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EUROPA

Ritsona. La necropolitica dei campi

In seguito alla morte di un connazionale nel campo per richiedenti asilo di Ritsona (Grecia), lunedì 16 gennaio la comunità congolese ha effettuato una protesta davanti ai cancelli, bloccando la circolazione stradale per alcune ore. Adesso la lotta continua a sostegno della famiglia, impegnata a scoprire le responsabilità e le cause di questa morte

Lunedì 16 gennaio Some Tsiona Nzita, un uomo congolese di 44 anni, è morto nel campo di Ritsona, a circa 70 km di distanza da Atene. Il suo compagno di stanza e altri membri della comunità congolese raccontano che Some stava male da giorni, ma nel campo non ha ricevuto assistenza sanitaria adeguata.

Il campo di Ritsona ospita circa duemila persone, al suo interno i servizi sono del tutto insufficienti. Un volontario racconta: «La Croce Rossa che forniva assistenza a donne e bambini ha lasciato il campo, MSF viene una volta alla settimana, normalmente c’è un solo staff medico per tutte queste persone. Venerdì scorso un bambino si è rotto un braccio giocando a pallone, ma fino al lunedì successivo nessuno lo ha visitato». Una residente del campo aggiunge: «La sola cosa che ci dànno quando stiamo male è paracetamolo. A volte paracetamolo scaduto. Il campo è lontano dall’ospedale, l’unico modo per raggiungerlo è il taxi. Se stiamo male dobbiamo pagare per andarci». L’assistenza sanitaria non è l’unica carenza: a chi ha ricevuto il secondo diniego alla richiesta d’asilo non vengono nemmeno distribuiti i pasti. L’impressione è che le persone siano abbandonate a loro stesse; lə residenti africanə – per lo più congolesi e camerunensi – lamentano di essere vittime del razzismo istituzionale e ricevere un trattamento peggiore rispetto ad altri gruppi che vivono nel campo da più tempo.

Il muro esterno del campo di Ritsona

Lunedì alle 8.45 del mattino, arrivo a Ritsona per caso, ho accompagnato Jean (nome di fantasia), che è venuto al campo sperando di ritirare i documenti che gli servono per lavorare e finalmente anche la risposta alla sua domanda d’asilo, che aspetta da due anni. Vediamo un’ambulanza e un gruppo di persone che discute con la sicurezza all’ingresso. Jean entra per mettersi in coda al servizio asilo, ma dopo pochi minuti ritorna dicendo: «C’è un morto dentro al campo». Poco dopo le 9 la comunità congolese esce dal cancello principale e per protesta blocca la statale. Le immagini di Some morto nella sua stanza e il video del suo corpo riposto in un sacco nero hanno viaggiato di cellulare in cellulare tramite WhatsApp. Un connazionale della vittima mi racconta: «Ha iniziato a chiedere aiuto fra le 4 e le 5 del mattino. Il suo compagno di stanza è andato ad avvertire la sicurezza del campo, chiedendo di chiamare un’ambulanza, ma è arrivata solo alle 8, quando non c’era più niente da fare». La protesta va avanti, alcuni cassonetti vengono spostati in mezzo alla strada, un tir prova a forzare il blocco senza riuscirci, arrivano un paio di auto della polizia, ma si limitano a dirigere il traffico e a chiedere agli automobilisti di fare marcia indietro. Una donna traccia cerchi sull’asfalto agitando un cono di plastica rossa, urla: «Papier problème! Travail problème! Hôpital problème!».

Il campo di Ritsona è letteralmente in mezzo al nulla, attorno ci sono solo campi agricoli, fabbriche e magazzini. Gli unici mezzi per raggiungere Atene sono i taxi abusivi, 30 euro per un viaggio andata e ritorno. Se si viene in una giornata qualsiasi è un via vai continuo di camion e furgoni che prelevano persone fuori dai cancelli per portarle a lavorare nei campi. «La paga va dai 20 ai 30 euro al giorno. Più lavori, più guadagni». Il tempo indefinito della richiesta d’asilo viene messo a valore dal settore agricolo locale, che attinge da un bacino di centinaia di persone estremamente ricattabili a causa della precarietà del loro status giuridico e delle condizioni di vita miserabili cui sono costrette. In luoghi come Ritsona il rapporto fra politiche confinarie e sfruttamento lavorativo è del tutto evidente.

Lunedì però non è un giorno qualsiasi, una persona è morta a causa del regime del campo e la sua comunità chiede giustizia. A bloccare la strada ci sono quasi esclusivamente persone africane, le altre comunità non si uniscono. I servizi dentro al campo vengono sospesi dalla direzione a causa della protesta, generando il malcontento degli altri gruppi. Divide et impera. Dopo un’ora e mezza alcuni rappresentanti della comunità congolese escono dal campo dicendo di aver incontrato il direttore, che ha garantito loro di fare tutto il possibile per accertare le cause della morte. Per un attimo le persone rientrano, ma la rabbia delle donne congolesi non si spegne, dopo pochi minuti ritornano in strada, viene acceso un fuoco, qualcuna urla: «Dove sono i maschi?».

La protesta fuori dal campo

La protesta va avanti fino circa all’una. Io e Jean torniamo ad Atene senza i documenti che gli servono. Alle tre del pomeriggio un operatore di un’associazione mi manda un messaggio: «Adesso è tutto molto tranquillo, addirittura più tranquillo del solito. Non si direbbe che ci sia stata una protesta. Chi lavora nel campo dice che la persona è morta in ospedale». La direzione ha diffuso la sua versione dei fatti, mistificando la realtà, per negare le loro responsabilità ed evitare conseguenze legali. Anche online si scatena una battaglia: il collettivo Solidarity with Migrants pubblica la notizia della morte nel campo, la direttrice del campo di Serres, vicina al partito al governo Nea Demokratia, commenta sostenendo che sia una notizia falsa; qualche funzionario del ministero twitta accusando SwM di fare disinformazione, ma poi cancella. A confermare che Some è morto nella sua stanza nel campo però ci sono foto e video registrati da connazionali: dopo alcune ore su YouTube viene diffuso un servizio che documenta quanto accaduto .

Martedì la famiglia di Some Nzita arriva ad Atene dalla Francia per vedere il corpo del proprio caro e occuparsi della sua sepoltura. Li accompagniamo a Ritsona per incontrare il direttore del campo. Le guardie all’ingresso si rivolgono loro freddamente «Ci dispiace per la vostra perdita. Il direttore oggi non c’è, sta incontrando il ministro». Dopo nemmeno 24 ore dalla morte di Some, il governo greco sta celebrando con un evento ufficiale tre anni di efficace gestione della crisi migratoria; probabilmente è invitato anche il direttore di Ritsona.

Secondo la ONG Aegean Boat Report, solo nel 2022, quasi 10.000 persone che erano riuscite a raggiungere le isole greche dell’Egeo sono state arrestate, derubate, minacciate e illegalmente respinte dalla Guardia Costiera greca, con la complicità di Frontex. Il 31 dicembre il governo greco ha chiuso ESTIA, l’unico progetto di housing urbano destinato a persone richiedenti asilo, costringendo migliaia di persone a trasferirsi in campi lontani dalle città, dove l’unica soluzione abitativa offerta è il container. Il 30 novembre, dopo mesi di lotte, arresti e denunce, ad Atene è stato definitivamente sgomberato il campo di Eleonas, che distava solo due fermate di metropolitana dalla centralissima piazza Monastiraki. Nonostante dall’estate, migranti e solidali avessero condotto una lunga lotta per evitarne la chiusura, né il governo, né l’amministrazione locale hanno ascoltato le persone residenti, preoccupate di essere allontanate dalla città, dalle reti sociali costruite negli anni, dai loro luoghi di lavoro e dalle scuole frequentate dai loro bambini. A giugno, un’inchiesta internazionale ha rivelato che la Grecia userebbe persone richiedenti asilo sotto ricatto per effettuare respingimenti di altrə migranti al confine di Evros . Eccole le virtuose politiche migratorie del governo Mitsotakis e del ministro dell’immigrazione Mitarakis.

La comunità congolese si stringe attorno alla famiglia, passano assieme qualche ora all’interno del campo. Nel frattempo, davanti al cancello appendiamo uno striscione per ricordare Some e Wares Ali, richiedente asilo pakistano morto in circostanze simili il 30 agosto scorso nel campo di Eleonas. La sicurezza chiama la polizia. Quando la famiglia esce dal campo viene detto loro: «se volete tornare domani, fatelo senza di loro».

Lo striscione per ricordare Some Tsiona Nzita e Wares Ali

Mercoledì la famiglia di Some torna al campo, le viene detto che il corpo è in un ospedale di Atene per l’autopsia. Giovedì, tramite l’aiuto di un avvocato, scoprono che il corpo è in realtà all’ospedale di Chalkida, a 20 km da Ritsona, l’autopsia non è stata ancora fatta. Alla richiesta di vederlo gli viene risposto che è morto di Covid e quindi non è possibile. Venerdì finalmente il corpo è portato ad Atene per l’autopsia, il risultato si saprà dopo il weekend. La comunità congolese si riunisce nuovamente con la famiglia per una veglia funebre, nel tentativo di riappropriarsi della ritualità legata al lutto, che le istituzioni greche stanno negando loro, esercitando un controllo sul corpo che si prolunga addirittura oltre la morte. Lunedì, a una settimana di distanza dalla morte, i familiari continuano ad aspettare di conoscere le cause del decesso. Mercoledì 25 gennaio, il funerale ad Atene è stato un momento per ricordare Some e tutte le vittime del regime dei campi. Nelle parole della nipote arrivata dalla Francia: «Non voglio reprimere la mia rabbia oggi, vogliamo giustizia per mio zio. È morto perché era un rifugiato, è morto a causa delle condizioni di vita del campo. Era un essere umano, ma gli era negata la dignità. Vogliamo giustizia perché a nessun’altra persona succeda quello che è successo a Some».

Viene da chiedersi cosa può essere successo a questo corpo nei giorni trascorsi dalla sua morte. Perché tutte queste menzogne? Il caso di Some e le proteste della comunità congolese non hanno avuta alcuna visibilità mediatica in Grecia, quanti casi come questo succedono quotidianamente all’interno dei campi senza nessuno a testimoniarlo?

In tutta la Grecia, i campi stanno venendo trasformati in strutture chiuse, dove l’accesso a osservatori indipendenti è reso giorno dopo giorno più complesso; strutture controllate da polizia e sicurezze private, con sistemi di videosorveglianza, orari da coprifuoco, tornelli all’ingresso e kilometri di filo spinato a segnarne il perimetro. Un regime sempre più simile a quello carcerario, dove però la fine pena viene resa incerta dall’incognita dell’esito della richiesta di asilo.

In testa mi risuonano le parole di una ragazza congolese: «ci fanno vivere come animali, ci lasciano morire come animali». Isolare le persone richiedenti asilo nei campi significa riprodurre i confini all’interno dello spazio nazionale; tenerle lontane dagli spazi urbani è funzionale a impedire la costruzione di reti sociali, relazioni solidali e di mutuo aiuto; confinarle in aree come Ritsona significa cercare di ridurle a corpi sfruttabili, corpi sacrificabili.

Eppure, proteste come quella di lunedì mattina segnalano che, nonostante tutto, le persone si ostinano a resistere. Negli occhi mi rimane la determinazione delle donne congolesi, la loro protesta fatta di canti, lacrime, fuoco, danze, urla indirizzate alla polizia e a chi vorrebbe ridurle a soggetti docili. La rabbia degna di chi non ha nulla da perdere.

In copertina, i tornelli installati a Ritsona (non ancora in funzione).

Tutte le fotografie dell’articolo sono di Luca Daminelli