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OPINIONI

«Serve una strategia globale per la pandemia». Intervista a Ernesto Burgio

Perché, a fronte della comparsa negli ultimi 20 anni di diversi virus potenzialmente pandemici, l’allarme generato dalla comparsa della Covid-19 è stato sottovalutato? Come hanno risposto i sistemi sanitari e come si può affrontare la pandemia in corso?

Ernesto Burgio, medico pediatra, è esperto di epigenetica e biologia molecolare. Presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) e membro del consiglio scientifico di ECERI (European Cancer and Environment Research Institute) di Bruxelles. Con lui abbiam rivolto uno sguardo generale sulla genetica del virus di Covid-19, sulla risposta del sistema immunitario dell’uomo e sui fattori ambientali, economici e sociali che ne possono favorire la diffusione o il contenimento.

Che cos’è questo virus? Cos’è un allarme pandemico e perché è stato sottovalutato?

Per affrontare una pandemia occorre considerare tre fattori. Il primo è il virus: bisogna chiedersi se questo virus è veramente pericoloso, come dicono alcuni, oppure la sua pericolosità è stata sopravvalutata, come continuano (purtroppo) ad affermare altri. Il secondo fattore l’organismo del nuovo ospite, cioè l’uomo, con la reazione difensiva del suo sistema immunocompetente e immuno-infiammatorio. Il terzo sono in senso lato tutti quei determinanti e fattori ambientali, ivi comprese le condizioni del sistema sanitario.

Il fatto che probabilmente dai primi di dicembre o forse anche prima sia partito un virus veramente pericoloso lo si è capito, con un po’ di ritardo, intorno alla metà di gennaio. Questo, a ogni modo, avrebbe consentito di fare di più nella preparazione del sistema e degli operatori sanitari e soprattutto nella loro protezione, cosa che purtroppo in Occidente non è avvenuta.

Ormai si può facilmente ricostruire la sequenza genetica dei virus e sappiamo almeno dalla fine di gennaio che si tratta di un virus molto pericoloso: un potenziale pandemico appunto. SARS-CoV2 è un Coronavirus, ma soprattutto è un virus a RNA, molto instabile, che muta cioè continuamente. La sequenza base, la cosiddetta sequenza master del virus, è stata immediatamente confermata dall’istituto Pasteur dopo che già i cinesi l’avevano pubblicata. Abbiamo subito visto che questa sequenza è per il 96% analoga, dunque quasi uguale, alla sequenza di un coronavirus del pipistrello, con una piccola variazione molto significativa. Questo virus ha otto mutazioni nel punto chiave, cioè nella sequenza genica, nell’RNA che codifica per la proteina spike che aggancia i recettori ACE-2 delle vie aeree superiori. Per di più due di queste mutazioni sono nel dominio S2 della proteina e permettono al virus di diffondere meglio da una cellula all’altra. Questa cambiamento rispetto al coronavirus del pipistrello e rispetto anche in parte al coronavirus del 2002-2003 della prima SARS, ha probabilmente fatto la differenza, permettendo a questo virus di acquisire quelle grandi capacità da un lato di contagio e dall’altro di virulenza che lo contraddistinguono. Chi aveva avuto l’opportunità e la competenza per studiare queste sequenze, lo aveva capito almeno alla fine di gennaio. Perciò, quando a febbraio ci sono state le prime polemiche – perché perfino tra gli esperti c’è stato chi ha detto di non esagerare, dal momento che si trattava di un banale coronavirus parainfluenzale o simili valutazioni del tutto errate, almeno in Italia – abbiamo cercato di far chiarezza in ogni modo. Ma non è facile, soprattutto arrivare al livello politico dove si prendono le decisioni.

A posteriori, in Italia a nostro parere il virus era già presente a fine di dicembre. Le molte polmoniti atipiche, resistenti a qualsiasi terapia e con molti decessi indicano come il virus circolasse già da tempo, anche se è difficile da appurare ormai.

Come mai non ce ne si è accorti?

C’è stata una serie di errori ma anche una comunicazione tardiva da parte della Cina. In Cina però il 20 di gennaio, quando hanno capito la pericolosità, hanno fatto quello che in questi casi bisogna fare, cioè il lockdown. Hanno chiuso immediatamente l’intera regione di Hubei, 57 milioni di abitanti e 30 città. Hanno predisposto non solo il triage e usato tamponi per fare diagnosi e verificare così il numero dei contagiati, ma hanno anche monitorato il territorio, isolando tutte le persone che erano venute a contatto con i contagiati. Questo è stato fondamentale. Poi hanno attuato quello che in ogni pandemia è di massima importanza: hanno evitato che il virus entrasse negli ospedali. Hanno addirittura costruito aree sanitarie e strutture ospedaliere nuove dedicate solo alla Covid-19.

In Italia, invece, che il virus fosse pericoloso lo si era capito solo tra gli esperti e lo si è sottovalutato. Così ha potuto dilagare. Nelle regioni del Nord Italia, dove ha potuto anche acquisire in qualche modo il dominio degli ospedali, il dramma è stato inevitabile.

Tuttavia, non si è trattato di qualcosa di imprevisto: dal 1997, cioè dall’improvviso “salto di specie” di un virus influenzale (H5N1) dal serbatoio aviario degli uccelli migratori (che sappiamo da 50 anni essere portatori dei virus influenzali) all’uomo e dalla conseguente morte di un bimbo e poi di decine di persone, sappiamo che il temuto fantasma di una pandemia era alle porte. Sappiamo da allora che soprattutto in certi luoghi, probabilmente i mercati e gli allevamenti in particolare del sud asiatico ma non solo, stanno emergendo ceppi molto virulenti e potenzialmente contagiosi. Quindi l’allarme pandemico è per così dire incombente dal 1997 e soprattutto dal 2002, 2003 e 2005, quando ci sono stati alcuni cluster drammatici da H5N1 (la cosiddetta “influenza aviaria”) e poi dal famoso outbreak da Coronavirus n° 1 della SARS. La comunità scientifica lo ha in parte comunicato a livello di letteratura e avrebbe potuto e dovuto essere più ascoltata, a livello politico. In Occidente la si è ascoltata molto poco. In Oriente, sia per esperienza sia per capacità di affrontare queste problematiche, sia perché appunto c’era stata già la SARS nel 2002/2003, tutti, soprattutto in Cina ma anche a Taiwan, a Hong Kong, in Giappone e in parte in Corea, sebbene con un minimo di ritardo hanno saputo immediatamente mettere in atto le misure più efficaci. La regola assoluta è: una pandemia si ferma sul territorio. Questo è il principio di base. È il golden standard, se vogliamo: non si deve far entrare il virus negli ospedali.

Ha accennato al fatto che il virus sta girando in Europa da dicembre e che la filogenetica del ceppo italiano è stata ricostruita in ritardo…

Normalmente per fare una diagnosi di presenza del virus nelle vie aeree si usa un tampone e una reazione che si chiama PCR, che serve per amplificare l’RNA. In laboratorio quell’RNA può essere studiato in maniera diversa, molto più approfondita: si ricostruisce la sequenza e si vede se sono intercorse delle mutazioni particolari. Confrontando le sequenze di alcuni pazienti italiani – una cosa che paradossalmente non eseguita immediatamente in Italia, ma all’estero, per esempio in Brasile – si è visto che il virus che circolava in Lombardia, diciamo ai primi di febbraio, era un virus che aveva già acquisito alcune modifiche che facevano pensare che avesse già compiuto un lungo giro dalla Cina, attraverso la Finlandia, la Germania, addirittura l’Australia e altri paesi. Per una serie di motivi difficili da identificare, a fine gennaio o primi di febbraio in Italia si era creata una grande circolazione del virus ma quest’ultimo era già arrivato probabilmente in tutto il mondo.

È uno dei tanti problemi sottovalutati: le condizioni del pianeta fanno sì che un virus possa compiere il giro del mondo in una settimana. Non è come nel 1918 e tutto sommato neanche come nel 1957.

Le sequenze sono state inoltre studiate in modo tardivo, non dico superficiale, ma sono rimaste in una nicchia. Chi aveva l’abitudine, la capacità, l’esperienza, diciamo anche la competenza per andarle a guardare, lo ha fatto. Dopodiché il tentativo di andare a parlare con i colleghi negli Istituti fondamentali, nei Ministeri, lo abbiamo compiuto, ma lì non c’è stata proprio la competenza sufficiente, perché molto spesso lì (almeno in Italia) ci sono piuttosto funzionari esperti nella sanità diciamo tradizionale, mentre sono pochi quelli che hanno esperienza di questo tipo di situazioni. L’ultima grande pandemia in Europa è stata nel 1957; nel 1968 ce n’è stata una minore. Si è dunque persa la memoria, proprio lì dove si dovrebbe avere la capacità di coordinare un intervento efficiente fin dall’inizio. Questo è stato il grande problema in Occidente rispetto all’Oriente.

 

Wuhan, Cina

 

Il team di consulenza dei politici ha sottovalutato il virus perché si poteva confondere con uno simil-influenzale?

Se vogliamo fare un’analisi non polemica ma critica, direi che la grandissima parte dei clinici inevitabilmente, ma anche dei tecnici, al livello ministeriale e di Istituto Superiore di Sanità, hanno sottovalutato il fenomeno. Per carenza di esperienza più che altro, ma anche perché c’erano dei precedenti che spingevano verso la sua minimizzazione. Nel 2004-2005, ma già nel 2002 con la prima SARS, poi con l’allarme aviario, nel 2010 con quella situazione un po’ confusa che si è determinata col famoso H1N1/2010, il cosiddetto triplice ricombinante messicano (ma probabilmente californiano), si è cominciato a pensare che fosse eccessivo lanciare allarmi pandemici, che tutto sommato i sistemi sanitari moderni fossero in grado di affrontarli e che forse non si sarebbe mai ripetuto un dramma come quelli tristemente famosi del ‘18 con la spagnola, o del ’57 con l’asiatica. Il fatto che le sequenze siano state poco studiate è appunto la conseguenza della sottovalutazione.

Che non ci fossero virologi all’interno della “cabina di regia” è un dato di fatto. Tuttavia virologi anche molto noti dicevano inizialmente che non si doveva esagerare e che in Italia non ci sarebbero stati morti. Questo perché evidentemente non sono andati a fondo nello studio del virus, almeno all’inizio.

Si sono convinti che tutto sommato il sistema sanitario italiano pubblico, essendo notoriamente uno dei migliori del mondo, avrebbe avuto una reazione diversa dagli altri paesi. C’è stato quindi un errore generale e non è un caso che si sia ripetuto tale e quale, forse addirittura peggio in Spagna e che rischi di ripetersi in Francia, per non parlare degli Stati Uniti dove un’emergenza di questo tipo viene totalmente dirottato verso la sanità privata.

Le battute iniziali di alcuni personaggi politici di spicco nel mondo anglosassone sono a questo punto quasi grottesche, perché o non erano stati sufficientemente avvisati (e quindi significa che non c’era stata sufficiente competenza a livello di cabina di regia) o non hanno ascoltato e hanno creduto di potere esprimersi con faciloneria dicendo che non c’erano problemi e che, se anche fosse morto qualche migliaio di persone, questo sarebbe comunque rientrato nel normale ciclo della vita e della natura. Un atteggiamento che negli anglosassoni ha radici culturali profonde, che si rifanno a una postura e un atteggiamento darwinisti. Un’enorme differenza con quanto avvenuto in Asia e nel centro-sud Europa.

Studi dell’Imperial College suggeriscono che è stata sottovalutata non solo la fatalità ma anche l’epidemic growthLa filogenetica ci poteva già dire qualcosa a riguardo?

Ci sono alcune questioni di base: innanzitutto c’è stato un tempo di latenza tra i primi casi cinesi, verificatesi attorno all’otto dicembre e probabilmente anche prima, la consapevolezza da parte della Cina che un virus pandemico stava circolando e l’informazione data al mondo, ai primi di gennaio. Quindi già un ritardo di un mese. Il lockdown della provincia di Hubei è stato decretato solo il 20 gennaio… Avevamo a quel punto già perso 50 giorni. Aggiungiamo a questo i tempi per studiare le sequenze, quindi altri 20 giorni e infine la difficoltà di fare una statistica riguardante la contagiosità del virus. Questo è il secondo passaggio: normalmente si calcola l’R0, ovvero la possibilità di un virus di essere trasmesso da una persona all’altra, all’inizio dell’epidemia. I virus molto contagiosi di solito non sono quelli più virulenti: per esempio si sa che i virus del morbillo, della varicella, della parotite hanno una grandissima capacità di contagio, un valore intorno a 12. Significa che ogni persona tendenzialmente può infettarne altre 10,12,15. Con una situazione di questo tipo il virus dilaga ed è quello che succede nelle malattie esantematiche dei bambini.
Per i virus invece più pericolosi di solito questa tendenza a contagiare e a diffondersi è molto minore, probabilmente anche perché di fronte a un virus molto pericoloso immediatamente si crea un cordone sanitario, quindi le precauzioni fanno sì che si diffonda meno.
Si sa che alcuni virus anche molto virulenti, come il virus del vaiolo per esempio, lo smallpox, che adesso non circola e speriamo che non torni a circolare, ha un’altissima letalità, intorno al 30%, e una contagiosità che però non è bassissima, di circa 5 o 6. Questo significa che se le epidemie si sono potute circoscrivere è perché appunto è più facile organizzare un “cordone sanitario” attorno a un virus letale per circoscriverlo. Lo stesso discorso vale per un virus come Ebola. Discorso leggermente diverso per quel famoso H5N1 che tutti quelli che si occupano di questi problemi veramente temono più di ogni altro. L’H5N1 è un virus che ha una letalità – il tasso di letalità è quello che si ricava mettendo al denominatore i casi diagnosticati e al numeratore i decessi – che si avvicina al 60%. È un virus killer, drammaticamente pericoloso e, continuo a dirlo, ancora molto sottovalutato. È l’aviaria, per intenderci. C’è, perché circola ancora, nel sud-est asiatico e in alcuni paesi anche vicini all’Europa, in Egitto per esempio ci sono stati dei casi. Non se ne parla ma è così.

Per quanto concerne questo virus invece (nome scientifico: SARS-CoV-2), si è calcolato un tasso di letalità per ora grosso modo del 2-3%, che è comunque alto, perché significherebbe che due persone su cento infettate possono morire.

In alcune regioni italiane si è arrivati a un tasso di letalità del 10%. Questi tassi di letalità però hanno un vizio di fondo: sono ricavati mettendo al numeratore il numero dei decessi, un numero ovviamente sicuro, e al denominatore il numero dei contagiati accertati, per i quali è invece il numero dei tamponi che conta.

Si sottovaluta in questo modo che probabilmente ci sono 5, 6, 10 volte tanti contagiati paucisintomatici o addirittura asintomatici. Il tasso di letalità dev’essere calcolato quindi per vari procedimenti di avvicinamento alla realtà e probabilmente oggi si pensa che il tasso di letalità sia intorno al 2-3%, che è comunque alto.

Sulla base di questi dati, i grandi centri di epidemiologia e di studio della diffusione delle epidemie hanno tentato di valutare quello che sta succedendo e fare proiezioni per il futuro, che sono fondamentali. Qui entra in gioco un altro problema: si possono fare comunque questi studi statistici e valutare alcuni trend che sono fondamentali, cioè l’aumento dei contagi, l’aumento dei decessi, l’aumento dei ricoveri in terapia intensiva, eccetera. Quello che però non si può ben conoscere è l’altro fattore, il secondo, cioè la reazione dell’organismo. Perché noi non sappiamo se questo virus sia in grado di determinare un’immunità più o meno stabile. Non sappiamo ancora se chi ha contratto l’infezione o chi ha avuto il virus per qualche giorno in maniera anche non grave, ha sviluppato un’immunità stabile. Questo cambia enormemente le proiezioni per il futuro.
A questo punto però noi possiamo temere che il
lockdown, la chiusura drastica, pur essendo stata addirittura tardiva e comunque necessaria, ha come risvolto negativo la mancata o ridotta immunizzazione della popolazione, perché chiaramente l’esposizione è stata minore. Non si poteva fare diversamente e chi ha criticato il governo per aver eseguito le misure di lockdown in maniera troppo rigida non capisce. Basta vedere le curve di come l’epidemia sarebbe andata a crescere nei primi 10, 20 giorni qualora non si fossero fatti gli isolamenti. Quindi il discorso è complesso e bisognerà valutare lo stato di immunità prima di fare previsioni di medio-lungo termine.

 

 

Uno dei dati che salta subito all’occhio è la differenza di letalità tra la Germania da una parte, e l’Italia e la Spagna dall’altro. È dovuta al fatto che in Germania sono stati testati più asintomatici?

Provo a ragionare per induzione. Primo: il divide che abbiamo visto tra Asia e Occidente è pazzesco. Lì hanno agito subito, noi no. Quindi cosa bisogna pensare? Anche la differenza tra le varie regioni italiane è pazzesca: al nord dilaga, al sud no. Il fattore tempo quindi è ovviamente fondamentale. Al centro-sud il virus è andato molto più lentamente, si è potuta fare una prevenzione ma soprattutto la gente era più consapevole, quindi si esponeva meno e, di conseguenza, il virus non ha dilagato. Immagino che la grande differenza è che in Italia e in Spagna per vari motivi anche culturali c’è una grande promiscuità tra le persone rispetto al Nord Europa, una tendenza a stare molto più insieme e comunque una tendenza a proteggersi meno dal rischio perché l’informazione è stata scarsa e non ben modulata. Il tasso di letalità (che, va ancora sottolineato, è diverso da quello di mortalità) è drammaticamente amplificato all’inizio dell’epidemia, soprattutto nei paesi come l’Italia in cui si fanno pochi tamponi solo alle persone gravi; in Corea dove hanno fatto tantissimi tamponi la letalità è risultata subito molto più bassa per via del denominatore ampio.

Per quello che riguarda la Germania, dei colleghi che lavorano in alcuni centri di Magonza o Francoforte mi hanno detto di aver ricevuto immediatamente l’indicazione a stare attenti. Hanno protetto i reparti per come hanno potuto, hanno tenuto a casa il più possibile i pazienti per non farli entrare negli ospedali e hanno messo in atto terapie che soprattutto in Italia sono state sottovalutate. In particolare i protocolli con la clorochina, un vecchio antimalarico, e con la azitromocina, un antibiotico, sembrano funzionare. Cosa c’entra il farmaco antimalarico o l’antibiotico? È stato dimostrato che questi farmaci agiscono sul secondo passaggio che compie il virus e cioè cambiano l’acidificazione nelle cellule riducendo il passaggio del virus da una cellula all’altra. Il virus rimane così circoscritto in alcuni tessuti e si evita l’infiammazione con tempesta di citochine, che rappresenta la risposta più pericolosa. Probabilmente in Germania e in Francia sono state portate avanti queste operazioni essenziali, mentre da noi no e, che io sappia, neanche in Spagna.

In Turchia i contagiati stanno crescendo molto. A Istanbul la densità della popolazione è di circa 3000 persone al chilometro quadrato, così come In Italia la zona più colpita è anche una delle più densamente popolate. Il calcolo dell’R0 potrebbe essere influenzato anche da questo fattore?

Sì, come le abitudini sociali e i contatti, la densità e la numerosità della popolazione esposta sono fattori importanti da considerare. Va considerata la grande differenza tra Germania e Lombardia e a maggior ragione tra alcune regioni italiane come Lombardia e Campania, che sono sicuramente molto densamente popolate, e altre. Ancora a maggior ragione va considerata la differenza rispetto alle megalopoli che sono sparse nel mondo: sicuramente lì c’è molta più possibilità che il virus si diffonda. Finora questo è rimasto un problema non del tutto compreso. Con New York, gli Stati Uniti sono balzati nel giro di tre giorni in testa a tutto il mondo quanto a contagi. Dovremmo anche capire se la valutazione dei decessi è, non voglio dire corretta, ma comunicata correttamente. È questa la grande incertezza, perché possiamo fare studi e valutazioni statistiche, ed epidemiologi e statistici possono cercare di interpretare e prevedere. Ma non sono convinto che in fase pandemica, lo dico ancora una volta senza far polemiche, i dati vengano diffusi nello stesso modo nei diversi paesi. In Russia, per esempio, sembra quasi che il virus non ci sia. È vero che i russi hanno saputo fin dall’inizio mettere in atto strategie di contenimento ma io avrei qualche dubbio che i dati siano stati comunicati nella loro interezza.

Quello che sta succedendo nelle grandi megalopoli non lo sappiamo: per esempio dall’India non sono arrivate molte informazioni. Se il virus arriva a Jaipur o Nuova veramente credo che ci sia da scappare, perché già la situazione di base è drammatica, sia per l’inquinamento, sia per la densità pazzesca, sia per le modalità di relazione tra le persone, che vivono in condizioni molto promiscue.

A proposito dell’inquinamento, c’è chi ha supposto il particolato possa fare da diffusore del virus. Io su questo credo che si debba ragionare criticamente: non abbiamo mai avuto conferme a questa ipotesi, che è antica. Quello che invece è sicuro ed è stato finora poco valutato, è che nelle aree maggiormente inquinate si determina un’infiammazione cronica degli endoteli, cioè delle pareti dei vasi. Le persone esposte a inquinamento di lungo periodo hanno una condizione di enorme suscettibilità agli effetti più gravi del virus, perché il virus si aggancia sui recettori ACE 2, che sono distribuiti non solo sull’apparato respiratorio, ma anche sulle pareti dei vasi, sull’endotelio. Quindi è probabile che la morte degli anziani, soprattutto all’inizio, dei fumatori, degli affetti di patologie cardiovascolari, degli ipertesi e dei diabetici, sia legata proprio al fatto che hanno già un’infiammazione cronica delle arterie, dei capillari. Se il virus cominciasse a circolare nelle megalopoli del Sud del mondo, dunque, io penso che rischieremmo un dramma epocale ancora maggiore.

 

Robert Koch Institut

 

Secondo lei l’allarme di pandemia da parte dell’Oms ha subito anch’esso dei ritardi e questi ritardi hanno provocato da parte dei paesi una sottovalutazione?

Nel 2010 l’Oms, magari eccedendo in prudenza, dette l’allarme di una pandemia in atto, e lo fece perché alcuni avevano segnalato alcuni casi drammatici iniziali legati a quel virus H1N1 ricombinante del 2009, al quale abbiamo già accennato. Allora successe che perfino nel Parlamento europeo ci furono alcuni deputati che accusarono i funzionari dell’Oms di essere in combutta con Big Pharma, per vendere antivirali e vaccini. Si scatenò una grande campagna contro l’Oms e ancora in questi giorni gli stessi parlamentari (ne conosco personalmente uno o due) avevano ricominciato diffondere affermazioni simili. Quindi l’Oms si è trovata tra l’incudine e il martello. Il rischio era di nuovo di essere accusata di determinare volutamente il panico nelle popolazioni. Così stavolta è stata più prudente e ha aspettato a dare l’allarme pandemico. Ha dato però un pre-allarme, al punto tale che in Italia, il 31 di gennaio di quest’anno, sulla “Gazzetta” della Repubblica è comparsa l’informazione che eravamo in una fase di pre-allarme pandemico e bisognava cominciare a prepararsi. Ecco, lì poi di chi siano le responsabilità sul fatto che non ci si è preparati adeguatamente, sarà un discorso che purtroppo verrà fuori in maniera non proprio lineare nei prossimi mesi.

Non voglio scagionare del tutto l’Oms, ma penso che abbia cercato di agire in maniera più graduale questa volta, proprio per evitare questo pandemonio di critiche. Non la vedo quindi come particolarmente responsabile, anche perché non solo ha subito messo a servizio in tutto il mondo i suoi dipendenti e le sue agenzie, ma ha anche mandato subito in Cina, appena ha potuto, dieci ricercatori di livello e ha fornito immediatamente dati epidemiologici e clinici molto importanti. Quindi chi voleva capire poteva capire. Che poi si è arrivato un po’ tardi alla definizione di pandemia questa volta rispetto all’altra è vero, ma per le motivazioni che dicevo.

Io penso in realtà che i personaggi che dovrebbero chiedere scusa al mondo, sono quelli che hanno fatto il contrario e che ancora adesso fanno il contrario: continuano a dire che non è vero, che non c’è una vera pandemia, che tutto sommato i morti di influenza sono più o meno gli stessi e che dietro c’è chissà quale piano segreto… Ecco, questi sono personaggi che a mio parere dovrebbero chiedere scusa. Ovviamente non lo faranno mai.

In un paese in cui l’epidemia è già in una fase avanzata, ha ancora senso il lockdown? Quali altre misure possono essere prese?

Il virus non ha confini, questo è il primo punto. Le strategie andrebbero quindi al più presto possibile concordate tra Oms, Onu e agenzie internazionali perché se ogni paese fa a modo suo ovviamente non ne veniamo fuori. Se è vero per esempio che Brasile farà come ha annunciato, probabilmente le persone cominceranno a scappare dal paese contagiando tutto il Sud America.

Le misure di lockdown totale si possono fare subito ma poi una volta che il virus è in giro non si può fare un lockdown totale o quanto meno non è detto che funzioni. Quindi capisco chi dice che potrebbe essere anche troppo tardi. Si può attuare una strategia intermedia, un lockdown parziale, ma con una sorveglianza attiva con squadre di persone competenti che eseguono il monitoraggio dei vari casi, per controllare le condizioni dei contatti dei positivi.
Però in questo caso si pone un problema di costi e di materiale disponibile. C’è chi auspica che siano fatti tamponi a tutti, ma non è una cosa così semplice, per vari motivi. Primo tra tutti perché non ci sono. In alcuni paesi si sono adattati: i cinesi, non so se sono dati reali, a un certo punto avevano la possibilità di fare un milione e mezzo di tamponi a settimana. Una cosa che noi ci sogniamo. Nel loro caso hanno potuto fare una sorveglianza attiva veramente perfetta: monitoravano tutti i casi, tutti i contatti attorno, tamponavano almeno due volte. Questo è un altro problema: quando si fa un tampone tu hai la situazione istantanea, ma dovresti dopo qualche giorno andare a vedere e confrontare perché altrimenti non hai una visione completa. Quindi ci sarebbe bisogno di una quantità incredibile di materiali e andrebbero anche messe in campo molte persone competenti, con la necessaria protezione. Capite che in alcuni paesi è impossibile. Se non si ferma subito, un’epidemia
avrà certamente un andamento in parte incontrollato.
Ogni paese dunque per ora fa per conto proprio, ma bisognerà arrivare a una modulazione perché il problema non è solo in quella che possiamo chiamare prima ondata.
Raggiungendo un’immunità molto debole e non sufficiente a livello di popolazione come quella che probabilmente si verrà a determinare nei prossimi mesi, si porrà il grande problema di cosa fare al momento in cui raggiunto il picco e poi un certo plateau, si comincia vedere che i casi scendono. Sicuramente si dovrà fare una sorveglianza dello stato dell’immunità dosando le immunoglobuline, soprattutto le IgG che sono quelle che definiscono l’immunità più stabile. Non ci si potrà però illudere di fare questo test a tutti e non ci si potrà illudere che il virus sia scomparso.

Quindi bisogna, e questo è l’altro passaggio fondamentale, che in tutti i paesi si faccia quello che si doveva fare fin dall’inizio, cioè adattare il sistema sanitario a una possibile seconda fase, perché in questi casi si deve ragionare secondo il peggiore degli scenari possibili.

Questa è un’altra parola chiave: dobbiamo temere che il virus rimanga a lungo e che torni in forma altrettanto o più grave e dobbiamo adattare il sistema sanitario perché nel caso che la pandemia si ripresenti ad esempio in autunno – speriamo di no, ma è probabile o almeno possibile – a quel punto non ci si trovi con gli ospedali presi d’assalto e di fronte a un secondo dramma. In quel momento ci dovremo trovare con delle strutture alternative ben protette e ben organizzate. Io sto facendo girare un video che mostra l’ospedale Cotugno di Napoli, dove non c’è un solo medico infettato. Ci deve essere in ogni grande città un ospedale organizzato così e dei centri dove poter fare i triage, che mandino i vari casi solo in quell’ospedale, che è attrezzato. Sperando che in questo modo si eviti l’assalto delle terapie intensive, che è stato un altro problema immenso.

 

 

Che conseguenze avrà la situazione che stiamo vivendo? Ci potrebbe essere un‘ulteriore medicalizzazione della società in senso farmacologico, o sotto altri punti di vista?

C’è stato un filmato che in Italia è girato moltissimo, in cui il virus personificato diceva: «Adesso avete imparato, tutto sommato la mia presenza è stata utile». Insomma si dava una connotazione quasi positiva al virus. Ora io non la vedrei così, l’ho trovato eccessivo. Però una parte di verità c’è e sta nel fatto che questo virus ha evidenziato una situazione veramente drammatica dei sistemi non solo social-sanitari ma anche delle condizioni ambientali. Credo che tutti – da chi si occupa di economia a chi si occupa di salute, da chi si occupa di ambiente a chi si occupa di politica – abbiamo capito che una pandemia non è qualcosa che possa essere in qualche modo frenata al punto tale da non danneggiare intere economie a livello globale. Addirittura c’è qualcuno che dice che questa emergenza è stata voluta per far fuori nel giro di qualche anno un miliardo di persone e “resettare” tutto. Ora, tutto è possibile, ma a me pare che questo sia un romanzo di fantascienza nera.
Io credo che possiamo imparare
da quanto sta accadendo, anche se non è detto che lo faremo. Se prevarrà la consapevolezza che il pianeta non ce la fa più, si dovrà affrontare non solo il problema delle pandemie virali ma anche, per rimanere nell’ambito della salute, il problema altrettanto drammatico dell’antibiotico-resistenza. Perché noi abbiamo solo in Italia, e non se ne parla, probabilmente da 20 a 50 mila persone che muoiono ogni anno per questo problema: si tratta di un fenomeno paragonabile a questo virus come numeri. Queste persone muoiono perché gli antibiotici non funzionano più. Ora questo significa che ogni anno a livello mondiale ci sono probabilmente milioni di morti per questo motivo, l’equivalente di una grande pandemia. Alla cui base ci sono due fattori altrettanto importanti, che hanno come denominatore il fatto che a chi produce gli antibiotici non interessa nulla che vengano usati bene: interessa solo che vengono venduti. Per cui non solo permettono ma incentivano il cattivo uso degli antibiotici. Non solo a livello umano, ma per esempio a livello animale. Gli animali, in quasi tutti gli allevamenti del mondo, a partire soprattutto dagli Stati Uniti, vengono rimpinzati con antibiotici che cesseranno di essere efficaci nel giro di pochi anni. Questo è un problema immenso collegato all’altro elemento che dicevamo, dei mercati e delle catene alimentari che sono ridotte in uno stato insostenibile, dove nascono continuamente batteri e virus che possono dare problemi immensi.

Se poi allarghiamo lo sguardo, dimentichiamo spesso che stiamo alterando l’intera ecosfera. Non è solo l’atmosfera, la cui composizione molecolare è già alterata da decenni. Noi viviamo respirando benzene, benzo-antracene, idrocarburi poliaromatici, particolato ultrafine e metalli pesanti dalla nascita. Addirittura queste sostanze raggiungono il feto e de-programmano il suo epigenoma. Questo lo sappiamo e non facciamo nulla.

Si parla tanto di cambiamenti climatici, altro problema drammatico, e non si fa nulla per evitarlo. Ma i cambiamenti biologici e soprattutto microbiologici sono ancora più drammatici e nessuna ne parla. Noi stiamo alterando l’intera biosfera, e la biosfera è composta per l’80% da microorganismi. Noi siamo una pulce nell’ambito dell’ecosfera terrestre, eppure abbiamo noi il dominio di tutto e stiamo stravolgendo tutto. Pur essendo una minima parte di questa sistema, che da miliardi di anni ha equilibri complessi e delicati, noi lo stiamo completamente stravolgendo. Nei prossimi anni tutto questo verrà all’attenzione di chi governa questo pianeta. Dobbiamo sperare che a livello politico, a livello finanziario e a livello di grandi istituzioni che possono fare la differenza ci sarà un minimo di consapevolezza perché altrimenti non so bene quello che sarà il futuro nostro e dei nostri figli. Questo è il punto. Non è vero che questo virus è stato bravo e buono e lo dobbiamo ringraziare, però ci ha costretto a fermarci e ha dato un segnale di quello che una crisi biologica può significare, e appunto di questo non si parla mai. Si parla di crisi sociale, di crisi politica, di crisi economica, di crisi ambientale, di crisi climatica. Ma abbiamo la percezione che il vero dramma è la crisi biologica? È forse la prima volta che tutti sono costretti a confrontarsi con qualcosa di simile: questo è quello che possiamo dire in questo momento. Come (re)agiremo sinceramente non lo so.