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Scuola Estiva di Filosofia: cura vs. consumo, distruzione, guerra

Nella XVI sessione della Scuola estiva di Filosofia (Roccella Ionica 22-29 luglio 2025) si affronterà il tema della cura e dei suoi opposti – dall’incuria alla distruzione e alla guerra – con particolare attenzione alla possibilità di “trattare” la malattia della società occidentale come insieme delle relazioni fra umani e degli umani con il resto della natura

Con il tema della Cura inauguriamo quest’anno un progetto che ci accompagnerà fino al 2026 e che avrà in Materia il secondo termine di riferimento della nostra riflessione. È la materia viva come limite immanente della realtà il soggetto e insieme l’oggetto della cura. L’idea è quella di ragionare sulla coppia cura/materia nella forma di una interdipendenza reciproca, di un chiasmo: l’una implica l’altra e viceversa. Chiediamoci allora in prima battuta che cosa bisogna intendere con “cura“: l’occuparsi di sé che si esercita attraverso la conoscenza introspettiva oppure, secondo un’accezione più materiale, l’attività teorica e pratica con cui ci alleniamo ai diversi usi della nostra vita? Se la cura è una specie di training preparatorio alle sfide dell’esistenza, sia in senso individuale sia in senso collettivo, allora la cura non è contemplazione, è riproduzione. 

Nella filosofia contemporanea il tema della cura è centrale nei lavori di Heidegger, di Foucault e nel pensiero femminista: che rapporto c’è con l’epimeleia degli antichi? E quale significato ha la cura nel XXI secolo di fronte alla questione della giustizia socio-ecologica? Una volta sganciata dalla sfera privata e domestica e anche dall’ambito medico, ci convince il fatto di attribuire alla cura un senso etico-politico in grado di rappresentare il criterio utile a resettarci. La cura oggi come alternativa al consumo e alla distruzione, la cura come parola chiave per rifiutare la guerra e come strumento per attraversare le contraddizioni del mondo presente e per lavorare alla pace.

È questa la premessa della XVI edizione della Scuola Estiva di Filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica (www.filosofiaroccella.it), organizzata dal basso dall’Associazione Scholé e che si svolgerà dal 22 al 29 luglio. Ventinove iniziative tra lezioni, laboratori e incontri che vedranno la partecipazione della cittadinanza interessata e di studentesse e studenti, dottorande e dottorandi provenienti da diverse zone d’Italia e anche dall’estero. Filosofia, studi classici, fisica e storia della scienza saranno i linguaggi attraverso i quali declinare il concetto di cura, grazie ai contributi di tredici relatori/relatrici. Per entrare nel merito di alcune delle questioni che saranno oggetto di discussione, abbiamo invitato Arianna Fermani, dell’Università di Macerata e direttrice della Scuola Estiva insieme a Bruno Centrone (Pisa), Giancarlo Cella dell’Università di Pisa e dell’INFN e Paolo Godani dell’Università di Macerata a un confronto su consumo, distruzione e guerra intesi come termini opposti alla cura e proprio per questa ragione anche come problemi e prove empiriche con cui fare i conti. Il tema sarà affrontato durante l’incontro del 28 luglio, nella serata che anticipa la chiusura della Scuola affidata quest’anno proprio a Godani.

“Curia” e “incuria”

Ripartiamo dall’antico. Quali sono i termini della filosofia greca che esprimono il senso della cura da cui possiamo prendere spunto per la nostra attualità? E quali invece i termini contrari, che danno il senso dell’incuria? Risponde Arianna Fermani: «Se è vero che, per dirla con Nietzsche, «proprio perché sono partito da lontano – dico dai Greci – ho fatto un balzo più lontano degli altri”», allora, forse, può essere utile mettersi nuovamente all’ascolto delle parole antiche che “dicono” della cura e che dànno anche voce alle numerose forme di incuria che, allora come ora, distruggono la vita degli individui e della collettività. Alla grammatica della cura – di sé e degli altri – espressa da termini quali, ad esempio, epimeleia, melete, therapeia, boetheia, si contrappongono, nel vocabolario greco, svariate espressioni dell’incuria e dell’indifferenza, quali, ad esempio, ameleia, oligoresis, aphylaxia o akedia (da cui il nostro “accidia”)».

L’assenza di cura vissuta quindi come difetto, trascuratezza, negligenza? «L’incapacità di prendersi cura di se stessi e del mondo – continua Fermani – implica il cattivo uso del proprio tempo: la trasformazione della scholé, ovvero del tempo libero da dedicare alla cura di sé e alla propria askesis (cioè al lavoro, all’esercizio costante in direzione dell’acquisizione o del mantenimento della propria forma) in rathymia, ovvero in indolenza, rappresenta solo uno dei profili di una aergia (inattività) che può essere solo foriera di malattia, bruttezza e squilibrio».

La cura e il limite

È molto interessante la connessione tra incuria, inattività e disagio psicofisico; nel mondo contemporaneo però è l’iperattività tecnico-scientifica della società di mercato a mostrare disinteresse per la cura generando caos e squilibri al livello planetario: «Abbiamo un’evidenza largamente condivisa che l’essere umano sia diventato una forza capace di modificare profondamente l’equilibrio planetario e questo impone una responsabilità nuova e profonda» – afferma Giancarlo Cella. «La scienza rende possibile definire indicatori globali che identificano i limiti entro i quali l’umanità può operare senza compromettere la stabilità del sistema Terra. Il superamento di questi limiti (climatico, della biodiversità, dei cicli dell’azoto e del fosforo, etc.) indica una crisi della cura».

Di fronte alle forme di violenza e distruzione che stiamo vivendo tuttavia la scienza, fin dall’età moderna e poi dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti, non è esente da responsabilità: «La scienza è uno strumento potentissimo – dichiara Cella. Può essere usata sia per il progresso e la cura, sia per la distruzione. Penso che lo stesso uso del termine “progresso” sia problematico e necessiti di essere approfondito. Lo sviluppo industriale, basato su scoperte scientifiche, ha contribuito all’inquinamento, al riscaldamento globale e alla perdita di biodiversità. La scienza è stata ed è al servizio di un modello economico estrattivo che non considera le conseguenze ecologiche a lungo termine, per non parlare delle tecnologie militari sofisticate e distruttive rese possibili da fisica, informatica, biologia e chimica». Oltre a mutare la rappresentazione scientifica della natura per concepire la Terra sempre più come un sistema complesso, vivente e interconnesso, occorre trasformare la rappresentazione che abbiamo della scienza stessa. «Credo – continua Cella – che la scienza possa essere anche parte della soluzione che andiamo cercando. Essa fornisce strumenti per la diagnosi del cambiamento climatico, propone tecnologie sostenibili e può guidare transizioni ecologiche se unita a valori etici e visioni politiche inclusive. Il dubbio è se sia possibile passare da una visione della scienza che vede come parole chiave ‘controllo’ e ‘dominio’ a un’altra che le sostituisce con “conoscenza” e “cura”».

Curare le malattie sociali?

Abbiamo bisogno di un nuovo Seicento, che teorizzi e metta in pratica riforme epistemologiche e politiche per una società della cura a venire. «Sono piuttosto pessimista sul fatto che le prossime generazioni possano vedere nascere una qualche “società della cura” – interviene Paolo Godanì– Non credo cioè che le nostre società occidentali, per come si sono degradate negli ultimi decenni e per il modo in cui oggi stanno correndo alla guerra, avranno la capacità di autoriformarsi». Però il problema resta. Con quali mezzi possiamo affrontare la “malattia” della civiltà occidentale? «Ogni “malattia” è un fenomeno collettivo. Chiama in causa le relazioni che intessiamo tra noi umani e con il resto della natura». Perciò non esiste cura che non sia politica? «Immagino – e credo che questo sia anche il compito politico di chi vede come stanno realmente le cose – che si produrranno sempre più spesso delle forme di abbandono del regime sociale dominante e del suo modo di vivere, delle pratiche di diserzione o di esodo che avranno da fondarsi su nuovi modi di stare insieme, su un nuovo modo di intendere e di realizzare concretamente l’amicizia, la solidarietà e la cura, su un nuovo modo di praticare una vita comune» – conclude Godani.

La Scuola di quest’anno avrà un enorme vuoto da attraversare, con coraggio e determinazione ce ne faremo carico collettivamente. Fortunato Maria Cacciatore non c’è più, il mare e la filosofia per lui facevano parte di un rito rigenerante al quale non avrebbe mai voluto mancare. Grazie, Fortunato, per il tuo materialismo, per il tuo comunismo, per la tua generosità.