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Riflessioni a partire da un testo di psicologia della resistenza e della lotta per il cambiamento

Il libro di Gianpaolo Contestabile “Psicologia della resistenza. Di salute mentale, cambiamento e lotta” (Effequ, 2024) approfondisce il dibattito sui temi della cura, del conflitto e del mutualismo nell’ambito complesso e controverso della salute mentale

Il libro di Gianpaolo Contestabile fornisce un interessante contributo per approfondire il dibattito sui temi della cura, del conflitto e del mutualismo nell’ambito complesso e controverso della salute mentale, che negli ultimi anni è stato attraversato da una «esplosione discorsiva» (come ha scritto Cresswell) nella quale può accadere di perdere l’orientamento. Il volume si presenta come un tentativo di riconfigurare il discorso sulla sofferenza mentale riattivando le linee del pensiero psicologico che possano aiutare a porre una distanza dal modello biomedico e dal suo riduzionismo, che isola la malattia come mera deviazione patologica, obliterando il peso dei fattori sociali e ambientali. Richiamando la figura di Franco Basaglia e la sua critica all’istituzione manicomiale, la “psicologia della salute” nata in contesti di fermento sociale come Cuba – che sposta il focus dalla mera cura alla prevenzione e alla comprensione dei determinanti sociali della salute – e gli esperimenti classici di psicologia sociale (Milgram, Asch, Zimbardo) l’autore rivendica la possibilità di costruire attraverso la psicologia un sapere critico della salute mentale, capace di comprendere come le dinamiche di potere operino non solo a livello macro-sociale, ma anche nelle micro-relazioni e nelle istituzioni.

Le riflessioni in questo ambito sembrano rispondere a una crisi dei saperi psy, che si mostra nella difficoltà ad affrontare i fenomeni del disagio generalizzato fuori dalle angustie della relazione privata psicoterapeutica o delle funzioni di controllo e gestione affidate ai servizi pubblici. L’ambito dell’attivismo politico, quello a cui Giapaolo Contestabile fa esplicito riferimento anche attraverso la sua vicenda biografica (è uno dei fondatori della Brigata Basaglia) sembrerebbe quello più pronto ad affrontare questi temi. In questo orizzonte la riflessione sul contesto editoriale e sul dibattito di movimento in cui questo libro si inserisce può aiutarci a valutarne il possibile impatto. Esso infatti si pone all’interno di un gruppo di pubblicazioni, uscite dopo la sindemia di Covid, che ha provato a ricostruire la politicità del tema della cura, rimettendone i contenuti in relazioni con le riflessioni dell’attivismo di base.

Mutualismo, movimenti e sindemia

Gli anni di crisi sindemica hanno aperto la strada a varie forme di mobilitazione politica e riflessione di movimento nelle quali hanno acquisito centralità la salute, la sanità e la cura. Tali elaborazioni hanno ripreso e approfondito pratiche di mutualismo e di autorganizzazione “dal basso” in continuità con alcune linee di azione politica sviluppatesi negli anni successivi alla crisi economica del 2008, particolarmente nei paesi del sud europeo. La pratica mutualistica orientata a costruire esperienze di cura autogestite, destinate a chi fosse strutturalmente escluso dai sistemi formali di protezione sociale, o a chi ne perdeva l’accesso in conseguenza di esperienze di attraversamento “irregolare” dei confini o per esperienze abitative informali, ha impegnato una variegata costellazione di soggettività di movimento italiane maturate lungo i cicli di lotte sulla casa, le migrazioni e la loro regolamentazione statale tanatopolitica (sul confine con la Francia e sulla “rotta balcanica”), in contrasto alle forme violente di segregazione ed espulsione che operano alle frontiere e nelle metropoli. Non sono mancati anche casi in cui alla produzione di servizi autogestiti si sono accompagnate esperienze focalizzate sulla costruzione di microeconomie esterne alle logiche del mercato mainstream, come i mercati contadini e le autoproduzioni, esperienze oggi in parte consolidatesi e in parte confluite in sperimentazioni maggiormente articolate di autorecupero ecologico, economie circolari e programmazione industriale. Attraverso una storia di conflitti e divaricazioni, a esse si sono affiancate esperienze di rivendicazione e progettazione tecnologica dal basso (si vedano ad esempio l’esperienza di Mondeggi o la GKN).

Nel campo specifico della salute all’interno dei percorsi di mutualismo si sono sviluppate iniziative in cui, oltre a una focalizzazione sulle caratteristiche “residuali” delle soggettività destinatarie (sempre collocate lungo particolari faglie di oppressione sociale, razziale, di genere, ecc.) e sulla conseguente azione per la riduzione delle barriere (amministrative e giuridiche) all’accesso ai servizi, sono emersi approcci critici nei confronti dell’impianto istituzionale delle tecniche mainstream, delle pratiche e dei saperi medici ufficiali, riconosciute come inevitabilmente compromesse con i paradigmi escludenti e selettivi promossi dalle istituzioni pubbliche.

Nelle esperienze autogestite di mutualismo sono quindi maturate maggiori consapevolezze rispetto alla questione dei determinanti sociali, relazionali e ambientali della salute e si è approfondita la relazione tra l’intervento sanitario e assistenziale e le pratiche di presa di parola e di rivendicazione sugli assi della casa, del lavoro, dell’ambiente, della qualità della vita, della dignità dell’accoglienza, del riconoscimento dei diritti essenziali.

L’attenzione a quelle che nelle politiche istituzionali risponderebbero alle martellanti raccomandazioni rispetto alla “integrazione socio-sanitaria” e alla “promozione della salute” (ove però queste spesso restano più dichiarate che reali) è stata pienamente assunta in alcune esperienze (si veda la Rete degli Ambulatori Popolari).

Stimolata dal contesto pandemico e dalla visibilità assunta dal tema della cura a partire dal marzo 2020 una parte significativa dei movimenti ha ulteriormente approfondito la propria elaborazione attraverso le riflessioni femministe e transfemministe – nelle quali è emersa con sempre maggiore importanza la componente ecologista – tematizzando la socializzazione del prendersi cura, la critica alla distribuzione iniqua del lavoro riproduttivo e ai saperi che operano la naturalizzazione forzata di tale distribuzione. Oltre a uno stretto confronto con pratiche rivendicative intese a contrastare l’invisibilizzazione delle questioni di genere in periodo pandemico (tra cui l’irrigidimento dei criteri di accessibilità all’IGV e la depauperazione dell’impianto pubblico dei consultori), le forme autogestite e mutualistiche di azione in questa area hanno riguardato la costruzione di attività nelle quali si mettessero contemporaneamente a critica i dispositivi e i saperi patriarcali e si realizzassero forme di azione collettiva basate sul riconoscimento della reciproca interdipendenza e della necessità di costruzione di relazioni, anche attraverso pratiche artistiche, performative e di inchiesta/autoinchiesta, intese a far emergere una soggettività collettiva insieme protagonista e oggetto della cura, che altrimenti sarebbe rimasta invisibilizzata dai saperi, dai discorsi e dalle pratiche dominanti.

La riflessione teorica: ripoliticizzazione della cura e solidarietà

Lo sviluppo di pratiche di mutualismo è stato variamente discusso nella letteratura scientifica focalizzata sui movimenti sociali. Anselmo et al ( 2020) hanno usato il concetto di “solidarietà urbana” e hanno messo in luce le possibili interazioni verificatesi tra ambiti istituzionali e azioni di movimento, notando come in alcuni contesti nazionali siano emersi inediti incontri tra «mobilitazioni sociali e (barlumi di) innovazione sociale». Altre riflessioni hanno invece messo in luce la difficoltà riscontrata di dar luogo a strutturali forme di interlocuzione con le istituzioni in questi percorsi. Queste elaborazioni, emerse principalmente nel campo della sociologia del welfare e delle politiche sociali, hanno costituito una parte molto minoritaria nella più generale riflessione che in questi anni si è sviluppata a proposito del rapporto tra welfare e mutualismo nel suo complesso.

L’interesse rispetto al mutualismo ha attraversato prepotentemente vari ambiti di discussione sul welfare attraverso cui, con il concetto di “mutualismo”, si sono identificate genericamente le pratiche del terzo settore, delle fondazioni, delle assicurazioni, gli innovativi ibridi “comunitari” tra pubbliche amministrazioni, associazionismo di volontariato e promozione sociale, impresa sociale, ecc. Nel dibattito sociologico maggioritario sul tema si sono valorizzate, piuttosto che gli aspetti di azione collettiva e di prassi emancipatoria che hanno caratterizzato i dibattiti di movimento, le questioni relative alle maggiori capacità di affrontare, attraverso la prassi comunitaria, le sfide poste dalla sostenibilità economica dei sistemi pubblici di protezione, dal bisogno di intercettare e intervenire su bisogni “nascosti” con una maggiore prossimità rispetto alle istituzioni pubbliche tradizionali come i servizi sociali o i servizi sanitari, la presunta capacità di azione sul legame comunitario, anche attraverso elementi di responsabilizzazione, partecipazione e coprogettazione con la cittadinanza. Nel movimento il dibattito su questi temi resta invece incredibilmente legato alle questioni poste dal testo Centri sociali: che Impresa del 1995 e dal quasi contemporaneo L’impresa sociale del 1994.

Oggi discutere di mutualismo in relazione all’azione politica emancipatoria e di movimento deve confrontarsi con la difficoltà iniziale costituita dal fatto che una serie di termini (a partire dallo stesso concetto di mutualismo) indicano fenomeni con attori e campi d’azione molto diversi: si va dalle pratiche e le elaborazioni di aggregazioni di think tank ed enti di secondo livello del terzo settore e delle assicurazioni – nella cui agenda politica sta la sostituzione di un sistema di contribuzione fiscale volontaria al “vecchio” sistema di tassazione progressiva su cui si fondava l’universalismo in sanità – a centri di ricerca universitaria che, con i mantra ossessivi dell’equità e della sostenibilità, propongono forme di sussidiarietà sempre più compatibili con la totale destituzione di un sistema di protezione sociale (e sanitaria) universalistico.

Vista la sovrapposizione dei campi di studio e la forza performativa rispetto al dibattito pubblico di termini elaborati in ambiti dotati di così ampio potere, le soggettività di movimento hanno sviluppato varie ipotesi per delimitare un campo autonomo di elaborazione i cui termini potessero svincolarsi dal fatto che nell’attiguo campo del terzo settore, del welfare comunitario, del privato (sociale e non), concetti come “comunità”, “partecipazione”, “reciprocità”, “attivazione” hanno stabilmente informato campi semantici utili principalmente alla penetrazione e allo sviluppo di vettori di policy making neoliberali, tendenti alla destrutturazione del welfare state di caratterizzazione fordista.

Non sono appunto mancati negli spazi di movimento tentativi di risemantizzare questi concetti, delimitarne in modo più specifico il campo, di riappropriarsi delle questioni messe in gioco dal discorso neoliberale mainstream per declinarle in ottica di azione collettiva emancipatoria. Si parla ad esempio di “difendere” il mutualismo (che qui identifichiamo come “dal basso” per distinguerlo da quell’altro) oppure di “rilanciarlo”, “politicizzarlo” fino anche a chi ha proposto di “superarlo” verso pratiche maggiormente conflittuali che però ne valorizzino il portato di esperienze. Come ha spiegato recentemente Alberto De Nicola il dibattito di movimento si è polarizzato tra le posizioni critiche alla macroarea di concetti di “comunità”, “partecipazione” – vedendone i vettori strumentali di trasformazioni neoliberali – e chi ha collocato in essi possibilità di contro-condotte e contro-dispositivi orientati alle «potenzialità trasformative connesse al ricorso alle comunità e all’agire comunitario nelle politiche del Welfare», alla «politicizzazione e ri-socializzazione dell’economia» anche attraverso la «proliferazione di economie alternative, [e il] ritorno di logiche di azione marginalizzate dai sistemi di Welfare», legate a comunità oppresse e marginalizzate.

In Grecia l’elaborazione attorno alle social clinics, particolarmente sviluppata per le condizioni di retrenchment del servizio sanitario in seguito all’attacco alla spesa pubblica condotto dalle istituzioni europee, ha assunto caratteri politici fortemente connessi con le dimensioni della resistenza e della sopravvivenza delle comunità, che si sono sviluppati in modo congiunto con forme radicali di conflitto e di autogestione territoriale, sorte in risposta a una profonda azione di impoverimento delle istituzioni pubbliche strozzate dal diktat europeo.

Heath Cabot ha parlato a proposito di «solidarietà contagiosa» come «altra faccia della crisi, che ha indotto nuove forme di partecipazione nella cittadinanza greca». In modo inestricabile rispetto alla crisi indotta dai meccanismi neoliberali, «la solidarietà parla di nuove forme di azione collettiva, comunitaria e sociale», di una nuova idea di «salute emergente nei momenti di bisogno somatico e sociale». In quanto paradigma e pratica della socialità, «la solidarietà riconfigura le interrelazioni tra persone, farmaci, assistenza e società, producendo nuove visioni di cittadinanza e di guarigione somatica e sociale»; tuttavia riconosce che «la solidarietà ha una vita ambivalente in quanto prodotto diretto dell’austerità».

In campo internazionale, mentre alcune forme di mutualismo sono state valorizzate in quanto strumento di creazione di cura comunitaria radicalmente esterna e alternativa ai dispositivi dei servizi statali (Spade, Mutuo appoggio), altre riflessioni hanno invece valorizzato la relazione tra le pratiche mutualistiche e i cambiamenti possibili/necessari nell’ambito del welfare state, pensando ad una complessiva “rivoluzione della cura”. Gabriele Winker e Matthias Neumann appunto individuano «l’opportunità di una diversa etica sociale attraverso la cura stessa» per modificare «la gestione dei tradizionali campi del welfare state, appellandosi a tutti coloro che in tale pratica pubblica sono coinvolti in modo non disinteressato, non competitivo, perché non direttamente quantificabile». In modo simile si sono sviluppate alcune riflessioni femministe e transfemministe (Busi, Fragnito), in particolare quelle interessate a «combinare diversi pubblici e diversi gruppi di attivisti nel tentativo di sviluppare connessioni» impreviste.

Le pratiche e le riflessioni femministe e transfemministe, anche attraverso i linguaggi artistici – per l’importanza che l’arte riveste nella ridefinizione potenzialmente conflittuale del sensibile e dei dispositivi che ne consentono la rappresentabilità – hanno messo in luce la trasversalità e la generalità del lavoro di cura, anche lungo le faglie di razzializzazione che definiscono la «divisione globale del lavoro di cura» e le sue contraddizioni. Secondo questa elaborazione l’attività di cura è stata sempre cruciale e può acquisire forme radicali grazie all’intersezione tra sguardi antirazzisti, transfemministi ed ecofemministi, valorizzandone il senso ma anche deromanticizzandola, problematizzandola e cogliendone l’ambigua natura di dispositivo di produzione e riproduzione di ineguaglianze, «non innocente ma sempre coinvolto nelle relazioni di potere» (Krasny). L’etica della cura, che rischia di invisibilizzare la dimensione politica dell’organizzazione della cura (una delle forme di invisibilizzazione è stata la retorica dell’eroismo che ha caratterizzato gli anni pandemici in relazione alle lavoratrici/tori del Servizio Sanitario Nazionale; su questo si veda Galanti), va corretta con la riflessione di Mbembe sugli assunti necropolitci che «attraverso la distribuzione della cura ci dicono chi deve vivere e chi no». Da questa collocazione ambivalente si possono guardare «non solo le eziologie della nostra crisi culturale (l’incapacità di pensare le nostre relazioni) ed ecologica, ma anche contestare le scelte su cosa viene curato e cosa no, sulla divisione sessuale e razziale del lavoro come traccia fondamentale delle attività di cura» (nel testo curato da Fragnito).

Sugli stessi temi ha insistito il Manifesto della Cura – Per una politica dell’interdipendenza (The Care Collective, 2021) che ha rideclinato la cura come ambito di lotta politica sulla base della critica alla sua “naturalizzazione”. Commentando il manifesto Lea Melandri ha scritto: «a mancare finora non sono le esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela, ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali”, “promiscue” di socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle istituzioni. Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune, affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi, centri sociali, case di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative, dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green. Ma gli ostacoli al cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e le manifestazioni dell’umano, mettendo al lavoro la vita (Cristina Morini)». In questo senso la riflessione del libro, a partire dal fatto che la pandemia ha svelato la centralità sociale dei lavori di cura a tutti i livelli (dall3 badanti all3 rider fino alle lavoranti del settore sanitario), propone una integrazione tra pubblico e mutualismo, sulla base di una rivendicazione collettiva che nasca dalla generalità di questa soggettività precarizzata, genderizzata e razzializzata. Proprio la capacità di impattare i servizi pubblici da parte delle pratiche mutualistiche resta il grande interrogativo di questa fase nel dibattito di movimento.

Psicologia della resistenza

Le presentazioni del libro Psicologia della resistenza, alla presenza dell’autore Gianpaolo Contestabile, stanno spesso assumendo i caratteri di vere e proprie assemblee. Il libro focalizza l’importanza del rapporto tra psicologia della salute e posture politiche critiche, evidenziando come l’approccio critico dei saperi possa incidere sull’impostazione dei servizi sanitari pubblici nel loro complesso. La psicologia della resistenza, soprattutto quella che si rifà a radici sudamericane, viene ricostruita come uno strumento fondamentale nella definizione di modelli di cura partecipati, universali e gratuiti per i movimenti rivoluzionari e democratici. La riflessione sui processi di disumanizzazione che attraversano le pratiche di gestione tanatopolitica delle migrazioni dà a Gianpaolo l’occasione di richiamare le riflessioni di Zimbardo, Milgram e Asch sui fenomeni della violenza e dell’oppressione istituzionalizzata.

Gianpaolo prova a ricostruire una genealogia del sapere Psy che tenga conto delle sue possibilità emancipatorie scavando fino alle ambigue nozioni della psiche di Freud; l’autore cerca di sostenere l’esistenza di un orientamento tecnico dei saperi Psy che tenga conto delle condizioni di oppressione sperimentate da soggetti e – soprattutto – comunità sottoposte al giogo imperialista. La ricognizione di alcune possibilità inespresse contenute nelle teorie psicologiche sovietiche, così come la riflessione sulla psicologia della salute, permette a Gianpaolo di riconfigurare in termini politici le principali questioni della promozione della salute.

Non essendoci un contesto comune in cui si riesca a confrontarsi collettivamente sia sulla strategia delle esperienze di movimento sia sul modo in cui stare politicamente dentro le istituzioni con i propri saperi tecnici, lo sforzo di verificare la validità e la tenuta etica delle proprie azioni è lasciato di solito a una sterile dimensione individuale. La configurazione assembleare assunta dalle presentazioni del libro di Gianpaolo Contestabile rivela il bisogno di rompere questa solitudine: il tentativo di leggere in un framework comune le varie esperienze soggettive di chi si forma, opera o in vario modo vive le discipline Psy, riesce a costruire un terreno comune nonostante le profonde differenze di approccio esistenti (che Gianpaolo rispetta nel libro lasciando aperte le questioni più controverse, come per esempio quando parla di neurodiversità).

Sarebbe utile oggi indagare i motivi per cui non si sia riuscit3 a produrre una contronarrativa rispetto al tema della salute – capace di impattare sulle politiche sanitarie – nonostante numerose riflessioni e dibattiti abbiano aperto alla possibilità di sviluppare in questo senso la riflessione dopo la sindemia. Sicuramente l’assenza di un approccio unificato e interconnesso tra i temi della riproduzione sociale, del welfare, del genere, della disabilità e delle varie forme di oppressione che attraverso queste faglie si distribuiscono, impedisce una visione completa della situazione; la stratificazione dei lavori di cura – da quelli caratterizzati dall’alto potere contrattuale degli ordini professionali al lavoro nascosto e sottopagato di chi si dibatte tra caregiving non riconosciuto e sfruttamento – ha portato a una frammentazione in cui è difficile leggere le questioni comuni. Ma la lacuna più profonda sembra oggi essere quella che ha impedito di tramandare esperienze e riflessioni critiche nella formazione della psicologia come in tutte le altre professioni di aiuto.

Sono ormai divenute difficili da trovare nel dibattito dei movimenti le riflessioni critiche sulla psicologia sviluppatesi negli anni ’70 e ‘80, a cui hanno contribuito figure come Comba, Pirella, Fachinelli, Jervis, Risso, Minguzzi, Palmonari e Melandri. In queste discussioni si metteva in discussione il ruolo della psicologia, il suo rapporto con le istituzioni e con il contesto politico-sociale, smontandone la presunta neutralità ed elaborando metodi teorici e pratici che tenessero insieme la riflessione sul proprio modo di svolgere le professioni di cura e le lotte che contestualmente si sviluppavano nella società.

Gli anni ‘90, con il processo che ha istituzionalizzato la formazione nel campo della psicologia e ha legato gli interessi corporativi dei nuovi gruppi professionali alle dinamiche aziendalistiche del welfare in via di innovazione, hanno contribuito a spazzare via le riflessioni critiche sulla tecnica psy come funzionale al potere e al sistema sociale esistente, colpevole di individualizzare e depoliticizzare il disagio, di riprodurre logiche di controllo e deresponsabilizzazione all’interno delle istituzioni. Senza capire cosa è accaduto negli anni ‘90 e che posizioni hanno tenuto i protagonisti di quella istituzionalizzazione, sarà difficile ricostruire forme di azione pratica capaci di mettere in discussione l’orientamento ideologico della pratica psy dominante.

Conclusioni

Il libro di Gianpaolo Contestabile si inserisce nel solco di una serie di pubblicazioni che, a seguito della sindemia di Covid e della conseguente attenzione al tema della salute, hanno provato a riconfigurare il quadro della sofferenza riformulandolo in modi compatibili con l’attivismo di base e la mobilitazione politica. Per cogliere il senso dell’operazione di Contestabile è stato necessario delineare un quadro del contesto editoriale e del dibattito in cui essa è sorta, nei quali per ora non si sono ancora prodotti però orizzonti comuni ed efficaci strategie d’azione capaci di incidere sull’andamento delle politiche sanitarie. La difficoltà di attivare una coerente azione di movimento capace di porsi come azione di difesa popolare del Servizio Sanitario Nazionale ne è una drammatica conseguenza.

In conclusione il libro si segnala per il tentativo di riannodare i fili tra sofferenza psichica, contesto sociale e impegno politico. Un’operazione necessaria, certo, in un’epoca di crescente medicalizzazione e individualizzazione del disagio. Resta da vedere se questa “psicologia della resistenza” saprà tradursi in un’azione politica e sociale incisiva, capace di superare le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano la formazione dei tecnici dei lavori di cura (soprattutto psy) e le riflessioni strategiche di movimento. Il libro offre spunti di riflessione importanti, ma la loro effettiva portata trasformativa dipenderà dalla capacità di innestarsi in un dibattito più ampio e in pratiche di elaborazione e di lotta collettiva.

Immagine di copertina di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay

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