delle istanze egualitarie» (pp. 53-54).

I numerosi saggi che seguono esemplificano gli interessi e gli approcci di contenuto e di metodo (spesso intrecciati) più significativi, a cominciare dai temi dell’inchiesta operaia e della conricerca – così tipici dell’operaismo e del post-operaismo, a cominciar da Federico Chicchi, che mette in rilievo come in Panzieri l’inchiesta “a caldo” si riagganci esplicitamente alle nozioni weberiane di località e parzialità nella sociologia comprendente, ma allo stesso tempo vi compaia una tensione dell’inchiesta tutta rivolta all’idea della azione pratica e della produzione di soggettività politica che ne deve derivare – un fermento di «insubordinazione operaia» (p. 69) certo estraneo a Weber. Vi si segnala inoltre una discontinuità tra operaismo e post-operaismo, che dipende dall’emergere in quella fase della figura della moltitudine, «soggetto politico eterogeneo e non più unitario come la classe operaia, formato da soggettività sociali che non possono essere ridotte alla precedente dimensione operaia e perciò, come afferma Toni Negri, eccedente e anteriore a ogni sua organizzazione da parte del capitale» (p. 73).

Il filone di ricerca è ripreso nel contributo dedicato da Alberto De Nicola alla conricerca – «metodo di conoscenza e al contempo strumento di intervento politico attraverso cui una nuova generazione di militanti politici entrò in contatto con gli operai delle industrie del Nord Italia negli anni ‘60 del secolo scorso» – e che ripresenta il doppio posizionamento del suo presupposto, l’operaismo. Ovvero e in contrasto con gli assunti ideologici delle organizzazioni ufficiali del movimento operaio dell’epoca «l’individuazione della fabbrica come campo di forze e come unità spazio-temporale attraverso cui interpretare la logica e la dinamica di sviluppo del capitale; e l’assunzione del punto di vista operaio come fonte per la conoscenza critica dei rapporti sociali di produzione e come base per l’elaborazione tattica e strategica dell’organizzazione politica». In netta contrapposizione, quindi, a una valutazione positiva o neutrale degli sviluppi tecnologici e organizzativi del capitalismo degli anni ’60. L’operaio-massa sostituiva così le due versioni correnti del proletariato di fabbrica: “eroe” dell’antifascismo e della Resistenza o corpo vittimale delle trasformazioni capitalistiche (pp. 213-214).

Il sapere prodotto dalla conricerca, in quanto “posizionato” ed espressivo di un punto di vista parziale, va considerato “scientifico” non nonostante ma proprio in quanto di parte, mentre larga parte del suo contenuto è riconducibile al carattere duplice della forza-lavoro, cioè alla distinzione analitica fra composizione “tecnica” (come il capitale organizza le condizioni materiali dello sfruttamento individuale e aggregato) e “politica” di classe (l’insieme dei comportamenti di autonomia, resistenza e attacco al capitale), pp. 216-217. Nella fase moltitudinaria e post-operaista la conricerca assume caratteri diversi e la figura dell’intellettuale fuoriesce dalla dicotomia fra intellettuale sartriano “universale” e foucaultiano “specifico”, fra “dispensatore di coscienza” e non meno pernicioso operatore “che dà voce ai senza voce”, ma come ricercatore-intellettuale di posizione può finalmente «riconoscersi come parte di una nuova composizione del lavoro e, nel contempo, lavorare per connettere e articolare conoscenze critiche e comportamenti di resistenza ancora informali e disconnessi ma immanenti alle relazioni di produzione e riproduzione» (pp. 225-226).

Abbiamo insistito su questi aspetti perché definiscono un asse metodologico e contenutistico della sociologia di posizione – peraltro variata e ripresa in molti altri contributi (pensiamo alla polemica di Antonello Petrillo contro l’ancillare “neutralità assiologica” e a favore di una democratizzazione della postura ermeneutica). Sono tuttavia presenti anche altri momenti importanti su cui la rete dei e delle sociologh* si qualifica confrontandosi con le linee dominanti della sociologia d’antan.

In primo luogo l’analisi dei femminismi compiuta da Anna Simone, per cui  essi, «in quanto processi di soggettivazione e de-oggettivazione del sé, in quanto saperi incarnati, esito ed effetto della storia e dei processi di politicizzazione, votati a un pensiero dell’esperienza che è anche pratica politica a partire dal corpo, sono sempre posizionati sia singolarmente che a partire dalle condizioni specifiche e materiali determinate dai contesti sociali, geografici, economici, politici e giuridici in cui essi si trovano. I femminismi, in altre parole, nascono già come saperi posizionati a partire dalla critica alla società patriarcale, rifuggendo qualsiasi processo di oggettivazione derivante da essa, nonché qualsiasi processo di astrazione teorico-ideologica e definitoria che mira solo a generare processi di “identitarizzazione”» (p. 103). Un netto rifiuto di far coincidere la centralità dell’esperienza del corpo, la pratica dell’autocoscienza e il pensiero della differenza con l’identità, cui piuttosto si contrappongono la «singolarità in comune» e l’intersezionalità come armi di battaglia contro il patriarcato. La singolarità non è identità preconfezionata da ordini discorsivi e procedure di etichettamento, «non è l’individualità promossa dai processi di neoliberalizzazione, tantomeno l’identità, e neppure il “neutro” proposto dal gender fluid o dal corpo androgino promosso dall’intelligenza artificiale e dalle nuove tecnologie, bensì una forma di conoscenza del sé in perenne trasformazione e relazione con il mondo esterno» (pp. 113-114).

Un’altra particolare declinazione del posizionamento è l’«epistemologia del Sud» (Vincenza Pellegrino e Giuseppe Ricotta) come critica dell’eurocentrismo e decolonizzazione del canone sociologico o affermazione di una ragione cosmopolita che renda conto delle assenze, delle emergenze nuove e della traduzione fra approcci epistemici. Edoardo Esposito e Giulio Moini si confrontano invece con il tratto saliente delle società contemporanee, il neoliberalismo e con il suo risvolto autoritario, il neo-illiberalismo, nel loro rapporto con lo stato sociale keynesiano dei Trenta Gloriosi. Manuel Anselmi demistifica la narrazione sulla “fine delle ideologie” mostrando come la pretesa della sociologia accademica corrente al disimpegno ideologico segni «una rinuncia alla critica delle contraddizioni del sociale e un conseguente adattamento conformistico allo stato di cose presente» (p. 179), ma allo stesso tempo tracciando una distinzione fra le ideologie novecentesche basate sulla classe e quelle del terzo millennio post-fordista e post-democratico profilate sull’individuo.

Questi e altri contributi di pari interesse contenuti nel volume sono un assaggio di un nuovo schieramento che si va costituendo nel mondo della ricerca e che promette di resuscitare lo spirito problematico dei capostipiti della sociologia, rompendo con la routine degli epigoni – anch’essa una “posizione”, ma mascherata e adattiva, nel migliore dei casi testimonianza di una “rivoluzione passiva”.