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ITALIA

Ricerca, potere e società a Napoli. In ricordo di Percy Allum

Il 28 aprile scorso è morto Percy Allum. Politologo inglese, studioso della questione meridionale, come tantissimi suoi colleghi anglosassoni, e profondo conoscitore delle organizzazioni politico-criminali. Innamorato di Napoli, ha insegnato per 12 anni all’Università “L’Orientale” (dal 1993 al 2005) formando tanti ricercatori della città subalterna, di quel pezzo di società reale cui il potere costituito volge il proprio dominio, molto spesso senza egemonia ne’ consenso, ma solo per scopi elettorali

Gli siamo debitori di tante osservazioni e strumenti della nostra cassetta degli attrezzi. Qui, un nostro ricordo: la sua figura s’inscrive in un periodo storico del mezzogiorno italiano tanto interessante quanto contraddittorio nel panorama politico internazionale, dove i retroscena ancora sono immersi in zone d’ombra dai tratti inquietanti.

Percy Allum si era laureato in Storia e diritto nel 1956 al Queen’s College di Cambridge, nel 1959 si era specializzato in Scienze Politiche e in Diritto internazionale all’Institut d’études politiques di Parigi. Pochi anni dopo, nel 1965, aveva cominciato la carriera di docente universitario all’Università di Manchester, per poi insegnare per 30 anni in quella di Reading. Infine, tra il 1993 e il 2005, la cattedra all’Orientale di Napoli. 

Diversi i suoi libri che trattano del sistema politico italiano: Anatomia di una repubblica, Potere e istituzioni in Italia (1976), L’Italia tra crisi e emergenza (1979), ’50/’80, vent’anni. Due generazioni a confronto (1986); Democrazia reale. Stato e società civile nell’Europa occidentale (1998), La repubblica in bilico (2005). Sulla realtà napoletana:  Potere e società a Napoli nel dopoguerra (1975), Il potere a Napoli. Fine di un lungo dopoguerra (2001), Napoli punto e a capo. Partiti, politica e clientelismo: un consuntivo (2003).

Erano i Cinquanta, gli anni del dopoguerra in cui, per dirla con Elsa Morante, «il lascito delle bombe non giunge[va] al termine». Era anche la stagione di attenzione maniacale e di ricerca scientifica a tratti parossistici verso il Mezzogiorno, in particolar modo da parte del mondo “alleato”. E ancor più, da parte di researcher e accademici di campus statunitensi e inglesi. Erano gli anni della ripresa delle lotte con le occupazioni dei latifondi lungo il “Tavoliere delle Puglie”, verso la Lucania, la Calabria e la Sicilia. Terre incolte, sterminate nelle mani di poche famiglie, dipinte dal verismo verghiano ne I galantuomini, come “trasformiste” poiché cambiavano casacca, al solo cenno di mutamento del regime politico, pur di mantenere la proprietà terriere – lo status quo – nelle proprie mani.

Quella stagione rifletteva l’assetto internazionale emerso dalla guerra. I due blocchi andavano consolidando le posizioni sottoscritte a Yalta, e il Sud Italia era un territorio indispensabile per la Nato. Ultimo paese della “cortina di ferro”, penisola al centro del Mediterraneo, piattaforma geostrategica per il controllo delle posizioni. E tuttavia le province meridionali non erano affatto pacificate: lotte contadine, questione agraria, miseria ed eccedenza di manodopera, da una parte, e dall’altra, la presenza di Camere del lavoro e delle sedi del Pci, con cui i militari alleati di stanza dovevano fare i conti. Insomma quei paesi e quelle province non promettevano proprio bene. D’altronde, il Sud e Napoli erano sideralmente opposti alla razionalità capitalistica, altresì oggetti sconosciuti, arcaici dai tratti pre-moderni e tradizionali.

Va da sé, in tale contesto, le attenzioni di quei ricercatori anglo-americani si volsero verso la scoperta di come fosse fatto il Sud. Con gli strumenti delle scienze positiviste, ne studiarono i rapporti sociali, l’egemonia culturale da esercitarvi e quali forme di potere li avrebbero potuti governare. Ciò che li accomunava era l’atteggiamento di sufficienza riformista, paternalista, anticomunista e interclassista.

Col senno di poi, in tanti si sono interrogati sul perché ricercatori provenienti dai campus americani, nella fattispecie da dipartimenti della Scuola di Chicago, abbiano soggiornato in paesi sperduti del Mezzogiorno. L’esempio più noto è quello di Edward Banfield: dopo aver trascorso un anno a Chiaromonte, un piccolo paese della Lucania, nel 1958 ha pubblicato Le basi morali di una società arretrata, nel quale conia la categoria, nient’affatto tramontata nel lessico razzializzante, di “familismo amorale”, che inchioda le comunità meridionali al “sottosviluppo” in quanto assoggettate a un presunto atteggiamento individualistico assai poco incline all’agire sociale. Più tardi, su quella stessa scia, Robert Putnam ha prodotto una nuova ricerca al fine di interpretare l’arretratezza delle regioni meridionali, Making Democracy Work; Civic Traditions in Modern Italy, muovendo da una sostanziale opposizione tra Nord e Sud, storicamente risalente addirittura al Medio-Evo: nei governi regionali del Nord vi era una considerevole capacità esecutiva rispetto ai governi del Sud, l’efficienza dei primi era radicata nella «tradizione civica» dei comuni medievali, «da Roma alle Alpi», al contrario l’arretratezza dei secondi nel «verticalismo gerarchico e autoritario» degli imperi succedutisi (bizantini, longobardi, normanni, ecc.).

La ragione di quelle ricerche era tutta politica e si basava sulle numerose agenzie dedite, sin dal periodo bellico, al finanziamento della ricostruzione italiana e sui loro progetti di ricerca e di intervento – come la pionieristica azione del Foreign Economic Administration.  Non soltanto la politica americana aveva interesse a intervenire in un’area del mondo in cui la protesta sociale tendeva a costruire ordini diversi da quello capitalistico, quanto anche gli ambienti industriali e finanziari, divisi tra interesse speculativo e prospettiva riformistica, tra impegno per la conoscenza e aspirazione a descrivere un mondo che abbandonava il suo arcaismo per abbracciare nuove forme e nuovi modelli di vita, del tutto conformi a istanze occidentali.

Gli anni Cinquanta e Sessanta videro anche altri ricercatori provenienti dal mondo anglosassone, e non solo. Ne ricordiamo alcuni come Sidney Tarrow e la sua ricerca, Partito comunista e contadini nel mezzogiorno; più tardi, il tedesco Conrad Lay, col suo Napoli. Il terremoto quotidiano; anche le ricerche degli anni Settanta, sulla Sicilia di Jane e Peter Schneider, studiosi i quali, fra le altre forme di contrasto al potere costituito, hanno illuminato le lotte per la terra e del movimento contadino quali proposte alternative al sistema di potere di cui la mafia ha sempre fatto parte.

Queste ricerche erano spinte effettivamente dal desiderio di conoscenza del Mezzogiorno, per i suoi tratti politicamente straordinari, dai contorni ambivalenti, ove lo iato era fra composizione sociale e rappresentanza politica, narrazione ufficiale e realtà sostanziale. Ricerche che si inscrivevano nell’amore per Napoli.

Un sentimento profondo, stratificato, un ritorno alle origini dell’Europa, un tuffo nei viaggi ellenici dell’Iliade, come sono stati i viaggi erranti di Walter Benjamin, da cui è emersa l’immagine partenopea della «città porosa» o di Alfred Sohn-Rethel e della sua «filosofia del rotto». Insomma Napoli non era una città da colonizzare e addomesticare al credo atlantista, bensì da studiare e amare. E fra questi ricercatori, è da ricordare chi, probabilmente, l’ha amata a crepapelle, studiandola e vivendoci complessivamente per trent’anni, ossia Percy Allum. La sua ricerca, riferimento degli studi politologici sulla città, è Potere e società a Napoli nel dopoguerra. Il volume porta a sintesi il suo lavoro dottorale, compiuto nel corpo vivo di Napoli, raccordando fonti variegate, con una metodologia distante dallo storicismo e dall’idealismo crociano, mentre adopera dati empirici e osservazione partecipata: metodi del mondo anglosassone, poi, sviluppati da militanti e ricercatori “scalzi” negli anni Sessanta, nelle città fordiste come Torino e Milano, per conoscere l’emigrante meridionale e compartecipare alle sue lotte, coniando un metodo quale quello della “conricerca”, un classico lavoro è L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi oppure, di Franco Alasia e  Danilo Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del miracolo.

Allum inaugura dunque una stagione di ricerche ed è apripista degli studi sul Mezzogiorno di un ampio spettro di ricercatori anglosassoni, ma soprattutto di una metodologia che fa scuola all’interno delle scienze sociali, ossia quale punto d’incontro multidisciplinare fra storia, antropologia, sociologia, scienza politica.

Per altri versi, Potere e società a Napoli è un volume ancora indispensabile per studiare non solo Napoli ma complessivamente il Mezzogiorno, e studiarne la società civile, prima che lo Stato e i suoi apparati. La società civile ricostruita da Allum è «il vero focolare, il teatro di ogni storia», per dirla con Marx; la sua organizzazione è tipicamente gramsciana, ossia, lo spazio in cui si esercita l’egemonia in cui sono comprese sia «il complesso delle relazioni materiali», sia e soprattutto «il complesso delle relazioni ideologico-culturali». E infatti è la società civile è lo specchio di Napoli, in cui si riflettono le classi sociali e le classi dirigenti, la “plebe” storicamente croce e delizia della borghesia proprietaria della “città bene” e i politici e gli intellettuali “mediatori” degli interessi fra l’una e l’altra classe. Quando uscì il libro suscitò una canea di polemiche. Del resto, non fu facile guardarsi nudi, con le ferite della guerra, dinanzi allo specchio. Allum è stato genialmente attento a guardare oltre quelle ferite e cicatrici, cosa che solamente uno sguardo esterno e puro avrebbe potuto tenere. Ne ha studiato i sistemi di potere, le economie del “vicolo” nei dedali urbani, in cui si articola il consenso, e le forme di resistenza popolari innervate proprio in quel rapporto fra potere e società. Nella fattispecie Allum ha ricostruito e raffrontato i sistemi di potere di Lauro e di Gava, lungo il passaggio fra gli anni Cinquanta e Sessanta, nella logica interna e nei rapporti con lo Stato e le classi dirigenti.

Il suo è stato un pensiero mai domo. Vispo, critico, incuriosito da tutto ciò che riguardasse le relazioni sociali vive e reattive. Immortalate in quadri, acquerelli e china: un’altra delle sue molteplici passioni. E Napoli vi era sempre presente, dissetandone quella voglia di guardare al futuro, senza la passività supina degli intellettuali asserviti ai poteri, tanto locali quanto internazionali.

Difatti, questo suo spirito ha trovato precipua sintesi nel dialogo franco con lo storico Giuseppe Galasso, raccolto nell’Intervista sulla storia di Napoli del 1978, e ancor oggi di estrema attualità. Entrambi convenivano nella complessità della storia della città, rifuggendo necessariamente alle semplificazioni. Ché coloro che tracciano un quadro semplificato della città, la vogliono incorniciata nei cliché, buoni per tutti i tempi e per tutti i palati. La città è in realtà una capitale stratificata, plurisecolare, ormai senza identità, richiusasi in feticci e stereotipi, utili artatamente alla borghesia proprietaria e parassitaria, in modo da mantenere le classi popolari in una condizione di subalternità, ma anche utili alleati per organizzare le forme statali e parastatali della criminalità oppure per ingrassare le economiche formali e informali – come oggi è la “vacca grassa” del turismo.

Intanto lo spazio urbano deperisce, mentre la città resta anchilosata, incapace di emanciparsi da blocchi di potere e retaggi culturali, anzi, non ne è cosciente, poiché va bene così, finché ognuno, chi più chi meno, ne possa spolpare fino all’ultima goccia, sopravvivendo alla mediocrità della borghesia. Proprio come la storia calcistica cittadina, quella degli ultimi venti anni. Un giorno, in aula, Allum, col quel sorriso sornione, ci confidò: «per conoscere l’Italia serve leggere il “Corriere dello Sport”».

Immagine di copertina da wikimedia commons