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Il respiro lungo della stagione della decolonizzazione

Nell’ultimo numero della rivista Zapruder, “Stati di Agitazione. Territori, Autogoverno, Confederalismo”, la lunga storia delle lotte contro il colonialismo che a partire dagli anni Sessanta ha ribaltato il rapporto tra nord e sud del mondo, e che oggi ha posto le basi per una nuova concezione dell’autogoverno oltre i confini dello Stato-nazione

«A fronte dello scomposto vociare di sovranismi, identità, popoli, nazionalismi e regionalismi escludenti che caratterizza il tramonto delle categorie politiche novecentesche, questo numero prova la mossa del cavallo». Con questa frase inizia l’editoriale di apertura del numero 49 di “Zapruder”, Stati di Agitazione. Territori, Autogoverno, Confederalismo. La mossa del cavallo tentata da “Zapruder” si articola dunque su due passaggi. Il primo consiste nell’analizzare le convergenze, le contaminazioni, gli immaginari comuni e le fonti d’ispirazione collettive che hanno unito le lotte rivoluzionarie nel sud e nel nord del mondo durante «la stagione della conflittualità», ovvero il lungo ’68 che abbraccia grosso modo il periodo dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta (una prospettiva cronologico-analitica definita anche dei global sixties). Più specificatamente, l’obbiettivo è far emergere quanto in quel periodo siano state le lotte del sud del mondo a contaminare le idee e le pratiche e a creare l’immaginario che utilizzarono i movimenti rivoluzionari dell’Occidente. In altri termini, un rapporto centro-periferia rovesciato. Nella grande stagione delle lotte di liberazione nazionale dal dominio coloniale si affermarono infatti pratiche di lotta ed elaborazioni teoriche che evidentemente ponevano al centro della propria prassi e della propria analisi i paesi del sud globale. Nel contesto della decolonizzazione si affermò dunque una visione nazionalista progressista, una concezione del nazionalismo come forma di liberazione e di riscatto delle masse oppresse dai regimi coloniali. Un “nazionalismo di sinistra” insomma, radicalmente diverso dallo sciovinismo, dalla concezione reazionaria e autoritaria della nazione.

Il nazionalismo progressista del sud del mondo ha contaminato quindi sia nella prassi che nella teoria i movimenti dell’estrema sinistra europea e americana. Ciò è avvenuto sia nel caso questi ultimi avessero obbiettivi rivoluzionari all’interno di una nazione, sia se fossero motivati da spinte indipendentiste verso la nazione in cui agivano. Proprio sull’ispirazione e sugli insegnamenti che trassero i movimenti indipendentisti europei dalle lotte di liberazione nazionale nel sud si concentra l’articolo di Xosé Nùnez Seixas, Dieci, cento, mille fronti! Terzomondismo, anticolonialismo ed etnonazionalismo nell’Europa occidentale (1955-1975). In Irlanda, nei Paesi Baschi, in Occitania, in Corsica, in Bretagna, in Scozia, in Galles, in Galizia, in Catalogna e in Sardegna i movimenti e gruppi indipendentisti studiarono le teorie, le pratiche di azione e le forme organizzative dei vari fronti di liberazione impegnati nella lotta anticoloniale. Assolutamente emblematica in tal senso è l’elaborazione del concetto di “colonialismo interno” da parte del movimento indipendentista occitano grazie all’analisi di Robert Lafont. Venne così chiaramente segnata una linea di connessione tra le lotte di liberazione nazionale nel sud, con le rivendicazioni indipendentiste nel nord. Il concetto di colonialismo interno venne in seguito applicato anche dalle altre lotte indipendentiste europee per descrivere la propria relazione con la nazione “occupante”.  Senza alcun rischio di idealizzazione acritica, “Zapruder”, affronta nel corso della sua analisi anche la contraddizione rappresentata dall’involuzione autoritaria in cui incorsero diversi regimi nati dalla lotta di liberazione dal giogo coloniale: un esempio su tutti quello del FLN algerino nella sua evoluzione dopo il colpo di stato del colonnello Houari Boumedienne nel 1965.

Il secondo passaggio della mossa del cavallo consiste nel tentativo di collegare questa fondamentale stagione di lotte globali del lungo ’68 con quei movimenti rivoluzionari e/o di resistenza che agiscono nel presente, che cercano e trovano oggi forme di lotta e pratiche di azioni che consentono di affermare il proprio autogoverno e praticare l’autogestione comunitaria nei propri territori. Un tentativo di dimostrare che l’eredità delle grandi lotte di liberazione nazionale è stata oggi raccolta, portata avanti e nuovamente interpretata dalle forme di autogoverno comunitario zapatista in Chiapas, dal confederalismo democratico in Rojava, dalle rivendicazioni politico-culturali amazigh nel Maghreb e dalla continua resistenza palestinese all’oppressione coloniale israeliana. La resistenza palestinese si trova in questo schema in un ruolo particolare, quasi come fosse un trait d’union tra le lotte di ieri e quelle di oggi. Nel suo articolo, Da Feday a Shahid. Itinerario della figura del combattente palestinese, Daniela Galiè delinea infatti come dopo la guerra del giugno 1967 la rinnovata guida dell’OLP con la presidenza di Yasser Arafat, sia riuscita, con un meticoloso lavoro, a disarticolare la narrazione israelo-occidentale del conflitto e a far entrare nell’immaginario rivoluzionario globale i fedayyin palestinesi. Questo passaggio avvenne grazie all’inserimento della questione palestinese all’interno del grande fronte delle lotte di liberazione nazionale dal colonialismo, ad esempio prendendo come punto di riferimento la guerra di popolo vietnamita. La resistenza palestinese non ha vinto, ma allo stesso tempo non è stata ancora vinta. Ancora oggi riesce, nelle sue forme mutevoli, a contrastare il progetto coloniale israeliano. La resistenza palestinese è stata dunque una protagonista centrale della stagione del lungo ’68 e pone ancora oggi al mondo la questione della liberazione dall’oppressione.

La sfida di questo secondo passaggio di connessione delle lotte in due epoche diverse risiede nelle notevoli differenze di elaborazione teorica. Dilar Dirik, nel suo articolo Facendo la nostra libertà passo a passo. Autonomia, democrazia e comunità in Kurdistan, analizza il pensiero di Öcalan e la sua messa in pratica da parte del movimento curdo in Rojava. Punto centrale della riflessione curda è proprio la denuncia del concetto stesso di stato-nazione come forma organizzativa capitalistica intrinsecamente autoritaria, patriarcale, settaria, violenta e, dunque, fascista. Da questo punto d’avvio analitico che prende corpo l’elaborazione della nazione democratica che si instaura nella pratica attraverso il confederalismo democratico basato sull’ecosocialismo, sul femminismo, sul comunitarismo e la convivenza tra popoli. È certo un cambiamento di paradigma importante il passaggio dalla visione nazionalista progressista per il riscatto delle masse oppresse alla teorizzazione della necessità di superare proprio il concetto di stato-nazione per costruire un nuovo futuro di libertà di quelle stesse popolazioni. Ma del resto è stato proprio lo stesso PKK nella sua storia a praticare questo passaggio, da lotta di liberazione nazionale “tradizionale” a motore propulsivo di una nuova concezione. E d’altro canto, come ben sappiamo, è iscritto nella genetica dei movimenti rivoluzionari il cambiamento a seconda delle fasi storiche per tornare a incidere sul presente.

Anche il movimento zapatista non ha mai avuto come suo obbiettivo la creazione di uno stato indigeno indipendente dal Messico in Chiapas. Come ben illustra José Ricardo Robles Zamarripa nel suo Global (e local sixties). La re-existencia neozapatista e il ’68 messicano, il nodo centrale dell’esperienza zapatista è stato sempre l’impegno nel costruire l’autogestione collettiva e l’autogoverno comunitario dal basso. In altri termini, la costruzione di un contro-potere dal basso per riscattare gli oppressi grazie ad una nuova forma organizzativa. Ma la lotta zapatista, nonostante sia da sempre stata caratterizzata principalmente da una militanza indigena, si è sempre inserita dentro al contesto delle lotte sociali messicane cercando così di fungere da esempio anche per il resto della popolazione.

In questa scia di riflessione interessante è l’analisi della situazione degli imazighen. Due articoli affrontano la questione berbera in due epoche e in due contesti diversi. Marisa Fois, con il suo Un’Algeria immaginata? Network della comunità amazigh in esilio, si concentra sulle relazioni tra comunità berbera e il regime del FLN nell’Algeria post-indipendenza. Chiara Pagano, in Militanza amazigh e questione nazionale in Libia. La costruzione di un immaginario, ripercorre l’evoluzione dei rapporti tra stato e comunità amazigh in Libia dalla fine del dominio coloniale italiano fino ai giorni nostri, passando quindi per tutta l’epoca del colonnello Gheddafi e il suo post. La peculiarità della condizione berbera consiste nell’essere una comunità a cui è stata negata la propria identità culturale proprio da quei movimenti di liberazione che hanno liberato la nazione dal dominio coloniale. In un impeto di arabizzazione dunque, visto dai nuovi regimi nazionalisti progressisti come una politica culturale di riscatto identitario contro la dominazione occidentale, i berberi hanno invece sofferto la propria negazione culturale. La riorganizzazione comunitaria degli amazigh, sia nei paesi del Maghreb sia nei paesi dell’esilio, è oggi però un percorso vivo e attivo, nonostante non sia ancora stato raggiunto un livello di organizzazione territoriale come in Chiapas o in Rojava. Anche in questo caso però il movimento non si articola su una piattaforma di rivendicazione indipendentista ma sulla costruzione di forme di autogoverno territoriale comunitario. Di buon auspicio in questa direzione sono state le recenti manifestazioni in Algeria prima contro il quinto mandato presidenziale di Abdelaziz Bouteflika e successivamente contro i meccanismi dello “stato profondo” in cui i manifestanti, composti soprattutto dalle fasce giovanili della popolazione, hanno affrontato la polizia sventolando fianco a fianco la bandiera algerina e quella berbera a simboleggiare l’unità popolare.

A supportare l’analisi di come questi odierni movimenti di lotta abbiano raccolto l’eredità della grande stagione di liberazione del sud del mondo nel lungo ’68, “Zapruder”, sottolinea come anche oggi l’estrema sinistra occidentale, come accadde durante i global sixties, abbia preso come fonte di ispirazione teorica e d’immaginario le lotte nel sud del mondo. La stessa dedica del numero a Lorenzo Orsetti, il partigiano Orso Tekoser, è già un’indicazione in tal senso. Nuovamente, dunque, è stato rovesciato il rapporto centro-periferia. Può essere questa, un rinnovato impegno nell’internazionalismo, la giusta strada per muoversi in un’epoca contrassegnata dallo scomposto vociare di sovranismi, nazionalismi e regionalismi escludenti?