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L’ironia della militanza.“LGBTQIA+ – Mantenere la complessità”

Un volumetto come “strumento di autodifesa”, per svelare cosa si cela dietro a un acronimo: LGBTQIAP+.
Il testo di Antonia Caruso prova a spiegare la complessità di questa sigla, tra ironia, “epistemologia libera” e militanza

«Questo scritto dovrebbe essere un’introduzione su cosa si cela dietro la sigla LGBT (versione basic), ma anche dietro la sigla LGBTQIAP+ (versione extended). Dietro questo acronimo, che è uno ma sono tanti a seconda della pigrizia e della ineccepibilità di chi lo usa, c’è un universo intero, un microverso abbastanza vasto da perdersi» (p. 1).

Questo è l’inizio di LGBTQIA+ – Mantenere la complessità; e cominciare una recensione con l’incipit del libro preso in esame credo sia cosa buona e giusta, persino contemplata dal galateo delle recensioni.

È un volumetto (“agile” si scriverebbe in un testo prodotto in serie) pubblicato da Eris Edizioni nella collana BookBlock, una serie di uscite editoriali pensate come “piccoli strumenti di autodifesa culturale” anche per i non addetti ai lavori.

Il libro l’ha scritto Antonia Caruso, attivista transfemminista ed editorialista di 38 anni, persona a cui non piace parlare di sé; anche per questo il suo posizionamento, posto alla fine del libro, è importante: dire chi si è e quale sia la propria condizione di osservatrice interna alla sigla è un atto morale. Farlo alla fine, tuttavia, va sotto il segno di non voler condizionare la lettura ed evitare pregiudizi e bias, tanto positivi quanto negativi.

«[…] Bypasso in qualche modo l’aspetto di forma umana autoriale e getto un ponte verso l’interiorità – vai direttamente a quello che una persona prova e pensa, alla propria ironia anche; fai un salto. Ed è un modo per non capitalizzare su di sé l’attenzione».

Nel nostro periodo storico, definibile tra le altre cose come caratterizzato dal “complesso industriale della prima persona”, un fiorire di scritture dove l’“io” è satollo tra fiction e non-fiction a vari gradi di ibridazione – per riprendere un concetto espresso anni fa dalla giornalista americana Laura Bennett –, fino a un decennio fa questo mettersi da parte sarebbe stato un gesto senza significato, un orpello in più rispetto all’opera che deve poter parlare da sé.

Questa scelta è oggi, al contrario, un apprezzabile tentativo di scansare il sé-individuo e mettere in evidenza il sé-scrivente:

«C’è la mia voce di autrice dentro, la mia ironia, certo – però questo è un tipo di soggettivazione che fa a meno di mostrare la propria persona fisica in modo quasi narcisistico».

Non è raro che per qualcuno sia una tentazione molto golosa far scaturire il principio di autorità dal proprio posizionamento: in questo senso, Caruso è l’esempio sano, invece, di come “ciò che si è” e “ciò che si sa” si possano tenere insieme come i lembi di una tovaglia ben piegata.

Di che parla il libro? “La Sigla”, che sembra il soprannome di un apparatčik sovietico, è il personaggio principale: pensato a mo’ di introduzione alle questioni LGBT, l’autrice parte dal voler rimpolpare di senso ognuna delle lettere dell’acronimo della comunità.

Oltre a questo, la costellazione si muove analizzando immaginario, rappresentazione e capitalismo, e il loro intersecarsi; il riformismo assimilazionista che rappresenta l’impossibilità di una rivoluzione; parte delle vicende di Pier Paolo Pasolini, perché avere un personaggio riconoscibile è utile per la cornice narrativa («Uso Pasolini come l’assistente di Office, Clippy») anche per allargare lo sguardo agli scandali omosessuali in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta; e parla anche di Stonewall e di come quella miccia sia stata resa possibile dalla brace di determinate condizioni sociali, politiche e materiali.

I temi, perciò, hanno una indubbia rilevanza culturale e politica e non fatico a immaginare che altre recensioni decideranno di concentrarsi sugli aspetti di contenuto. Non che io voglia aggirarli, ma in tutta sincerità ciò che mi ha colpito maggiormente del libro sono alcuni aspetti formali.

D’altronde, come scrive T.W. Adorno in Wagner, Mahler. Due studi (Einaudi, 1965):

«Tanto è banale la separazione di forma e contenuto rispetto all’opera d’arte quanto è debole la conferma astratta della loro identità: solo quando questi due aspetti vengono distinti possono essere definiti come un unico tutto. In quanto mediati essi vengono mantenuti pur nella loro distinzione».

Non si dà possibilità vera di scindere forma e contenuto: sono i mezzi formali che fanno sì che l’opera sia così e non altrimenti, è la configurazione degli elementi a parlarci e a generare dal loro interno un contenuto che non si esaurisce nel significato che se ne può estrinsecare e portare nel mercato delle opinioni e delle prospettive.

Anche in base a questo, parlare degli aspetti formali non si allontana troppo dalla disamina dei contenuti.

Prima di tutto, nell’economia della collana esiste un vincolo di battute che può portare a preferire una forma frammentaria. A sua volta, questa dà adito a una sorta di “epistemologia libera”, un procedere della conoscenza che si nutre degli spunti di sociologia, gender studies e semiotica che compongono la bibliografia ma che non si lascia imbrigliare. Questo incedere così devoto al perdersi più che al ritrovarsi funziona sulla forma breve, ma non con uno spazio testuale più ampio (a meno che non si voglia vergare un testo misterico).

Poi, l’ironia: Caruso come autrice è capace di far ridere con una cosa solo scritta, elemento che desta una certa curiosità. Fate un esperimento mentale e cercate di ricordarvi qual è l’ultimo libro che vi ha fatto ridere. Immagino che ve ne venga in mente qualcuno, ma immagino anche non siano molti: nel livellamento visivo-umoristico dato da meme, gif, video, reel, è piuttosto raro che la risata scaturisca da solo-testo.

Nel libricino di Caruso, c’è una gamma di trovate ironiche che va dalla freddura al surreale senza scivolare nel «sarcasmo narcisista e manipolatorio di Soncini» (virgolettato condiviso da chi scrive), e di certo questo «investimento patemico», sebbene non deliberato, fa risultare la scrittura più efficace sul piano dei contenuti.

Ironia e auto-ironia sono intrecciate e soprattutto quest’ultima – nella sfumatura dell’understatement – è interessante per la (apparente) rinuncia al principio di autorità («[Two Spirits] È un termine che incarna bene i numerosi conflitti derivanti dalla colonizzazione del continente americano […] Non ne so abbastanza da parlarne, ho solo letto la pagina su Wikipedia», p. (16).

Caruso rincalza: «Di narrazioni pietistiche ne esistono a bizzeffe […]. Bisogna saper pensare a nuove modalità di comunicazione che non siano patetiche ma risvegliare altri sentimenti senza però prestare il fianco alla manipolazione».

In seno alla comunità LGBT è risaputo che l’attenzione al linguaggio è un principio inalienabile e fondante della comunità stessa: in questo senso, l’attenzione presente in questo libro è doppiamente preziosa. Perché, se da una parte il linguaggio impiegato è iscritto in un ambiente di prassi politiche, dall’altra parte si avverte la spinta al rinnovarsi che lo contraddistingue.

Molto lontano dal tipico incedere accademico, quello di Caruso è un linguaggio che viene dal codice interno alla militanza ma che riesce a evitarne il destino di esoterismo: nelle parole dell’autrice: «È come se il libro incitasse a dire: “Non usiamo sempre le stesse parole”».

Questa apertura ariosa – questo respiro in più – è data proprio dall’uso equilibrato dell’ironia: una frase come «Caratteristica di ogni tipo di orientamento sessuale è che spesso non è corrisposto dall’altra persona» (p. 8) rientra in un meccanismo in cui la risata rafforza la presa sul contenuto: banalmente perché è universale.

L’ironia riesce a portare le tematiche fuori dai percorsi consolidati e permette al lettore più periferico di avvicinarsi a tematiche che, magari, altrimenti non avvicinerebbe.

Michel Foucault diceva: «Non crediate che si debba esser tristi per essere dei militanti, anche quando la cosa che si combatte è abominevole. È ciò che lega il desiderio alla realtà (e non la sua fuga nelle forme della rappresentazione) a possedere una forza rivoluzionaria».

Dopo aver finito di sottolineare questo piccolo testo, la citazione la capovolgerei – poco, senza farle male – e direi che possiamo annunciare allegramente: «Non crediate che si debba esser sempre seri per essere dei militanti».

Immagine di copertina di Flickr