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Pro e contro il consumo. “Documanità” di Maurizio Ferraris e “Vivere e pensare come porci” di Gilles Châtelet

“Vivere e pensare come porci”, di Gilles Châtelet, e “Documanità”, di Maurizio Ferraris, sono due libri antipodali che però incarnano in maniera esemplare lo sforzo di interpretare i due estremi cronologici di una stessa parabola – l’avvento delle reti digitali e delle forme di vita a esse associate

Diciamocelo: ripristinare il potenziale trasformativo (e cioè al contempo critico e performativo) della teoria è un’esigenza che, al cospetto delle crisi di vario tipo che perturbano drammaticamente il nostro presente – crisi sanitaria, crisi ecologica, crisi economica e chi più ne ha più ne metta – si fa ogni giorno più pressante. Che qualcosa, infatti, si sia interrotto, da quando nel Novecento esisteva un filo diretto tra l’elaborazione critica – in sede innanzitutto filosofica – e l’azione politica militante, è un’evidenza che, al netto di alcune luminose eccezioni, sembra difficile da negare. L’avvento della cosiddetta “rivoluzione digitale” – uso linguistico di per sé già sintomatico, nel suo suggerire il carattere rivoluzionario di una dinamica puramente tecnologica – sembra infatti aver spossessato e spossato di gran lunga le armi del ragionamento condiviso, suggerendo ogni giorno di più l’impressione che lo spazio per l’emancipazione dallo status quo economico-politico si sia tramutato progressivamente in uno spazio di sostanziale ratifica dello stesso. 

Un dettaglio sottile ma indispensabile distingue infatti il mondo unidimensionale della digitalizzazione, con il quale ci siamo familiarizzati negli ultimi quarant’anni sino a divenirne completamente dipendenti, dal caro vecchio pluriverso analogico. È un dettaglio poco più che di senso comune, ma che permette forse di circoscriverne chiaramente la portata: il digitale, in tutte le sue forme, suppone e per così dire ha bisogno dell’analogico, per essere tale, e cioè, per essere veramente digitalementre non è vero l’inverso. C’è come un’asimmetria, o una relazione non reversibile, tra i due, sul cui fondamento è possibile passare dall’uno all’altro dei due registri fondamentali con i quali tentiamo di dar conto della nostra esperienza. Il digitale, in altre parole, deve potersi distinguere dall’analogico per potersi affermare come una dimensione in cui valgono le opposizioni binarie e quindi le separazioni nette (discrete) tra oggetti, di cui quella con l’analogico è perciò il prototipo primo e il termine di paragone imprescindibile. Si pensi infatti a come funziona un dispositivo digitale: filtra la realtà in funzione della sua riproducibilità (della sua replicabilità), scartando metodicamente – a priori – ciò che ancora non rientra nelle sue capacità riproduttive. Da questa sua caratteristica dipende d’altronde quanto si potrebbe definire l’immediazione a cui il digitale dà sistematicamente luogo, rendendo cognitivamente disponibili dei contenuti solo nella misura in li tiene in una zona di crescente univocità pragmatica, nella misura in cui, in breve, media a dismisura l’immediato, senza dare a vedere che lo fa e senza, soprattutto, offrire più alternative d’uso.

Al contrario, l’analogico supporta sempre molti usi e molti accessi possibili, senza che nessuno possa presentarsi come strutturalmente univoco. Lo scopo ultimo del digitale è dunque sì, tra l’altro, di ri-produrre l’analogico, sin nei minimi dettagli, ma non potendo naturalmente giungere mai a realizzare appieno questo scopo, esso resta sempre dialetticamente un passo al di qua dal far collassare la differenza fondativa che lo separa, istituendolo, dal suo stesso altro. In questa precisa accezione, il digitale esiste allora se non proprio da sempre almeno da quando il primo essere umano ha rivendicato un uso esclusivo su e di qualcosa, decretando così la scarsità delle risorse di cui si è appropriato, precludendone il consumo da parte di altri e decidendo infine del modo di usarlo. Il digitale è così un sinonimo di “capitale”, di iterazione e di accumulazione.

Ora, la pubblicazione pressoché simultanea della nuova edizione italiana di Vivere e pensare come porci. L’istigazione all’invidia e alla noia nelle democrazie-mercato (Meltemi, 2021, pp. 159), di Gilles Châtelet, e di Documanità. Filosofia del mondo nuovo (Laterza, 2021, pp. 417), di Maurizio Ferraris, impone di affrontare di petto queste problematiche, sia pure secondo intenzionalità teoriche pressoché antipodali. 

Portando a compimento un progetto filosofico avviato da diversi decenni, Documanità prende atto infatti di una “rivelazione” che dovrebbe cambiare i connotati di quasi tutti i problemi con i quali è solito confrontarsi il pensiero filosofico-politico: il realizzarsi di una nuova ecumene, centrata però innanzitutto sull’interazione tra tecnologie piuttosto che, come si presumeva invece in passato, tra corpi pesanti o pensieri incorporati. Nonostante il carattere sostanzialmente apologetico delle tesi intorno alle quali è costruito, esso si fa foriero infatti di un’insistenza metodica su un fatto cruciale: che la registrazione, nel contesto digitale, precede sistematicamente la comunicazione (cfr. p. 6). Questa consapevolezza rende infatti immediatamente chiaro che non basta più oggi come oggi formulare il messaggio giusto, per far sì che esso si converta magicamente in atti conseguenti, individuali e collettivi che siano. I messaggi sono ormai percepiti universalmente, anche dai singoli, come dati, nel senso pieno della parola, quali segnali statistici che documentano un evento, piuttosto che istigare un avvento, e che organizzano perciò un campo di strutture descrivibili senza necessariamente delineare i termini della loro modificazione possibile (se non per effetto di una deriva non intenzionale, dovuta ancora all’accumularsi di minuscoli eventi).

Si capisce allora la ferocia della critica con il quale l’autore demolisce la tiritera circa la Rete come realizzazione, innanzitutto, di una nuova “infosfera” globale. Se è vero infatti che l’informazione è la descrizione degli stati possibili che un sistema di qualsiasi tipo può assumere, il dominio incontrastato dei dati va in una direzione completamente opposta, limitandosi a certificare un essere ormai emancipato da ogni dover-essere (e quindi anche da ogni poter-essere, con il quale il dover-essere non può non tenersi in una tensione costante). Diventa insomma indiscutibile che le cose, quali che sia la loro natura intrinseca, sono quel che sono e che questa conoscenza puramente constativa è appannaggio soprattutto di sistemi di elaborazioni tendenzialmente non umani – algoritmici – sui quali le nostre prerogative di intervento si fanno sempre meno incisive. Questo è il senso del “positivismo assoluto” – come lo si potrebbe definire – inaugurato dall’immediazione digitale e che il pensiero critico deve provare come sempre a disfare.

Solo che, nel momento in cui Ferraris ne riconosce l’effettualità nel nostro presente, lo retroflette altresì all’origine della stessa storia umana e, persino, della storia dell’universo, concepiti entrambi come processi dominati interamente da una sola costante: l’“isteresi”. Il termine, preso a prestito dal vocabolario delle scienze naturali, indica semplicemente la permanenza dell’effetto oltre il cessare dell’azione di una certa causa ed è presentato come la chiave di volta al contempo di una nuova ontologia (centrata sulla funzione imprescindibile della registrazione), di una nuova antropologia (ricondotta alla sua matrice di fenomeno emergente e dunque contingente, destinato a un’inevitabile interruzione, individuale e collettiva), di una nuova epistemologia (imperniata intorno al ruolo chiave della tecnica e dunque dell’iterazione) e persino di una nuova proposta etico-politica (basata sull’origine comune di valore venale e valore morale, di capitale ed ethos, e quindi sull’alterazione che fa seguito immancabilmente alla ripetizione). 

Il tragitto del filosofo torinese si articola infatti intorno a un modulo quaternario, che vale tanto per l’organizzazione architettonica dei suoi ragionamenti quanto per la batteria concettuale impiegata. Quattro sono le nozioni chiave (appunto: registrazione, iterazione, alterazione e interruzione), quattro le domande chiave alle quali provare a dare risposta (“che cosa è il web?”, “chi siamo noi?”, “da dove veniamo?”, “dove andiamo?”), quattro, infine, i libri, i capitoli e i singoli paragrafi di cui si compone il volume. Il modulo quaternario sul quale si basa il sistema di Ferraris – perché di questo si tratta, apertamente, di un sistema: il fine è la totalizzazione della nostra esperienza, attuale e storica – vorrebbe dunque mostrarsi a sua volta isomorfo alla realtà che descrive e alla sua capacità di portare alla luce, dapprima con la vita biologica e poi soprattutto con l’umanità, persino il suo esatto contrario. Il pensiero, come ciò di cui esso è pensiero, va, per così dire, sempre due a due (è iterativo), dando luogo occasionalmente (contingentemente) alla totalità (all’alterazione e quindi per forza di cose all’interruzione: non c’è alterazione senza interruzione e viceversa) e quindi all’infinità potenziale di risorse alla quale sembra abituarci la tecnica digitale, in quanto principio di replicazione illimitata. L’esempio, tanto semplice quanto calzante, della proverbiale goccia che fa traboccare il vaso (p. 8) è in tal senso oltremodo calzante: la molteplicità si tramuta all’istante in unità, l’accumulo di eventi scatena automaticamente l’avvento; o, in maniera più prosaica, la quantità si converte all’improvviso in qualità, senza che nessuno, o quasi, si sia ingegnato di provocarne intenzionalmente il verificarsi.

Questa ricollocazione dell’umano da parte del digitale – in funzione di un sapere che non è ormai più in alcun modo l’anticamera di un potere, se non per coloro che detengono la proprietà dei mezzi di produzione, e quindi di estrazione dei dati – è insomma inquadrata giustamente da Ferraris come l’autentico perno con il quale l’umanità sta ormai maturando una trasformazione senza precedenti (donde il sottotitolo del libro: Filosofia del mondo nuovo), che rivela, nell’atto di accadere, quel che essa è stata lungo tutta la sua storia: una specie dalla destinazione incerta, se non indefinibile, la cui finalità si determina innanzitutto al livello delle protesi con le quali modifica non solo l’ambiente circostante ma anche innanzitutto la propria stessa, scarsa dotazione organica. 

La teoria documentale con la quale approccia al web e alla rivoluzione di cui è stato ed è il vettore principale, è infatti innanzitutto una teoria dell’immediazione digitale, e quindi del suo presupporre, occultandone la presenza, una mobilitazione dell’umanità che la mette universalmente al lavoro, nella stessa misura in cui spoglia l’attività lavorativa dei suoi attributi classici (almeno per alcuni): fatica, negazione determinata, relazione servo-padrone. Per questo può dire, con l’impeto di chi sa di rovesciare una vulgata tanto diffusa quanto malfondata, che noi siamo sempre e comunque padroni della tecnologia (delle macchine) almeno quanto siamo inevitabilmente schiavi della natura (come dimostra bene la pandemia di Coronavirus, a cui l’argomentazione di Ferraris fa spesso riferimento, ostendendo così dall’interno l’orizzonte temporale in cui avuto luogo la sua redazione). Per questo, inoltre, può sostenere, svelando qualcosa che era sotto gli occhi di tutti ma che si fa estrema fatica a riconoscere: che consumare è un atto strutturalmente insurrogabile dalle nostre tecnologie, che «non può venire in alcun modo automatizzato, per ragioni non etiche ma ontologiche» (p. X). Anzi, tra tutti i viventi, l’essere umano è il consumatore sommo, colui che si realizza da cima a fondo nell’atto di consumare (il che, se si porta il ragionamento alle sue ultime conseguenze, fa pensare che ci sia un’incompatibilità di fondo tra la forma di vita umana e l’equilibrio di risorse in cui consiste comunque la biosfera).

Un consumare che ha però come effetto collaterale – oggi per la prima volta – un continuo produrre tracce e quindi documenti, da cui il capitalismo delle piattaforme ricava una merce tanto abbondante quanto redditizia e che sembra dunque autorizzare una nuova interpretazione dei rapporti tra capitale e lavoro, a favore una volta per tutte della loro inedita inesauribilità (come accade appunto in ambito digitale, dove semmai la scarsità deve essere creata artificialmente). 

Ecco perché la digitalizzazione crescente della nostra esperienza – a tutti i livelli: lavorativo, ricreativo, medico, artistico, ecc. – può finalmente fare tutt’uno con la sua trasformazione in un enorme bacino di estrazione di valore economico. Ecco perché, aggiungeremmo noi, il consumo non fa che costringere una volta per tutte – senza alternativa visibile – le persone nella loro individualità di prosumers, separandoci stabilmente dai nostri consimili. Ecco perché infine, ed è l’obiettivo centrale del libro, è necessario pensare e approntare qualcosa come un nuovo welfare – un webfare – che redistribuisca almeno parte dei guadagni che le piattaforme capitalistiche ricavano dal nostro (non)lavoro, e cioè dal nostro improfanabile consumo quotidiano.

Se dunque si può dire, secondo tale impostazione, che l’umano sia di per sé, fin da sempre, l’invenzione del digitale, in quanto apparizione di una tecnica esterna (esomatica), e dunque di una finalità esterna sostanzialmente diversa dalla finalità interna del biologico, questo significa altresì che con l’umano fa la sua comparsa la trascendenza, rispetto all’immanenza che qualifica da cima a fondo il processo emergenziale con cui si impongono per il resto tutte le entità non umane. Questo significa, insomma, che grazie all’iterazione e all’alterazione che essa comporta prima o poi inevitabilmente è nato un essere che tenta di contraddire il presupposto della sua stessa (mancanza di) natura e, quindi, della scarsità in cui si troverebbe, almeno secondo l’impianto ideologico capitalista, a vivere sin dall’inizio. In altre parole, l’essere umano tenta di non morire, come tutti gli altri viventi, ma affidando la propria immortalità virtuale allo strumento, che diventa quindi ipso facto un supporto di capitalizzazione, economica e morale, materiale e spirituale, corporea e mentale, e dunque di progettazione consapevole del proprio agire (di organizzazione intenzionale del futuro).

Il che vuol dire, a ben vedere, una sola cosa: che la sequenza, per il resto ubiqua, registrazione-iterazione-alterazione-interruzione a cui sottostà per intero il vivente, subisce a sua volta un’alterazione e quindi un’interruzione, per quanto parziale, temporanea, rinviata, redendo almeno alcune risorse – innanzitutto quelle cognitive – non più in alcun modo scarse. L’umanità è allora il luogo in cui il finire che per il resto coinvolge ogni essere vivente incontra se stesso, diventando così oggetto di un rituale senza fine di differimento, di cui il digitale, nella misura in cui dà a vedere di voler fare a meno dell’analogico, e quindi del finito in cui esso sempre prende forma, è la manifestazione massima. La cultura, con tutte le sue diramazioni, non è in fondo altro che questo: un tentativo di trasformare una volta per tutte l’analogico in digitale. 

Il capitolo finale (“Trasvalutazione: dove andiamo?”) – che nel suo proporre una terapia dovrebbe avvalorare il senso ultimo del libro – va incontro allora a uno strano paradosso: a fronte dell’organizzazione quaternaria di tutti i ragionamenti proposti, sceglie questa volta la forma triadica, proponendo una ricetta fondata su “consumo”, “educazione” e “invenzione”, come nuovi principi con cui ripensare e reinventare l’attualità e rivoluzionare finalmente la stessa rivoluzione digitale. Quel che manca, come una svista a sua volta rivelativa, è insomma una presa in carico adeguata della socialità e quindi del comune, prima ancora che del consumo, in cui le altre soluzioni non possono non prendere piede. Quel di cui non si tiene conto, in altre parole, è che ogni vivente, umano compreso (e anzi, soprattutto quello umano) è sempre già in una rete di connessioni, intercorporee prima che ancora che comunicative o tecnologiche, da cui dipende la sua sopravvivenza e la sua evoluzione, rete che deve essere continuamente riconcepita, riorganizzata e trasformata in funzione dell’alterazione incessante che ne investe nel tempo i nodi. È così che la proposta di Ferraris non si dà i mezzi politici – come ha fatto notare d’altronde Massimo Cacciari, in una presentazione del libro che si può trovare sul web – per realizzare quello che pur tuttavia auspica in maniera anche condivisibile. 

Pamphlet di urticante attualità e di rara ferocia ironica, Vivere e pensare come porci muove allora proprio da questa mancanza. Concepito come un distruttivo commento all’unico imperativo che governa ormai le nostre società digitalizzate – per quanto sia stato scritto all’alba della digitalizzazione di massa, nel 1998 – e che appunto vedono nella postura del consumatore, al contempo passivo e retrivo, l’unica attitudine ancora possibile per l’umano, esso prova comunque a indicare come far ripartire il motore delle lotte. Attraverso la costruzione di alcuni esilaranti personaggi concettuali – tra i quali svettano “l’empirista mercantile” e il “libertariano”, profeta di un anarchismo capitalistico ormai sfacciato – si assiste infatti in queste pagine a una diagnosi decisiva, concernente in primo luogo due punti: la trasformazione avviata negli ultimi decenni di ogni processo in procedura, ovvero in una configurazione grazie alla quale «ogni operazione cognitiva possa essere vista come una successione di tappe elementari» (p. 140), e la nemesi, innescata da una sviluppo materiale che inverte i suoi fini originari, tale per cui «l’inaudita estensione dei prolungamenti tecnici del corpo, che doveva innalzare l’umanità al di sopra dell’abiezione delle ‘necessità naturali’, conduce, su scala planetaria, a delle situazioni di penuria totale» (p. 144).

Identificando così il vero e proprio architrave di quanto l’autore definisce “Controriforma Neoliberale”, si profila quello che è il vero l’obiettivo polemico principale di queste pagine: una certa narrazione rassicuratrice dell’epoca dominante, la quale si informa, in maniera più o meno consaputa, di fede scientista e si fonda sul presupposto di un caos intimamente creatore di forze e forme, dal cui svolgimento inerziale dipenderebbe oramai in maniera esclusiva ogni credibile prospettiva di cambiamento: «Volete captare le potenze creatrici del caos – cosa che è certamente normale per i Giardinieri del creativo – e rimpiazzare le grandi scelte politiche con una cyberpolitica che le lascerebbe emergere delle soluzioni graziosamente generate per autorganizzazione a partire dal disordine (…) sbarazzatevi completamente del politico e del suo volontarismo.

Basta avere pazienza: il caos delle opinioni e delle micro-decisioni finisce sempre per partorire qualcosa di ragionevole» (p. 5). Ed è proprio dietro questa rappresentazione irenica, che si nasconde tutt’altro: una nuova scarsità, una nuova penuria, relativa alla sempre maggior difficoltà di introdurre nel mondo autentica novità.

Il percorso genealogico proposto, pur nella ricchezza di figure ed episodi evocati, è perciò lineare: le democrazie occidentali – e non solo esse – si sono trasformate progressivamente in dei mercati, nei quali la garanzia dello scorrimento dei flussi di informazioni – oggi si direbbe, appunto, di dati e metadati – è la preoccupazione alla quale si sacrifica volentieri tutto il resto. Una preoccupazione che si concretizza secondo, ancora, due assi preponderanti: da un lato, istigando alcune tonalità emotive fondamentali (invidia e noia) nel destinatario ideale, ma poi nemmeno troppo ideale, di tale funzionamento, e, dall’altro, promuovendo un regime di volatilità generale di ogni bene, umano e non. Il risultato, tutt’altro che accidentale, è allora il dissolvimento di ogni qualsivoglia processo di rivendicazione collettiva e lo spostamento definitivo del fulcro della Storia dall’umano al tecnologico, dal politico all’informatico, dal filosofico al cognitivo. Per quanto abbandonante, e cioè non scarso, sia allora il materiale eteroclito grazie quale prolifera la forma del capitale contemporaneo, esso suppone e amplifica la scarsità di un nuovo bene, proprio quella vita activa – organizzata volontariamente – che diventa oggi sempre più difficile da praticare e la cui attivazione, impossibile senza il tempo liberodell’intercorporeità sociale, diventa sempre più difficilmente reperibile, anche tra i più giovani. 

È per questo motivo che, «dal punto di vista dell’orizzonte, tutto è obsoleto […] la materia, la produzione […] ogni industria e ogni produzione sono ‘obsolete’: il capitale non è più un fattore di produzione, è la produzione che è un semplice fattore del capitale»(p. 93). Non l’innovazione ma l’obsolescenza, ovvero l’invecchiamento, lo scadimento e la consunzione, diventano il credo onnipresente e autoritario al quale sacrificare tutto il resto, ovvero, grazie al quale convertire tutto in resto, in un rifiuto che, inservibile se non per macchine, assume una centralità nel paradigma economico attuale tanto indiscutibile quanto problematica. Una volta che lo scarto – quello che una volta ero lo scarso – assume la forma di statuto esemplare della merce, e cioè, dell’oggetto scambiabile, tutto diventa tendenzialmente indiscernibile dal valore di scambio universale in cui consiste da sempre il denaro, vale a dire ciò che, in quanto realizzato con materie prime intrinsecamente scarse o venendo reso scarso artificialmente, rende possibile l’attribuzione di valore di cui costituisce l’unità di misura, con le ovvie implicazioni sul piano di una nuova, acuta divisione di classe: «più una fabbrica è volatile, più si esasperano le divisioni tra quelli che controllano i flussi, restando dunque in prossimità dei dispositivi – i ‘quadristi’ dell’interno –, e le ‘sentinelle’ dell’esterno, i nomadi subappaltatori che hanno la sventura di avere ancora le mani» (p. 92). È questo d’altronde uno degli effetti elettivi, se non l’effetto per eccellenza, di quanto abbiamo chiamato l’immediazione digitale, vale a dire la tendenza che scardina, per rimodularla su un piano di impregiudicabile efficacia, l’articolazione, sempre da rifare, tra teoria e azione, tra pensiero e prassi, tra, in breve, concetto ed effetto.

La conseguenza è allora una crescente neutralizzazione delle rotture politiche da cui dipendeva la possibilità di una diversa organizzazione del sistema produttivo, non più capaci di porsi a loro volta in una zona di eccedenza rispetto al regime del mercato: «ogni vita umana non è altro che la gestione ottimale – attraverso un egoismo razionale – di una condotta di sopravvivenza in un mondo sottomesso alla scarsità» (p. 117). È così che, invece di produrre si tratta oggi innanzitutto di comunicare e anzi di “lasciare tracce”, dalla cui raccolta dipende la valorizzazione economica e quindi l’asservimento generalizzato che la rende possibile, col risultato che entrambi i momenti collaborano sempre di più alla produzione di una catastrofe di senso e di censo che, a meno di manovre alternative, appare inevitabile:«in condizioni di concorrenza perfetta non c’è più concorrenza, e la promessa di un mondo ‘puramente informazionale’ di cittadini-termostato è un’illusione puerile come quella del motore perpetuo! […] al paradosso del mercato perfetto – ‘niente concorrenza in condizioni di concorrenza perfetta’ – corrisponde quello della comunicazione perfetta: “La comunicazione perfetta non comunica niente”» (p. 128). Per questo l’invito di Châtelet – che di mestiere faceva il matematico e il filosofo della matematica, cioè di discipline in cui il gesto è costitutivo del concetto – suona così netto: «più moti, meno mode» (p. 41).

Si tratta, per lui, di riattivare esattamente quella capacità di stare insieme nello spazio pubblico reale che, tra l’altro, la pandemia di Coronavirus ci ha fatto riscoprire, sottraendocela, come la vera conditio sine qua non elementare di ogni vita activa e dunque anche della possibilità che la teoria e l’azione politica trovino di che convergere, su contenuti concreti e condivisi, veramente innovativi. È dunque l’appropriazione dello scarto, nei suoi due versanti di rifiuto espulso e di traccia registrata, che si erge a vera (ultima?) risorsa del capitalismo presente, questa sì veramente scarsa, poiché in mano infine a pochissime persone, gli unici in grado di estrapolarne vera innovazione (sul piano per esempio dell’implementazione delle intelligenze artificiali, a loro volta funzionali all’incremento del processo). Si tratta di una risorsa, in altri termini, che non può che prodursi sul piano materiale dei rapporti di forza e che ha luogo per definizione fuori dal web, là dove è possibile l’errore, là dove un corpo sperimenta la propria esposizione all’imprevisto, all’eccezionale, all’originale, di contro alla progettazione e alla predizione alla quale ci assuefà con sistematicità e irrevocabilità il digitale: «lo spazio-tempo della città dipende ormai dalla gestione econometrica dello stoccaggio di competenze per ogni metro cubo al secondo e dalla ottimizzazione del numero d’incontri di individui funzionali, incontri naturalmente elevati alla dignità postmoderna di ‘eventi’ […]. La democrazia non si ottiene da una ottimizzazione dei possibili preesistenti ma sorge dalla scommessa, infinitamente più generosa e quindi infinitamente più rischiosa, di una eccellenza delle virtualità della moltitudine e della sua tendenza a dispensarla. A questa scommessa si associa il principio dell’innocenza dell’eccezione: nessun individuo, nessuna lobby, nessuna comunità o partito possiede una vocazione privilegiata all’esercizio del potere e dunque, niente democrazia senza produzione democratica dell’élite!» (p. 115 e 148). 

Ma il punto è davvero la costituzione dell’ennesima élite, per quanto democratica? Davvero c’è bisogno di invocare l’intervento di una nuova aristocrazia intellettuale, per riattualizzare la portata della teoria, e non invece di una nuova pratica di condivisione dei saperi, imperniata appunto sulla compresenza reciproca – corporea – dei suoi ‘praticanti’? Quel che emerge dal testo di Châtelet, è insomma una sorta di contraddizione: da un lato si è in presenza di una considerazione appropriata dell’imprescindibilità, e dunque dell’autentica insostituibilità, dell’agire collettivo, vero e proprio antagonista della deriva consumistica innescata dalla digitalizzazione; dall’altro manca una messa a punto del necessario cambiamento di paradigma, non più verticistico ma necessariamente orizzontale, rizomatico, molti-a-molti, che la diffusione delle reti digitale ha comunque imposto, intaccando così la credibilità della stessa rappresentazione delle risorse – almeno di alcune – come bene già da sempre scarso e dunque non replicabile.

Che lo scambio di un bene – e la sospensione dell’uso che lo rende possibile – sia infatti il fondamento di possibilità dei dispositivi di potere che da sempre attraversano le società capitalistiche, anche nelle loro forme più primitive ed embrionali, persino nella loro scaturigine quasi co-originaria alla vocazione predatoria della specie umana, è infatti difficilmente discutibile. Soltanto un bene, sia esso materiale o immateriale, che può essere trasmesso ad altri e percepito per questo come scarso, può altresì essere perduto e deve quindi essere protetto contro questa eventualità. Soltanto un bene alienabile è suscettibile, al fine di garantirsene il possesso futuro, di essere accumulato, escludendo chi ambisce per lo stesso motivo alla sua fruizione, se non sotto cessione controllata, a pagamento, dello stesso. In questo senso, tutti i beni sono virtualmente tali, ad esclusione appunto della propria pura vita biologica, in quanto già sempre intrecciata a quella altrui: questa non si può smettere di usare, almeno sino a che si è in vita e  nonostante il procedimento della sua messa a lavoro capitalistica provi a essere integrale, senza poter però mai realizzare del tutto il proprio obiettivo (questo è il senso dell’incompletezza del digitale su ricordata).

Non saremo mai semplicemente dei consumatori, bene o male che sia: siamo anche sempre co-operanti, come è giusto che debba essere. Il consumo non è improfanabile e lo scarso non implica necessariamente la sua non replicabilità. Se quindi quasi tutte le risorse sono ormai coinvolte da tale meccanismo, c’è comunque un perno a partire dal quale offrire perlomeno una resistenza: la vita come tale, come processo intercorporeo di uso reciproco e cioè di mobilitazione collettiva scelta, intrinsecamente innovativa.

La rivoluzione digitale, e quindi l’affermazione del capitalismo cognitivo e/o icnologico (basato sull’accumulo di tracce-dati), è perciò sì il momento in cui l’evoluzione della tecnica si ritorce contro gran parte dell’umanità, a favore di pochi, catturando al suo interno non più solamente proprietà extra-umane ma innanzitutto proprietà antropogenetiche (il linguaggio, il sapere, la conoscenza), ma senza che ciò precluda una volta per tutte la sua riappropriazione dal basso. L’automazione ha dunque sì l’effetto di sdoganare definitivamente l’autonomizzazione del pensiero e del comportamento rispetto alla corporeità biologica della nostra specie, ma ciò non neutralizza mai del tutto l’inter-corporeità, e dunque anche l’eventualità del dominio come della sua sovversione, che pure la contraddistingue in modo costitutivo. L’avvento del digitale propriamente detto squaderna l’illimitata risorsa dello scambio umano, linguistico-pragmatico, come alternativa persistente, persino trascendentale, allo sfruttamento di tutte le altre.

Che dire quindi in conclusione? La grande disponibilità di teorie nello scenario contemporanee, di cui quelle appena ripercorse in maniera scorciata rappresentano due esempi emblematici, è in questo senso intrinsecamente problematica: la loro efficacia è stata fiaccata dall’eccesso e dalla sovrabbondanza dell’offerta. Sarebbe necessario tornare a metterle alla prova nel vivo della prassi, e dunque dell’uso da parte dei corpi (al plurale, sempre al plurale), prima di limitarsi a discuterle astrattamente sul piano della loro portata più o meno veritativa. Sarebbe necessario insomma ricordarsi come le teorie siano fatte innanzitutto per servire la vita, e non il contrario, e vadano dunque verificate nel concreto delle pratiche di lotta o, in caso si rivelino ineffettuali, serenamente rottamate. Questo cambiamento di punto di vista, per quanto ancora tutto teorico, è il preludio di un primato della prassi che diventa così occasione ultima e prima di decisione, su se stessa e sul proprio altro. Il contrario, appunto, di quanto sembra averci insegnato, almeno per ora, il digitale, più o meno antico che sia e per quanto tentacolare sia già diventato.