cult

CULT

Silvia, severa e splendida maestra

Sabato 8 ottobre è scomparsa Silvia Macchi, compagna cara a molti di noi. Noi tutti, come i più giovani che da qualche anno avevano iniziato a interrogarla su come costruire il diritto alla città, non siamo mai riusciti a sottrarci al suo fascino di docente. Anche dei e nei movimenti. La salutiamo con questo ricordo e con un suo articolo.

Silvia aveva la capacità di mettere a disposizione di chiunque tutto quello che sapeva, ed era tanto, perché sapeva imparare e insegnare ai movimenti. Silvia é stata sempre un’instancabile ricercatrice. I suoi lavori, ovunque svolti, hanno avuto un costante tema: assicurare a tutti e tutte la possibilità di abitare felicemente il mondo. Silvia è stata tante cose. Instancabile viaggiatrice prima per la sua formazione a Parigi, poi per denunciare con forza la vergogna dei muri, ovunque si tirassero su. Dalla Palestina, alla frontiera americana con il Messico, ai tanti recinti che si vogliono costruire contro chi lotta per la libertà. La ricordiamo, solo pochi mesi fa, partecipare ad una bella manifestazione per l’accoglienza dei “transitanti” intorno il centro Baobab dove il popolo di Roma seppe scrivere una splendida prova di solidarietà a dispetto della protervia dell’amministrazione comunale che allora, come oggi, rispose e risponde con sgomberi e schedature di polizia. Silvia aveva un’altra caratteristica come docente istituzionale. Era unica non solo per mettersi a disposizione totale dei suoi studenti, ma per “dannarsi” a trovare loro la possibilità di continuare a studiare andando alla caccia di ogni possibile “borsa”. Non sopportava che molte generazioni fossero, come sono, destinate ad essere schiacciate da un’esistenza precaria. Voleva territori costruiti per accogliere tutti e tutte e città solidali e belle. L’urbanistica non basta. Questo Silvia lo sapeva e lo insegnava, costringendoci tutti a studiare quei tanti numeri che in mano sua diventavano altrettante frecce poetiche, perché facevano vedere, anche ai più riottosi tra noi, che per l’abitare la bellezza non solo è possibile ma anche necessaria. Silvia, quando i movimenti vinsero a Roma una significativa battaglia, costringendo Veltroni ad indietreggiare sul proprio piano regolatore ultraliberista, (che quel dimenticabile sindaco fece passare anni dopo con le cariche della polizia sulla piazza del Campidoglio e il fiancheggiamento di quei partiti che aveva irretito con il suo “modello Roma”) aiutò il movimento a costruire, attraverso la pubblicazione del libro “Lezioni di piano”, la propria autorevole ed allora vincente idea di città. Un ‘idea di città che volle mettere a confronto in uno splendido convegno, svoltosi in uno spazio occupato della città (Horus) dal significativo titolo “Roma e le altre”.

Dinamo Press saluta Silvia ripubblicando un testo proprio di quel periodo, per l’assemblea svoltasi presso il Centro Donna L.I.S.A. il 25/10/2002, promossa da Donne in Genere, un manifesto “per una città in genere”. Silvia è stata una severa e splendida maestra. Per questo l’abbiamo amata e la sua morte ci appare intollerabile. Ciao Silvia.

Premesso

-che la città è un patrimonio sociale e in quanto tale è una risorsa che deve essere disponibile all’uso di tutte e tutti,

-che ogni città, con i suoi spazi e le sue norme d’uso, configura uno specifico modello di socialità,

-che il nuovo PRG, andando a modificare la città, inevitabilmente definisce sia un progetto di giustizia sociale, sia un progetto di vita sociale e, pertanto, deve far emergere la complessità delle figure e dei soggetti sociali che la abitano, con i loro bisogni, desideri e punti di vista, per una cittadinanza dell’uguaglianza nelle differenze,

-che il punto di vista di genere, in questo contesto, ridefinisce complessivamente la filosofia di fondo del progetto di città, così come ogni suo singolo aspetto materiale,

-che la connessione tra il progetto di giustizia sociale e quello di vita sociale si realizza grazie al lavoro di riproduzione sociale e di cura sottratto alla dimensione domestica e individuale e restituito alla responsabilità pubblica, rendendo visibile in questo modo l’enorme mole di lavoro nascosto e innominato con il quale le donne permettono la vita materiale, psichica, esistenziale di tutte e tutti.

le donne chiedono che il nuovo PRG (Piano Regolatore Generale)

1. inauguri una politica urbana incentrata sul rispetto delle differenze e aperta alla sperimentazione di nuovi ideali di vita urbana,

2. riconosca il primato di un’etica pubblica fondata sulla responsabilità di chi amministra, sul senso del limite e sul principio della partecipazione e del coinvolgimento popolare nelle scelte,

3. assuma come obiettivo prioritario il miglioramento della qualità della vita di tutte e tutti,

4. riconosca il valore sociale del lavoro di cura, approntando un disegno di spazi e norme d’uso che ne garantisca il pieno svilupp

o,

5. prenda atto del conflitto in atto tra crescita economica e qualità della vita, definendo strategie e strumenti per il controllo pubblico degli operatori economici,

6. punti a massimizzare il valore d’uso dei suoli urbani a partire da una puntuale ricognizione dei bisogni del presente e del prossimo futuro,

7. subordini qualsiasi ipotesi di nuova edificazione ad una approfondita verifica delle possibilità di riuso del patrimonio esistente,

8. consideri inalienabile il diritto di ogni persona alla casa e ad una adeguata dotazione di servizi pubblici situati a ragionevole distanza dalla sua abitazione,

9. scelga la strada della cooperazione e della solidarietà nelle relazioni con le altre città, opponendosi attivamente alle pressioni verso competizioni sterili e immorali,

10. adotti processi decisionali inclusivi per definire il progetto pubblico della città.

Per una Città in Genere

La città, nelle sue parti costruite come in quelle non costruite, è un patrimonio sociale e costituisce una frazione importante di quelle condizioni materiali che ci possono permettere o meno di attuare i nostri progetti di vita individuali e collettivi. Una città con una buona rete di trasporto pubblico, con case ben costruite e in numero adeguato, con parchi e piazze, con tanti servizi di tutti i tipi e in tutti i quartieri, è una città che ci fa più ricchi sul piano strettamente materiale. Pertanto la redistribuzione del suo valore d’uso è uno strumento fondamentale di giustizia sociale, intesa come redistribuzione delle risorse. Ma l’insieme degli spazi urbani, con le relative norme d’uso, disegnano anche un modello di socialità, nel senso che rendono possibili alcune relazioni e ne inibiscono altre. Una città senza luoghi d’incontro, come i quartieri dormitorio delle nostre periferie o gli spazi blindati e/o controllati dei nostri centri, rende impossibile la vita pubblica. Lo stesso accade in una città che non lascia tempo per la vita pubblica, ad esempio costringendo i suoi abitanti a pendolare tra case e uffici troppo lontani e mal collegati e quindi obbligandoli a trascorrere ore intrappolati nel traffico.

Il Piano Regolatore interviene sia sulle norme d’uso degli spazi urbani esistenti, ivi compresa la possibilità di trasformare un’area verde in edifici e viceversa, sia prevedendo la realizzazione di opere che vanno a modificare la consistenza del patrimonio sociale di cui potremmo disporre in futuro. Dietro ogni Piano Regolatore c’è quindi un progetto di “giustizia sociale” ed uno di “vita sociale”. E’ in questo contesto che il punto di vista di genere dovrebbe ridefinire complessivamente la filosofia di fondo del progetto di questa città così come ogni singolo aspetto della vita materiale.

Sono infatti le donne i soggetti più a rischio di povertà, coloro che hanno un reddito mediamente inferiore a quello degli uomini, ma che allo stesso tempo permettono la vita materiale, psichica, esistenziale di tutte e tutti. Non può esistere connessione tra progetto di giustizia sociale e progetto di vita sociale se non si sottrae alla dimensione domestica, individuale (presunta biologica e quindi naturale), l’enorme quantità di lavoro di cura sopportato dalle donne. Reso invisibile, nascosto e volutamente sottaciuto – non è infatti quantificato all’interno del P.I.L. – il lavoro di cura è un’enorme ricchezza, che richiama gli amministratori di questa città alla loro responsabilità pubblica.

Non operare per intrecciare e connettere il nuovo Piano Regolatore Urbanistico (PRG) con il nuovo Piano Regolatore Sociale significa guardare la città, ma non vedere i soggetti reali, in carne ed ossa che la vivono. Non basta disegnare dei perimetri e colorarli di rosa o di verde per distinguere ciò che è edificato da ciò che non lo è; occorre tracciare delle mappe che rappresentino i luoghi di vita delle persone e che esprimano i bisogni, desideri, punti di vista dei differenti soggetti che abitano la città.

Per fare questo è necessario in primo luogo prendere le distanze da qualsiasi relazione di automatismo tra crescita economica e qualità della vita. La crescita economica, che per alcuni oggi, passa necessariamente per l’apertura della città all’impresa globale, non garantisce un miglioramento della qualità della vita. Anzi, una crescita economica non controllata può nuocere alla qualità della vita. Questo è un dato ormai accettato anche da organizzazioni quali il Fondo Monetario Internazionale, che certo non finanzia lo sviluppo per fare beneficenza e sa che sul lungo periodo una riduzione della qualità della vita può mettere in crisi i processi di crescita economica avviati nel breve periodo. Sono innumerevoli gli esempi di paesi che, a seguito della loro apertura ai capitali globali, si sono ritrovati con una crescita più o meno rilevante della loro economia e contemporaneamente hanno visto scendere indicatori di benessere importanti come il numero di bambini che superano il primo anno di vita (la vicenda del latte in polvere Nestlé la dice lunga in proposito).

Non è quindi accettabile che un progetto di miglioramento della qualità della vita, quale è quello che le donne chiedono, possa essere subordinato alla crescita economica. Nello specifico del nuovo PRG, dove la crescita economica si traduce ineluttabilmente in crescita edilizia, questo significa che per le donne è totalmente insensato subordinare qualsiasi opera di interesse pubblico (verde, servizi, infrastrutture, residenza sociale, ecc.) alla realizzazione di nuove cubature. Le nuove cubature devono essere realizzate in risposta alle esigenze delle/dei cittadine/i e non diventare merce di scambio tra operatori economici e amministrazione cittadina. Nessuna compensazione economica o ecologica ci potrà mai ridare gli spazi aperti e gli orizzonti liberi cancellati dall’edificazione. Un conto è scegliere di consumare una porzione di suolo per edificare una scuola di cui abbiamo bisogno, con le dovute attenzioni ad evitare sprechi e mitigare gli impatti della trasformazione. Altra cosa è concedere a degli operatori privati di consumare il doppio del suolo per realizzare la scuola di cui abbiamo bisogno più un centro commerciale del tutto superfluo, il quale tra l’altro per funzionare consumerà altre risorse pubbliche (strade, aria, acqua, energia, ecc.). Se nel primo caso possiamo contare su un aumento certo del valore d’uso del nostro patrimonio urbano, nel secondo caso il bilancio rischia di essere decisamente negativo.

Ma le donne sono in grado di dire anche qualcosa di più. Della necessità di trasformare due uova in un momento di convivialità, un pezzo di legno in una tavola imbandita, quattro mura in un luogo di vita, le donne ne hanno fatto un’arte che oggi chiedono di condividere con la città. Quest’arte applicata alla città si traduce in un uso sapiente di tutto ciò che esiste, in recupero di ogni spazio già costruito, in un’opera costante di valorizzazione del patrimonio urbano mirata alla vita piuttosto che al mercato. La pratica quotidiana di quest’arte ha insegnato alle donne che tutto può essere utile per creare condizioni di vita per cui, prima di precipitarci a comprare qualcosa di nuovo, il primo passo è sempre guardarsi intorno e vedere di che cosa possiamo già disporre. Per questo il nuovo PRG le lascia tanto perplesse: dove sono le mappe delle risorse pubbliche? Perché non sono indicati con chiarezza i tanti edifici abbandonati o sottoutilizzati che appartengono al patrimonio comune? Perché ci si avventura nell’edificazione di pezzi di campagna senza prima aver cercato una soluzione all’interno dell’aree già urbanizzate?

Maestre nell’arte di comporre la vita, le donne sanno apprezzare le cose per ciò che possono diventare. E’ in base a questo criterio che assegnano valore, non certo in base al prezzo scritto sul cartellino. Questa capacità di guardare oltre ciò che vedono consente loro di individuare tra mille cose ciò che non ha prezzo, ciò da cui non si può prescindere per comporre una vita e quindi mai saranno disposte ad alienare. Ad un nuovo PRG che consente la monetizzazione delle quote di suolo da destinare a servizi primari (parcheggi, verde, scuole, ecc.) e delle quote di edificabilità da destinare ad edilizia residenziale con finalità sociali, le donne rispondono che, senza servizi pubblici di quartiere e, senza case per le persone povere, non è possibile attuare nessun progetto di vita urbana. Verrebbero a mancare i cardini del legame sociale, i presupposti stessi della convivenza. Per le donne, servizi pubblici, e case per i più poveri, semplicemente non hanno prezzo e quindi non possono essere oggetto di scambi mercantili.

Con questo non vogliamo certo affermare che sia possibile conseguire un miglioramento sostanziale della qualità della vita senza coinvolgere il mondo dell’economia. Il problema non è se ci debba o meno essere una relazione tra chi punta ad un miglioramento della qualità della vita per tutti e tutte e chi cerca di realizzare dei profitti per sé, quanto piuttosto che tipo di relazione ci interessa instaurare. Ancora una volta l’esperienza quotidiana delle donne può essere di aiuto. Le donne sanno che per creare valore, che si tratti di valore d’uso o di valore di scambio, bisogna poter disporre di un qualcosa di materiale su cui applicare la propria creatività. Insomma, sanno che l’economia non può prescindere da alcune condizioni materiali. Questo sapere consente loro di contestare chi racconta la favola di una nuova economia che produrrebbe valore attraverso scambi puramente immateriali. Se è vero che in pochi minuti la borsa di New York può raddoppiare o dimezzare il valore delle azioni di una società, e questo indipendentemente dalle capacità produttive di quella società, è anche vero che quella società per esistere ha bisogno di alcune condizioni materiali (un edificio dove mettere i suoi uffici, dei cavi che le consentano di comunicare col mondo, delle tastiere su cui digitare le sue comunicazioni e delle dita che compiano questa operazione). Per quanto le imprese globali siano state brave a liberarsi dai vincoli che le condizioni materiali impongono, esse non saranno mai completamente libere da tali condizioni. Le donne, nonostante la loro abilità nel trasformare il quasi nulla in condizioni di vita, sanno bene quale è il prezzo che gli viene fatto pagare per quel quasi nulla. Bene, la città potrebbe imparare la lezione. Il fatto che anche l’impresa globale abbia bisogno di condizioni materiali rappresenta un elemento da cui partire per costruire nuove ipotesi di regolamentazione delle loro attività. Proviamo a fare qualche ipotesi per la nostra città.

Roma possiede un patrimonio estremamente interessante per le transnazionali del Turismo. Il nuovo PRG ne prende atto e si spertica a creare le condizioni affinché queste transnazionali invadano la città in cambio di un po’ di capitali e di un po’ di posti di lavoro. Una volta raggiunto l’obiettivo, sappiamo benissimo che l’amministrazione cittadina si troverà a rincorrere libri contabili introvabili e a cercare di imporre una serie di regole (igiene, sicurezza, lavoro, ecc.) che le imprese locali coinvolte non sono in grado di seguire per il semplice fatto che la transnazionale non lascia loro un margine di profitto sufficiente. Possiamo immagine un’alternativa? forse sì. Roma non è la sola città ad avere un patrimonio interessante per le transnazionali del Turismo. Questa è la sua debolezza (le transnazionali potrebbero rivolgersi altrove) ma potrebbe diventare la sua forza. Basta lasciare da parte l’immorale mito della competizione tra città. Invece di cercare di fare la propria fortuna sulle disgrazie altrui, offrendo il possibile e l’impossibile alla transnazionale di turno, Roma potrebbe solidarizzare con le altre città che hanno un patrimonio interessante ed elaborare con loro una strategia comune per affrontare le transnazionali del Turismo. Utopia? Forse. Ma che io sappia era proprio questa utopia a tenere insieme gli amministratori locali che si sono incontrati a Porto Alegre.

Ma per porre delle condizioni all’economia, per instaurare un tavolo di trattative credibile e motivato, è necessario avere un progetto pubblico di città. Questo è forse il punto più difficile da affrontare, per le donne come per il nuovo PRG. Il motivo di tale difficoltà non è un mistero: nessuna soggettività, neppure le donne o l’amministrazione cittadina, è in grado da sola, a partire da un unico punto di vista, di definire un progetto di convivenza che inevitabilmente coinvolge soggettività diverse dalla propria. Per questo le donne non credono nel nuovo PRG e lo guardano come un gigante dai piedi di argilla. Le donne sanno che i veri progetti, quelli che hanno in sé la possibilità di essere attuati, nascono da lunghi e pazienti intrecci tra le persone. Prima bisogna costruire contesti di interazione in cui le persone possano portare i loro desideri, vederli riconosciuti dagli altri, intrecciarli con quelli degli altri e solo allora si vedranno emergere i progetti di cui abbiamo veramente bisogno e soprattutto in cui tutte e tutti crediamo.