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Sentirsi soli (e senza diritto di replica)

Toni Negri risponde alle accuse di Repubblica.

A inizio gennaio Repubblica aveva pubblicato un’irritata recensione a firma S. Fiori dell’autobiografia di Toni Negri, Storia di un comunista, edita per Ponte alla Grazie a fine 2015, rifiutando di ospitare le precisazioni dell’autore. Alle recensioni di regola non si risponde, ma agli attacchi personali se ne ha il diritto. Ignorarlo qualifica assai bene le feste per il quarantennale di quel giornale. Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, la replica di Negri e un corsivo di commento.

la ringrazio per la sua recensione che trovo coerente con il giudizio sempre espresso (intendo dalla sua stessa nascita nel 1976) dal giornale sul quale scrive. Non credo dunque di poter validamente contestare quanto lei ha scritto del mio libro, anche se forse – in altra occasione – mi auguro possa avvenire.

Vorrei solo chiederle di porre la sua attenzione su un paio di cose. Nel libro sostengo che gli anni Settanta sono stati aperti dal piombo dello Stato – non son certo gli anarchici o gli autonomi gli autori dell’attentato del 12 dicembre 1969. Credo che su questo possiamo concordare.

In secondo luogo, lei scrive che non avrei avuto neppure una lacrima per le persone uccise dai terroristi e per le loro famiglie. Non credo sia vero: comunque, se avessi dato quest’impressione, me ne scuso. Credo invece di aver mostrato una forte commozione nei confronti di tutti i caduti di quella maledetta guerra.

E mi stupisce che lei non ne dimostri altrettanta per le centinaia di morti sull’altro fronte, uccisi dal terrorismo di Stato. Che io sappia, mai è stata fatta esplodere una bomba nelle piazze, nelle banche o sui treni da gente di sinistra, sempre invece da terroristi in torbide relazioni con quei servizi segreti dello Stato che oggi si vogliono “deviati”. La storia è difficile da scrivere, il mio contributo è evidentemente parziale mi perdoni.

Cara signora Fiori,

Vorrei, per finire, ricordarle che ho pagato tutti gli anni di carcere che mi sono stati comminati, e son davvero tanti: 30 anni di condanna ridotti a 17 e che di questa ingiustizia reco testimonianza anche nel mio scrivere. E mi dispiace aver l’impressione che in Italia mi sia stata tolta la nazionalità per indegnità quando altrove nel mondo discuto, scrivo e pubblico con colleghi universitari di filosofia e di scienza politica. Harvard o l’École Normale Supérieure non sono certo dei covi di sovversivi. Peccato, oggi, sentirsi soli in Italia. Forse da questo dipende quel che lei chiama narcisismo. Le assicuro tuttavia che negli anni Sessanta e Settanta, combattendo contro la violenza dei padroni e dello Stato, non ci sentimmo mai soli.

Le porgo i miei cordiali saluti,

Toni Negri

Il commento di Ubik

Il garbato recensore titolava “L’ego-biografia di Toni Negri” (ridondante sinonimo di autobiografia, peraltro) e proseguiva con “l’ego-histoire” e il “narcisismo intellettuale di una generazione di cattivi maestri”, che fanno i vittimisti con il piombo da loro stessi rovesciato, senza mai “autocriticare errori e dissennatezze di quegli anni” (il maledetto decennio 1968-1978), ne ricordava con bavosa equanimità i “molti amori, i viaggi appassionanti, gli incontri con il fior fiore dell’intellighenzia internazionale, le residenze confortevoli” (comprese Palmi e Rebibbia, no?), il precoce ottenimento di una cattedra di dottrina dello stato (che avrebbe voluto abbattere, che incoerenza!), una carriere di delitti e di condanne giudiziarie “per aver organizzato bande armate e per concorso morale [sic!] in una rapina”. Più la “livida caricatura” degli apparati repressivi. Conclusione sfolgorante: imparò l’esatta composizione delle bombe molotov “in una bellissima villa sulla costa sorrentina, piastrellata di Vietri e aperta a una vista straordinaria” (cit. Negri), “perché un rivoluzionario, tiene anche a dircelo, non deve mai rinunciare a un buon stile di vita” (cit. Fiori).

Apprezzata l’acuta comprensione fioresca dei problemi dell’uomo e del tempo, proviamo a immaginarci uno degli innumeri filosofi e scrittori, che nei secoli si sono affaticati sul prototipo autobiografico dell’introspezione psicologica, le Confessioni di Agostino, soffermarsi sull’ingenua vanteria di II 3.6, quando il sedicenne sotto la doccia si compiace, confermato da papà e mamma, di avercelo bello lungo (Quin immo ubi me ille pater in balneis vidit pubescentem et inquieta indutum adulescentia, quasi iam ex hoc in nepotes gestiret, gaudens matri indicavit)? Di così sciocchi non ce ne furono mai ma, se anche solo uno ce ne fosse stato, oggi lavorerebbe a Largo Fochetti, rosicando su uno stile di vita che potrebbe certo comperarsi, ma non essere in grado di godere, nell’invidiosa angustia di una vita non vissuta. Del resto, non è un caso che questi attacchi su commissione siano concomitanti alla campagna recalcatiana, su quelle stesse colonne, contro i guasti del periodo 1968-1977 e per il ripristino della Legge, del Padre e del Tabù civilizzatore. Guai alle piastrelle di Vietri!