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Quando il Capitale si fa Mafia

Riflessioni a partire dal nuovo film di Sabina Guzzanti, La Trattativa […] , occasione giusta per fare i conti con aspetti del potere e dell’economia del nostro paese che non sempre analizziamo a sufficienza.

Qualche giorno fa in Corte d’assise a Palermo, dove si sta celebrando il processo volgarmente detto “trattativa Stato-Mafia”, era di scena, in qualità di teste, l’ormai ultraottantenne Ciriaco De Mita. Concludendo un ragionamento, l’ex segretario Dc ha rievocato con sarcasmo un passato colloquio con il predecessore dell’attuale pubblico ministero, Nino Di Matteo: «… lo dissi già all’onorevole Ingroia quando mi sentì».

Di Matteo subito ha reagito: «Perché lo chiama onorevole?».

«Be’ , so che si presentò alle elezioni», ha risposto De Mita.

«Ma non fu eletto», ha puntualizzato il pm.

«Ah, non lo elessero ? ‒ ha riflettuto ad alta voce l’ex segretario democristiano ‒ Pensi che non me lo ricordavo. Sa, l’età …».

La frecciata, intinta nel veleno del politico irpino, contiene la storia della “trattativa” di cui sopra e dunque i suoi nodi problematici decisivi: il conflitto tra la sfera penale e quella politica, la necessità della magistratura di farsi attore politico e di trasferire in una congettura giudiziaria processi sociali e rapporti di potere che hanno scritto la storia della Repubblica, da Portella della Ginestra a via D’Amelio, coinvolgendo stallieri in trasferta ad Arcore, fascisti in combutta coi servizi segreti, massoni in società con politici e uomini in divisa. Zone d’ombra del potere. Logge massoniche e clan criminali sono stati spazi di compensazione, accordo e incontro tra atlantisti anticomunisti, aspiranti golpisti e affaristi di ogni genere. Tutte cose che probabilmente configurano anche singoli reati ed evocano fattispecie penali, ma che difficilmente troveranno sintesi coerente nel corso di un singolo processo, di un’unica resa dei conti tra i cavalieri del Bene in toga e la forze del Male in coppola e lupara. Per dirla in altri termini, come ha spiegato il giurista siciliano Giovanni Fiandaca in un pensoso saggio, la pubblica accusa del processo sulla “trattativa” ha serie difficoltà a trovare persino un capo d’imputazione previsto nel codice penale. Non tutto il Male può essere combattuto per via giudiziaria, dunque. E, come sperimentiamo da tempo con l’eterno ritorno del fantasma berlusconista, le faccende che riguardano i conflitti sociali e politici non possono essere delegate a chi opera nelle aule dei tribunali.

Degli ultimi venti anni di questa storia si occupa da tempo Sabina Guzzanti. Lo aveva fatto anche qualche anno fa, raccontando L’Aquila e strappando il sipario immondo dalla macchina mediatico-cementizia che ha supportato la costruzione selvaggia della new town (ogni progetto reazionario contiene elementi di perversione distopica, diremmo con Ballard), disarticolato la città colpita dal terremoto e le sue relazioni sociali. Draquila raccontava con lucidità la versione berlusconiana della shock economy, condensazione virulenta del neoliberismo all’italiana. Citizen BerlusKane come fenomeno complesso e pervasivo, impossibile da ridurre al problema della corruzione – pensato come semplice malaffare della Casta – e agli articoli del codice penale.

Quel ragionamento prosegue nel nuovo film di Guzzanti, che si intitola appunto La Trattativa e ne mette in scena la rappresentazione attraverso una raffinata e riuscita operazione di meta-teatro cinematografico, così vicina all’impegno di Gian Maria Volontè. La trattativa si occupa di raccogliere la matassa di indagini, indiscrezioni, fatti di cronaca e analisi politiche che ruotano attorno alla transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ha il merito di farlo dentro e oltre le mere ricostruzioni processuali. Lo spiega chiaramente l’attrice e regista negli ultimi fotogrammi e nelle note diffuse alla stampa che accompagnano il film: «Nei quattro anni che sono stati necessari per la realizzazione di questo film, il processo sulla trattativa è stato popolarissimo, bistrattato, credibile, sputtanato, centrale, marginale, appassionante, indifferente». E ancora: «L’illusione che le contraddizioni insanabili che paralizzano questo paese si possano risolvere nei tribunali è tramontata da tempo».

Più che cone un processo unitario e coerente, noi abbiamo visto questo film come un sentiero lungo la storia degli assestamenti di potere, dei colpi e contraccolpi che accompagnano, dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della Democrazia Cristiana, l’affermarsi di nuove forme di governo dei processi e di garanzia degli equilibri politico-mafiosi. Un sentiero che taglia trasversalmente i poteri, senza risparmiare la magistratura di Caselli e Tinebra o le forze dell’ordine di Mori e De Gennaro (e La Barbera). Una storia tutt’altro che lineare, che procede per salti. L’interruzione improvvisa della strategia stragista, ad esempio, che conduce alla nascita di Forza Italia interroga più i contesti complessi di sociologi e analisti politici che le indagini giudiziarie. È una storia che accompagna l’egemonia di una nuova classe sociale che affonda le radici nella zona grigia tra mercato legale e affarismo criminale: la borghesia mafiosa. Solo quest’ultima ha la capacità unica di gestire l’accumulazione capitalista in un’area periferica, con il preciso scopo di introdurla selvaggiamente, in tempi rapidi e con l’ausilio di una violenza che le normali garanzie democratiche non consentirebbero, nel mercato. Quel processo che David Harvey, riprendendo note pagine marxiane e insistendo sulle trasformazioni delle metropoli contemporanee, definisce «accumulazione per spossessamento».

La mafia, in altri termini, riesce a garantire quel mix di modernizzazione e arretratezza, di medioevo iperlocale e proiezione globale, che è una delle peculiarità della produzione contemporanea: la commistione/persistenza, come ci suggerisce il pensiero post-coloniale, di diversi tempi storici e modelli di produzione, da quello schiavistico a quello bio-cognitivo, all’interno dello stesso ciclo economico. La borghesia mafiosa è probabilmente, dicevamo, la classe che più facilmente riesce a gestire la complessità di questi assemblaggi produttivi: una trattativa si consuma ogni giorno sotto i nostri occhi, tra migranti che raccolgono i pomodori e caporali mafiosi, tra studiosi precari e baroni nei centri di ricerca, tra lavoratori e padroni nella giungla della crisi e del mercato selvaggio. E questo divenire mafia o racket del Capitale – riprendendo alcuni temi proposti da Horkheimer negli anni Trenta e riproposti, proprio nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, da Luciano Ferrari Bravo – non può che estendersi e approfondirsi nella crisi, dove la violenza extra-legale caratteristica dell’«accumulazione originaria» ‒ tra impoverimento di massa e privatizzazioni ‒ si consolida in nuova Norma europea e si combina, spesso, con veri e propri processi di rifeudalizzazione. Figurarsi in Italia, dove la catastrofe economica morde di più e le mafie erano da tempo radicate, assai oltre i confini delle stesse organizzazioni criminali.

Guardiamo Roma, i suoi quartieri meticci e gentrificati (San Lorenzo, Pigneto, Tor Pignattara, ecc.): rendita immobiliare (chi compra case, palazzi e negozi di questi tempi?), spaccio a mezzo di manodopera migrante (e conseguente inasprimento dei fenomeni razzisti), incremento delle forze di polizia, azione repressiva selettiva, contro poveri e giovani (e le due categorie spesso coincidono). Una perfetta “macchina foucaultiana”, con l’illegalità che diventa ingrediente decisivo delle politiche sicuritarie, per un verso, della rapina capitalistica, per l’altro. Un dispositivo di potere che mentre governa mangia, succhia, rosicchia.

L’anomalia della borghesia mafiosa italiana, rispetto a quelle del Sud America o dell’Asia, è stata nel tempo consistente e, per molti versi, inequivocabile: lo stesso controllo del territorio che segna, ora più di prima, intere zone della Colombia o della Thailandia, ma in un paese occidentale, che poteva consentirsi (e si consente tutt’ora) una spesa pubblica corposa, oltre che un posto d’onore tra le potenze economiche del pianeta. Con l’esplosione delle economie emergenti, dalla Cina alla Russia, all’America Latina, prevalgono i tratti comuni, meglio, il Capitale racket diventa motore privilegiato dei processi di «accumulazione per spossessamento». Pensiamo, ad esempio, al ruolo strategico che la mafie hanno avuto in Russia dopo la fine del socialismo reale e nel promuovere l’affermazione di Putin (che, vale la pena ricordarlo di questi tempi, non è un socialista!) e del suo regime? Ecco perché, se negli anni della Prima Repubblica l’alleanza tra borghesia mafiosa e ceto politico si è cementata in nome dei valori universalmente riconosciuti del «progresso» e dello «sviluppo», nella Seconda ha funzionato la stravagante alleanza romana tra la Sicilia dell’ein plein di Forza Italia (nel 2001 qui Berlusconi conquista 61 collegi su 61) e le terre del Nord di Umberto Bossi e Giulio Tremonti. Combinazioni di classe, nel segno del putinismo del Bel Paese.

Forse la mafia del film di Sabina Guzzanti è troppo potente, sicuramente l’economia criminale è solo parte dei processi di accumulazione capitalistica che stanno travolgendo il mondo in crisi, senza dubbio la disfatta di Berlusconi e di Forza Italia non ci avrebbero risparmiato la svolta neoliberale delle sinistre europee (già iniziata, tra l’altro, negli anni Ottanta): rimane il fatto che La Trattativa ci spinge a riflettere su un fenomeno tutt’altro che marginale per afferrare i contemporanei rapporti di produzione, nella provincia italica come nelle periferie diventate il centro del mondo.