approfondimenti

ITALIA

Una Repubblica fondata sulle colonie

La recente diatriba attorno alla statua di Indro Montanelli ha sollevato nuovamente l’annoso dibattito sulla storia coloniale italiana. Una storia, però, capace di emergere solo parzialmente. Mentre infatti si discute del colonialismo nel periodo fascista e dei suoi precedenti nel periodo liberale, sul colonialismo italiano durante la Repubblica permane ancora una rappresentazione retorica e falsata

Sono ormai decenni che la società italiana viene coinvolta in un dibattito sulla storia coloniale del paese di cui la diatriba sulla statua di Indro Montanelli a Milano costituisce l’episodio più recente. Nel corso di questi anni casi specifici come quello della statua al giornalista o come quello del mausoleo intitolato a Rodolfo Graziani ad Affile vengono utilizzati per ridiscutere tutta l’esperienza coloniale italiana, i suoi contenuti e il modo in cui la conoscenza di quel passato faccia o meno parte del bagaglio culturale delle italiane e degli italiani.

 

Gran parte delle posizioni che hanno alimentato il dibattito delle ultime settimane ha evidenziato dei notevoli limiti nel collocare storicamente il colonialismo italiano: prevalentemente si discute del colonialismo nel periodo fascista con alcune incursioni nel periodo liberale e poco o nulla si dice del colonialismo italiano durante la Repubblica italiana.

 

A leggere il gran numero di articoli pubblicati sul tema sembrerebbe che l’unico strumento attraverso il quale la Repubblica italiana abbia vissuto il colonialismo sia stato la memoria; una particolare memoria che ricorda soprattutto le strade costruite, il lavoro dei coloni e il clima di pace e civilizzazione che regnava tra colonizzatori e colonizzati nelle colonie africane, in Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia.

Su questa memoria la Repubblica sembrerebbe avere scarse responsabilità, essa è frutto principalmente del periodo coloniale, in particolare di quello fascista. La Repubblica riceve perciò questa costruzione narrativa (che quando viene elaborata è propaganda che accompagna l’espansione oltremare) e semplicemente la lascia vivere e le lascia formare l’opinione diffusa che le italiane e gli italiani tuttora hanno della storia del colonialismo italiano: un colonialismo speciale, diverso dagli altri colonialismi di sfruttamento, un colonialismo fatto di migranti senza lavoro che vanno in Africa per procurarsi da vivere e non per appropriarsi di risorse delle popolazioni locali, un colonialismo che quando è andato via ha lasciato strade a differenza degli altri europei che hanno continuato a tenere sotto scacco economico e/o politico i paesi di nuova indipendenza, un colonialismo che quando è andato via lo ha fatto senza guerre.

 

Soldati britannici in Somalia (1941)

 

Una memoria quindi nella quale la Repubblica più che generare conoscenza attraverso la selezione degli elementi portanti della costruzione narrativa sembra ritrasmettere fondamentalmente la retorica coloniale che ha accompagnato l’espansione in epoca liberale prima e fascista poi.

 

Il rapporto della Repubblica italiana con il colonialismo in realtà è storicamente ben più corposo e complicato di quanto il dibattito attuale lasci pensare. La Repubblica nasce infatti con pretese coloniali, portando avanti istanze coloniali e difendendo a tutti i costi i diritti dei coloni italiani al ritorno nei territori africani.

 

La Repubblica nasce quando le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale si ritrovano a gestire la patata bollente del cosa fare delle ex colonie italiane in Africa. Affidarle in mandato ad altre potenze? Affidarle in mandato all’Italia? Far nascere dei nuovi stati indipendenti? Farli amministrare da più potenze insieme?

Sono tutte possibilità che vengono proposte, perorate e prese in considerazione e tra le quali le Nazioni Unite si troveranno a dover scegliere e votare. Ma la nuova Repubblica italiana, democratica e antifascista, che cosa fa in questo momento storico? È anche anticolonialista? Come si comporta e quale posizione assume rispetto alla questione colonie?

La posizione italiana è quella di richiedere l’amministrazione delle ex colonie. Le modalità attraverso le quali si costruisce tale richiesta sono complesse, sia dal punto di vista diplomatico che politico. Da un punto di vista diplomatico l’Italia in quel momento non ha alcuna voce in capitolo, il Trattato di pace del 1947 impone che rinunci al possesso delle ex colonie. Nonostante questa clausola del trattato sembri porre fine alla storia del colonialismo italiano in realtà essa rimanda le decisioni e la ‘sistemazione’ di quei territori a un momento successivo in cui i rappresentanti dei ministri degli Esteri delle potenze vincitrici della guerra avrebbero dovuto trovare un accordo sulla questione. Dalla prospettiva italiana il ‘momento successivo’ viene interpretato come ‘tempo a disposizione’ per perorare la causa del ritorno italiano nelle ex colonie per vie almeno formalmente diverse da quelle del colonialismo diretto. Insomma, sulla questione ex colonie il governo di De Gasperi, con ministro degli Esteri prima Nenni e poi Sforza, e con Giuseppe Brusasca come sottosegretario, non si dà per vinto ma anzi rilancia. Le richieste italiane si posizioneranno però soprattutto sul piano della richiesta di mandati ad amministrare quei territori e non su richieste di possesso diretto delle ex colonie; da un punto di vista politico i primi governi repubblicani portano avanti le richieste chiarendo che non si tratta di vecchio e ormai superato colonialismo ma di volontà di amministrare il percorso verso l’indipendenza delle popolazioni fino a poco tempo prima assoggettate al governo italiano e soprattutto di difendere i diritti di quei coloni italiani che in quei territori fino a poco tempo prima non erano uguali a tutti gli altri ma erano, appunto, i colonizzatori. Nella sostanza i partiti politici della nuova Italia democratica convergono, almeno fino al 1948, su questa lettura. Successivamente a posizionare diversamente il PCI sulla questione coloniale contribuiranno più la guerra fredda e il Patto Atlantico che una rilettura critica del colonialismo italiano. Il risultato di tali sforzi sarà l’ottenimento, dal 1950 al 1960 dell’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia. Un risultato che da molti ambienti politici e da una parte cospicua della società italiana verrà vissuto come sconfitta e ingiustizia.

 

È proprio in questo frangente che la classe dirigente repubblicana e antifascista dà un contributo fondamentale al modo in cui il recente passato coloniale arriverà a una società che di colpo si ritrova a non essere più fascista e a non possedere più delle colonie oltremare.

 

La prima operazione che viene compiuta a livello governativo è la netta separazione tra ciò che è stato il colonialismo fascista/male e ciò che è stato il colonialismo liberale/bene. Questa dicotomia, figlia in parte anche di una ricezione della concezione crociana del fascismo come parentesi all’interno della storia d’Italia, istituisce una separazione netta quanto aprioristica tra due fasi della storia coloniale italiana che condizionerà notevolmente l’opinione pubblica italiana, affermando l’esistenza di un colonialismo italiano buono. Ciò che va rigettato è la guerra imperialista del fascismo e il frutto delle sue conquiste, certamente non la guerra d’occupazione della Libia in età liberale, solo per fare un esempio.

 

 

La seconda operazione, che ha un risvolto enorme su come la società italiana penserà se stessa nel quadro della storia del colonialismo europeo, riguarda la proletarizzazione di tutta l’esperienza coloniale. Dal 1946 fino al 1950, quando ancora l’Italia può giocarsi qualche carta per «tornare in Africa», i governi, i dirigenti del ministero degli Esteri e del sottosegretariato per l’Africa italiana, le associazioni dei profughi dalle ex colonie italiane organizzano un numero elevato di incontri, conferenze, dibattiti, tutti molto partecipati e tutti, più o meno, riproducono lo stesso paradigma. Gli italiani, non l’Italia, sono andati in Africa non per colonizzare ma per cercare una vita dignitosa poiché la disoccupazione non permetteva loro di poterla cercare in patria. I coloni italiani hanno messo a coltura i poderi laddove le popolazioni locali lasciavano deserti, i coloni italiani hanno convissuto pacificamente con i sudditi coloniali e li hanno civilizzati. Questo, in estrema sintesi, è il mantra che viene ripetuto, articolo dopo articolo, conferenza dopo conferenza, comizio dopo comizio, per quattro anni di seguito in qualunque luogo della penisola, isole comprese e che, in chiave coloniale, ricongiunge l’Italia repubblicana a quella liberale del mito pascoliano della grande proletaria e a quella fascista dell’impero del lavoro.

 

Il quadro che viene fuori da una simile retorica è quello di un colonialismo la cui nota principale sono i coloni/migranti, le strade che hanno costruito nei territori che hanno colonizzato e i buoni rapporti che hanno saputo creare con le popolazioni locali. E questo sarà il modo in cui dalla nascita della Repubblica in poi la prevalenza degli italiani penseranno la storia coloniale del loro paese.

 

Perché questa interpretazione è rimasta pressoché intatta e ha resistito a gran parte delle critiche finora mosse?

Un primo aspetto è dovuto al fatto che quella rappresentazione è poggiata su alcuni elementi veri che sono stati però enfatizzati e spesso stravolti a uso e consumo della costruzione del mito.

In effetti i coloni di estrazione proletaria sono esistiti e costituivano una parte cospicua della popolazione italiana in colonia. Ciò che non viene detto, o che si oscura, è che i terreni che andarono a coltivare non erano res nullius fino all’arrivo degli italiani ma erano terreni nella piena disposizione delle istituzioni e delle popolazioni locali che, all’arrivo degli italiani, vengono spossessati di tali terreni.

È vero che sono state costruite delle infrastrutture; ciò che non viene detto è che quelle strade, quei ponti e quelle ferrovie (poche) servivano al colonizzatore per mantenere il controllo sul territorio e per far viaggiare le merci delle aziende italiane impiantate nei territori colonizzati, non sono state costruite per bontà d’animo nei confronti dei colonizzati. Il fatto che alla fine del colonialismo italiano quelle infrastrutture siano rimaste in quei territori non è perciò un atto di benevolenza che esprime chiaramente il carattere buono e speciale del colonialismo italiano bensì un lascito inevitabile di un periodo di occupazione e sfruttamento.

Un secondo elemento è che il mito dell’italiano buon colonizzatore più che essere un retaggio del fascismo o del periodo liberale è uno dei cardini attorno ai quali viene costruita l’italianità nel secondo dopoguerra. La centralità del lavoro nella narrazione del colonialismo italiano appare nella seconda metà degli anni ’40 come una vera e propria epopea del lavoro. Non è difficile comprendere come questo aspetto del racconto del colonialismo italiano andasse a sposarsi in maniera perfetta con il paradigma della Ricostruzione postbellica e soprattutto con le basi valoriali della nuova Repubblica che sul lavoro decideva di fondare l’unità delle italiane e degli italiani.

Si capisce bene allora perché esistono difficoltà enormi nell’affrontare quel passato senza delle verità in tasca ma seguendo le linee interpretative che la storiografia già da tempo ha segnato: significherebbe guardare alle origini della Repubblica senza la paura di mettere in discussione uno dei miti alla base dell’identità repubblicana.