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Ribaltare (con) l’autismo

A di là di terapie normalizzanti, l’esperienza autistica può mettere nelle condizioni di sfidare, non senza fatica, le aspettative dominanti rispetto alla comunicazione, alla socialità e al vissuto corporeo, in modo analogo a quanto possono fare le esperienze queer

Le mie mani, come sempre, sfarfallavano.

Gli uccelli sapevano che ero autistico;

in tutto ciò, non hanno trovato nulla di sbagliato.

Tito R. Mukhopadhyay, Misfit

Negli ultimi anni, l’autismo è entrato prepotentemente nelle nostre vite: se ne discute sulle prime pagine dei giornali, si guardano frettolosamente contenuti correlati sui social network, si ascoltano purtroppo interpretazioni fantasiose e complottistiche come quelle recenti di Robert F. Kennedy Jr., rumorosamente rilanciate da Donald Trump. La presenza, la visibilità, la diffusione, come ci insegnano studi critici quali la teoria femminista, la teoria queer e gli studi decoloniali, non sono tuttavia garanzia di una rappresentazione corretta dal punto di vista etico, e di una prospettiva allertata dal punto di vista politico.

Un ruolo dirimente per la costruzione di cornici alternative, teoriche e politiche, deriva dagli Studi critici sull’Autismo che, circa dal secondo decennio del Duemila, rappresentano l’esito della riflessione sviluppatasi nei circuiti attivisti dagli anni Novanta. Fino a questo momento, non solo era molto raro che l’autismo venisse discusso e raccontato dalle persone autistiche, ma era anche difficile rinvenire delle ricostruzioni storiche e socioculturali di questo concetto “mobile” (la cui storia culturale e scientifica è ripresa, in questo volume, nel contributo di Alice Scavarda). L’interpretazione dell’autismo è rimasta infatti a lungo strettamente legata all’ambito psi- (psicologico, psicoanalitico e psichiatrico).

Nel panorama italiano, le sfide ad allargare le maglie del discorso sono purtroppo state accolte limitatamente fino agli ultimi anni, sia specificamente riguardo all’autismo che, in senso più recente, attraverso la lente della neurodiversità.

È evidente, però, che ci troviamo finalmente in un momento fertile da questo punto di vista. A proporre – per ora l’unico caso – un’antologia di sistematizzazione di alcuni lavori fondanti di questi studi è stato Enrico Valtellina nel 2020 (L’autismo oltre lo sguardo medico. I Critical Autism Studies, pubblicato da Erickson). Si segnala anche il suo lavoro precedente sulla ex-sindrome di Asperger (Tipi Umani Particolarmente Strani: La sindrome di Asperger come oggetto culturale, uscito per Mimesis nel 2016). A questi contributi si sono recentemente aggiunti, però, proprio il libro qui in oggetto, Politiche dell’autismo. Etica, epistemologia, attivismo (a cura di Alberto Bartoccini, Lorenzo Petrachi, Giulia Russo), DeriveApprodi, Bologna 2025 con il suo “gemello” – esito, cioè, della stessa call for papers –, intitolato La triade dell’autismo. Etica, epistemologia, attivismo (uscito per LEM nel 2024, a cura di Anonima Autisticɜ Associatɜ). Sempre nel 2024 ci siamo trovat* nelle librerie un piccolo saggio, che rappresenta un validissimo tentativo di creare ponti tra i lavori strettamente scientifici e quelli invece di stampo più divulgativo e/o autobiografico: La città autistica, di Alberto Vanolo (uscito per Einaudi).

Un lavoro di familiarizzazione culturale e narrativa con l’autismo era d’altronde già stato inaugurato dal genere del memoir, che tuttavia porta sempre con sé alcuni rischi; in particolare, può corrispondere al voyeurismo generale rispetto a ciò che viene percepito come esoticamente diverso, contribuendo a isolare i soggetti, piuttosto che produrre una visione strutturale delle forme di disabilitazione e stigma subìte dalle persone autistiche. In questo quadro, sono particolarmente noti i racconti in prima persona dell’etologa Temple Grandin, in alcuni casi anche tradotti in italiano. La storia di Grandin ha avuto un forte impatto culturale, inclusa una trasposizione cinematografica.

La figura di Grandin può essere però considerata un punto di riferimento problematico dalla comunità autistica: da un lato perché si rileva un residuo patologizzante nelle sue affermazioni, dall’altro perché le sue posizioni possono essere considerate irricevibili in un’ottica intersezionale. Grandin, infatti, progetta metodi di macellazione del bestiame, rivendicando il dato che sia proprio l’autismo a farla “empatizzare” con gli animali condotti al macello. A fine anni Novanta, vengono tradotti anche alcuni memoir della scrittrice autistica Donna Williams. Più recentemente è stato invece curato da Marco Reggio e feminoska, Canti della Nazione Gorilla. Il mio viaggio attraverso l’autismo, dell’etologa Dawn Prince-Hughes (Edizioni degli animali, 2024): un viaggio, anche per chi legge, sorprendente, poetico e militante rispetto all’ingiustizia abilista e multispecie.

È stata menzionata più volte, fin qui, la dimensione politica. Naturalmente, non è un riferimento casuale: Alberto Bartoccini, Lorenzo Petrachi e Giulia Russo scelgono proprio Politiche dell’autismo per denominare il volume collettaneo di cui qui si parla. Posto che, come loro stess* specificano nella Prefazione, il riferimento è anche un rimando al celebre saggio Le politiche della disabilitazione di Mike Oliver, con cui viene inaugurata la disciplina dei Disability Studies (pubblicato nel 1990, tradotto in italiano nel 2023 da Enrico Valtellina per ombrecorte), la sensazione è anche che questa connessione dovesse avere, finalmente, uno slancio vitale; anche nel contesto italiano.

L’autismo è una questione politica. Attorno all’autismo, inoltre, vengono attuate delle pratiche che possono essere configurate come politiche, nel momento in cui l’impresa psichiatrica – come hanno a più riprese evidenziato gli Studi critici sull’Autismo, gli studi sulla Neurodiversità e gli Studi Matti – non è avulsa da una rete sociale, culturale, economica, politica.

Tali pratiche – istituzionali, mediche, discorsive, educative, tra le altre – definiscono quale soggetto corrisponda al termine “autismo’” chi possa eventualmente intervenire in questa definizione, e quali interventi queste definizioni comportino. Una lettura politica dell’autismo prevede, come emerge anche da questo volume, quando queste pratiche possano essere lette attraverso un desiderio di normalizzazione – o meglio, di neurotipicizzazione – del soggetto, colto “in fallo” nel suo farsi eccentric*/divergente/«legittimamente» e «particolarmente stran*». Rimandiamo qui all’invito del poeta René Char a coltivare la propria «legittima stranezza», invito ripreso sia nella Prefazione del libro che in molteplici testi della letteratura sul tema.

Lo sguardo che emerge da Politiche dell’autismo è quindi duplice: si presta attenzione, da un lato, a come l’autismo, e di conseguenza la persona autistica, possano essere disciplinati. Dall’altro lato, si mette a fuoco, invece, come l’autismo, e di conseguenza la comunità autistica e la singola persona autistica, possano in qualche modo fare uno sgambetto politico ai codici culturali e alle teorie scientifiche più soffocanti. In numerose occasioni, chi ha contribuito al volume sfida in maniera chiara non solo la norma neurotipica, ma anche l’abilismo (ad essa strettamente collegato), il binarismo di genere, e in generale le richieste sociali considerate la soglia da oltrepassare per accedere ad una soggettività piena: sennò, non entri (l’implicito: prima di tutto nel consesso umano e poi, a cascata, in tutti gli spazi, materiali o discorsivi, in cui ci si muove).

Da questo punto di vista, in diversi contributi – specialmente quello di Caro Gervasi – si cerca di attivare il movimento di neuroqueering auspicato, tra le altre, da Melanie Yergeau: in questo quadro, l’esperienza autistica può mettere nelle condizioni di sfidare le aspettative dominanti rispetto alla comunicazione, alla socialità e al vissuto corporeo, in modo analogo a quanto possono fare le esperienze queer. D’altra parte, tuttavia, Gervasi ci ricorda come le esperienze reali siano molto più discriminanti e faticose di quanto emerga dalle cornici teoriche: nel suo caso, essere autistico e trans pare comportare, dal punto di vista sociale, «un’ingiunzione a fornire spiegazioni in merito alla propria stranezza, […] un’invasività e una brutale disattenzione delle norme conversazionali, un’impennata unidirezionale della confidenza cui non è stato dato alcun consenso» (p. 51).

Un tema similmente importante, com’è evidente dal sottotitolo scelto, è la questione epistemologica. In diversi passi, infatti, ci si interroga sul rapporto (tuttora in qualche modo irrisolto, ma certo lungamente esplorato, in primo luogo dall’epistemologia femminista nera e poi anche dai Disability Studies) tra il soggetto e la conoscenza; come direbbero Sandra Harding, Patricia Hill Collins e Donna Haraway, insomma, si tematizzano il punto di vista (standpoint) e i saperi situati. È infatti ancora utile chiedersi come si costruisce l’autorità epistemica rispetto ad un tema che, di norma, prevede un sapere specialistico, che segue dei criteri condivisi dalla comunità di riferimento. In quest’ottica, un tema centrale, affrontato ad esempio da Enrico Valtellina, Caro Gervasi, Giulia Russo, Luca Negrogno, Eleonora Marocchini, è quello del rapporto col mondo psichiatrico, in particolare attraverso la lente dell’evento diagnostico.

Quale processo può dirsi effettivamente una diagnosi (per esempio se parliamo di autodiagnosi)?

La diagnosi è, per tutt*, un passaggio inevitabile per ottenere un senso di legittimità e comprensione da parte delle altre persone, e una sorta di “accessibilità” nei confronti del proprio sé? In che senso può rappresentare un atto performativo? Valtellina ne scrive in questi termini: «Mi sono progressivamente disassoggettato. Ora, se mi chiamano, non mi giro, e questa mi sembra la più deliziosa delle risposte autistiche» (p. 30). Questo nodo è tanto complesso, da una prospettiva inestricabilmente politica ed epistemologica, da aprire più domande di quante risposte possiamo ritrovarci tra le mani. Esula, inoltre, dal caso specifico dell’autismo, chiamando in causa non solo l’impresa psichiatrica in generale, ma anche l’idea stessa di identità. Oltretutto, è bene ricordarlo, la diagnosi non è l’unico evento psichiatrico che riguarda la persona autistica, per cui possono essere ipotizzate terapie passibili anche di critica (per esempio, rispetto alla “carica” normalizzante che possono palesare, come già menzionato poc’anzi).

Il volume, denso e stimolante, è dunque adatto a rendere ragione di un concetto ancora così scarsamente saggiato da prospettive multidisciplinari. I molti temi toccati, e l’eterogeneità degli approcci, può anche favorire la costruzione di un percorso personale da parte di chi legge: sicuramente chiunque troverà la dimensione (teorica, retorica, tematica) che le si addice. Anche l’accessibilità dei saggi è variabile, richiedendo – in alcuni casi – certamente una familiarità con le questioni e i dibattiti divenuti centrali negli ultimi decenni. Particolarmente interessante, a questo riguardo, la scelta di inserire un contributo scritto in Linguaggio Chiaro, a opera di Andrew Dell’Antonio, che introduce anche una questione significativa: quando, cioè, siamo di fronte a «esigenze di accesso contrastanti» (p. 176). Il suo obiettivo, anche a discapito di chi potrebbe trovare la stesura del suo saggio poco scorrevole, è coinvolgere nella discussione sull’autismo anche le persone autistiche che non hanno un particolare background teorico, o comunque sono facilitate dall’impiego di questa modalità comunicativa.

Gli approcci disciplinari sono molteplici: il volume si muove tra la filosofia della psichiatria, l’epistemologia, la filosofia della storia, l’etnopsichiatria, gli studi culturali e dei media. Di questi ambiti, quello tuttora più scarsamente frequentato è l’ambito etnopsichiatrico/antropologico, per cui sorprende, positivamente, il contributo di Francesca D’Egidio, che connette le caratteristiche (oggi definite) autistiche con alcune esperienze, suggestioni e figurali culturali, in particolare legati alle donne, presenti nell’Italia meridionale, a loro volta residui delle società della Grecia antica. In quest’ottica, l’auspicio è registrare, dal mondo antico richiamato, la possibilità «non solo [di] riconoscere potenzialità e bellezza della divergenza oggi inavvertite, ma anche [di] comprendere la crisi come occasione e strumento di guarigione e non ricacciarla nel vuoto di senso della patologia» (p. 119). E l’auspicio è anche, forse, quello di ricordarci che questo «spettro [che] si aggira» (nel doppio senso di complesso e di minaccia) è sempre stato tra noi, in quanto aspetto intrinseco alla biodiversità umana.

Non mancano poi i saggi impiantati più profondamente nel tessuto biografico e politico di ciascun*, o esempi in cui – anche senza riferimenti personali – il soggetto che scrive è evidentemente situato, non parla dall’alto o dal di fuori. Rispetto a questa dimensione, un tema evidentemente urgente è quello dell’attivismo; in altre parole, cosa sperare a partire da un posizionamento autistico, e come realizzarlo? Questa riflessione, che attraversa in particolare i contributi di Alberto Bartoccini e Lorenzo Petrachi, trova una forma classicamente politica nel manifesto composto da Alessandro Monchietto e Alice Sodi, che concludono scrivendo «Non si tratta di chiedersi come rimuovere gli ostacoli, interni ed esterni. […] Si tratta di accettare di osservarli, entrarci in relazione, considerarli condizioni per l’azione, accettare di trasformarsi per trasformarli. Un incedere potenzialmente inesauribile tra decostruzione e ricostruzione» (p. 214). Il volume segna quindi un ulteriore passo in avanti in un percorso, si spera fecondo e partecipato, di decostruzione e ricostruzione collettiva, anche attraverso l’esperienza autistica.

L’immagine di copertina è di Pierre-Louis Pierson (wikimedia)

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