cult

CULT

Epistemologia della liberazione. “La vita dei concetti” di Pierpaolo Cesaroni

Cosa sancisce la scientificità di un sapere? E in che senso la filosofia può svolgere un ruolo operativo nell’istruzione dei concetti scientifici – siano essi relativi al campo fisico-chimico, biologico e finanche politico? L’ultimo libro di Pierpaolo Cesaroni, “La vita dei concetti”,  affronta tali questioni, in una prospettiva che, riprendendo ed ampliando quella di Hegel, Bachelard e Canguilhem in merito, delinea i tratti salienti di un’epistemologia della liberazione

L’articolazione reciproca di prassi e teoria è forse il problema cruciale della tradizione filosofica occidentale. Per avvedersene, è sufficiente pensare alla funzione che, nella riflessione filosofica, svolge pressoché da sempre (da Platone) la questione meta-filosofica, concernente il soggetto proprio e i metodi legittimi del suo esercizio. Fare filosofia implica sempre una qualche interrogazione sul senso della teoria e sui rapporti che la teoria intrattiene con il resto delle attività umane – oltre che, evidentemente, con il reale stesso. La filosofia è l’attività in cui ne va sempre del senso della teoria, come attività distinta da ogni altra e, per certi versi, pertinente più di ogni altra (si capisce perciò il ruolo cardinale della teoria della conoscenza, nella sua storia). Definire l’interazione dell’agire e del sapere, del conoscere e del fare, è insomma la vera grande sfida del palinsesto speculativo che risponde al nome sintomatico di filo-sofia (di “amore per il sapere”): ne manifesta la cifra esemplare, il suo incarnare un desiderio di verità che, nella sua perfetta adesione al proprio potere, è destinato a prima vista a rimanere solo in potenza. Donde i modi che definiscono il carattere distintivo di questa tradizione – riflessività (inesauribile), sistematicità (rivedibile) e progressività (cumulabile) – e che si declinano in forme sempre inevitabilmente molteplici ed eterogenee. Donde, inoltre, l’impatto della celebre sentenza marxiana (Tesi su Feuerbach, 1845) sulla necessità di trasformare il mondo e di non limitarsi più, quindi, solamente ad interpretarlo. Il momento in cui il pensiero filosofico si scopre comunque dipendente da una prassi che lo precede e che ne determina, dall’esterno, ogni più o meno residuale performatività, è un vero e proprio trauma, un trauma la cui metabolizzazione informa non poco le traversie della sua vicenda successiva. Nel nitore cristallino dell’idea fa capolino allora una screziatura la cui presenza diventerà sempre più grande, sino a sancire, nel Novecento e poi in maniera macroscopica nella nostra contemporaneità, l’impossibilità di replicare fino in fondo il gesto filosofico elementare dell’unificazione e cioè della totalizzazione dell’esperienza. Qualcosa, d’ora in avanti, resterà eccentrico rispetto alla dimensione della teoria, destinato a fare problema, appunto, in maniere sempre impreviste, trasformando la filosofia in un tentativo sempre più vertiginoso di nominare quell’eccedenza (attraverso concetti come “evento”, “testo”, “potere”, ecc.) e sgominando retrospettivamente la presenza di elementi extra-teorici anche nel suo passato più profondo (si pensi agli studi di Eric Havelock e Walter Ong sul ruolo della tecnologia alfabetica nella costruzione dell’ideale epistemico classico della filosofia).

Il recente La vita dei concetti. Hegel, Bachelard, Canguilhem (Quodlibet, 2020, pp. 293) di Pierpaolo Cesaroni si installa perciò su questo orizzonte post-ontologico per apportarvi un chiarimento prezioso e agguerrito al contempo, un chiarimento che ne fa un libro importante tanto per l’ambito teoretico che per quello politico. Operando una distinzione precisa, e per certi versi definitiva, tra un’idea di filosofia come discorso sul reale, che pretende quindi di preservare una via d’accesso privilegiata a una verità esclusivamente e prioritariamente filosofica, e un’idea di filosofia come discorso epistemologico su (altri) discorsi – innanzitutto, scientifici, ma anche politici, (e, aggiungeremmo noi, seguendo su questo punto Alain Badiou, finanche amorosi e artistici), La vita dei concetti introduce a una lucida comprensione delle poste in gioco dell’attuale dibattito epistemologico, al di là delle sue compartimentazioni di comodo e delle diatribe tra direttrici più o meno tra di loro incompatibili (analitici vs continentali). È infatti soltanto nella seconda prospettiva, quella dell’“epistemologia storica”, che la chiarezza e anzi la chiarificazione – anche nel senso tecnico di eliminazione delle torbidità in un liquido – assume un ruolo che si fatica a sovrastimare, ricomponendo così la frattura tra momento pratico e momento teorico che per il resto affligge il condursi del filosofo. Per quanto infatti non lo dichiari in maniera esplicita, Cesaroni vede nitidamente che l’integrazione possibile del registro pratico e di quello teorico dell’esperienza umana può avvenire soltanto all’insegna del riconoscimento della loro previa divergenza e quindi dell’esigenza, costretta a restare tale, della loro ricomposizione. Insomma, della presenza per certi versi ubiquitaria dall’errore. Ed è da qui che le sue brillanti analisi prendono le mosse; dalla constatazione secondo la quale «In definitiva: la scienza non nasce dall’esperienza, ma dal suo fallimento. Il ‘senso del problema’ trova la sua condizione di emergenza nello squarcio, nel buco che si produce nel campo della rappresentazione del reale» (p. 28).

Il libro si presenta come un percorso di lento e progressivo avvicinamento a una questione che, seppure chiarita soltanto nelle pagine della conclusione (intitolata appunto “La vita dei concetti”) è il vero motore di tutto il suo sviluppo argomentativo. Ovvero, la corrispondenza – e, meglio ancora, l’isomorfismo – tra la categoria di vita, categoria non scientifica ma filosofica, e la forma del concetto in quanto tale, o dell’«in quanto» stesso, in quanto tale (p. 278): vale a dire, della comprensione intesa come processo di assunzione e superamento «dei punti di non tenuta» (p. 43) di un certo regime di designazione del reale. Questa singolare convergenza è infatti il punto d’approdo di una serie – sì di una serie, virtualmente infinita – di sfasamenti che punteggiano e costellano nella modernità scientifica la storia dei diversi campi epistemici in cui essa si articola. Tutto comincia nel momento in cui, con Kant, si verifica «uno sdoppiamento interno al piano epistemico» (p. 12). Quest’ultimo, allora, «non si limita più a segnare il confine rispetto a ciò che non è (distinzione fra episteme e doxa), bensì si impegna anche a determinare il rapporto che intrattiene con se stesso» (ibid.). Di questa schisi interna all’esperienza della conoscenza – schisi che prende il nome di “trascendentale” e che segnala il ripiegamento riflessivo del sapere su se stesso – la filosofia si fa carico nello stesso tempo in cui la vita diventa, come ha mostrato Michel Foucault in pagine famose (Le parole e le cose, 1966), oggetto di un discorso scientifico unitario, insieme a ricchezza e lingua, dando luogo al complesso moderno delle scienze umane. Ma a differenza delle sue consorelle – l’economia e la filologia – la questione bio-logica, come si potrebbe trascrivere sinteticamente il plesso che stringe l’“in quanto della comprensione” con “la categoria di vita” (con la configurazione epistemologica dei concetti della vita), assume un’importanza sempre più grande, assurgendo a luogo di delucidazione persino dell’economico (nel contesto di un’estrazione di valore economico sempre più centrata biopoliticamente sulla messa a lavoro totale del vivente) e del linguistico (là dove il linguaggio, e più in generale la comunicazione, diventano territorio di caccia del capitalismo cognitivo, rivelandone così lo spessore intrinsecamente materiale-corporeo). Quali sono infatti i passaggi necessari affinché il campo della razionalità scientifica, nella sua differenza rispetto all’esperienza comune, quello della concettualità biologica, in quanto irriducibile al contesto teorico delineato in ambito fisico-chimico, e, infine, lo spazio del sociale, caratterizzato dall’assenza di una normatività immanente (da una saggezza intrinseca paragonabile a quella del corpo organico), prendano progressivamente forma?

Gli snodi della ricognizione di Cesaroni sono ben evidenziati nella struttura esposta nell’indice. La prima parte, “Filosofia come epistemologia”, divisa a sua volta in due capitoli (“Il concetto” e “Logica del concetto ed epistemologia dei concetti”) si preoccupa di stabilire due punti fermi, che verranno messi in funzione nel prosieguo della trattazione. Il primo concerne la discontinuità che ogni istruzione scientifica del reale (e del soggetto che vi corrisponde: dell’oggetto in quanto insomma è inseparabile da un certo costrutto razionale) marca rispetto all’esperienza comune – punto che l’Autore riprende, naturalmente, da Gaston Bachelard. Concettualizzare scientificamente è sempre un’operazione a due tempi, consistente nel constatare «lo scollamento fra la coscienza che percepisce e l’oggetto percepito» (p. 29), senza però cedere né alla tentazione idealista pronta a dichiarare il carattere sempre linguisticamente mediato dell’esperienza, né a quella, opposta e contraria, dell’empirismo speculativo, intenta a ricucire lo strappo che pure presiede alla genesi del suo stesso gesto riconciliatore. Concettualizzare vuol dire insomma «resistere alla prima riflessione» (p. 31) – quella della mera rappresentazione – e rifletterla a sua volta in un gesto ulteriore di messa in forma, tale per cui il tutto di una certa configurazione di sapere diventa la parte di un tutto logicamente superiore (l’esempio della dinamica matematica di tematizzazione e paradigma – di iterazione e ricorsione del gesto matematico illustrata da Jean Cavaillès – svolge a tale proposito un ruolo archetipale: si pensi all’ampliamento graduale del dominio algebrico: p. 106). Il secondo riguarda le affinità e le divergenze tra il sistema della scienza hegeliano e l’epistemologia storica à la francese, in cui la prospettiva del libro tende in ultima istanza a inserirsi. Lo slittamento dal singolare della scienza hegeliana al plurale dei concettidispiegati dall’effettività delle diverse discipline scientifiche sintetizza il senso di una trasformazione che assume innanzitutto ciò che Cesaroni, riprendendo un ficcante motto lacaniano, definisce come l’«assenza di un vero del vero» (p. 112). Contro la prospettiva, unitamente fichtiana ed hegeliana, relativa alla possibilità di elaborare una dottrina della scienza (cioè, una scienza della scienza), l’epistemologia segna il suo scarto aderendo al dettato epistemico singolare di ogni campo oggettuale – di ogni insieme determinato di concetti. L’andamento enciclopedico – da un campo epistemico a un altro – piuttosto che quello problematico – interno a un certo campo epistemico – distingue insomma l’approccio speculativo da quello epistemologico. Se il secondo lavora per rimodulare ogni volta di nuovo la funzione dei concetti, riattivando dunque senza posa il «senso del problema» immanente all’istruzione epistemica, il primo si limita (ancora) alla solidificazione in un assetto unitario delle membra sparse del conoscere (delle scienze finite), producendo qualcosa come una “norma delle norme” del sapere (che si pretende perciò come “assoluto”). La differenza dell’epistemologia dalla filosofia speculativa risiede quindi nel riconoscimento di come le norme (cioè, l’elemento speculativo o razionale da cui emergono tanto il soggetto che l’oggetto del conoscere) siano un fatto autoctono delle scienze e non un effetto della loro ricomprensione filosofica.

La seconda parte, “La vita e la politica”, forte di questi risultati, affronta in sequenza: 1) i rapporti tra la vita e il concetto nel primo pensiero di Georges Canguilhem [in quello che viene definito il suo approccio «empiristico organologico» (p. 126), fondato sulla valorizzazione dell’anteriorità tecnica rispetto alla conoscenza scientifica e della prosecuzione del comportamento vitale in quello tecnico]; 2) la definizione di una concettualità propriamente biologica attraverso il superamento dell’esclusione reciproca di vita e concetto (come lo stesso Canguilhem sarà portato a riconoscere in una seconda fase, prendendo le distanze dalla sua primeva impostazione del problema); 3) la serie, infine, di ulteriori trasmutazioni richieste per articolare e pensare il campo del politico (“La politica e il concetto” e “I concetti della politica”), in discontinuità e al contempo in continuità con il campo biologico. I passaggi sono molti e tutt’altro che semplici – la complessità, nell’ottica dell’epistemologia, è un pregio, un requisito essenziale (il proprio dell’esperienza istruita) contro la povertà e l’astrazione dell’esperienza ordinaria. Ci limitiamo qui a menzionarli rapidamente, mettendo però in luce quello che, a fronte di ipotesi in genere potenti, costituisce a nostro parere il vero punto di forza della proposta di Cesaroni – interno, questa volta, al campo epistemico dell’epistemologia stessa (interno, cioè, all’esperienza specifica di cui si avvale la concettualizzazione del concetto). Un punto che ci porterà anche a dire la nostra, insistendo su alcune delle conclusioni del volume.

Il dispiegamento di un campo biologico autentico richiede di disattivare tanto l’influenza della rappresentazione «macchinica» (tecnologica) quanto di quella «meccanicista» (fisico-chimica), come le definisce l’Autore (p. 156). Si tratta di situarsi da un angolo prospettico che aggiri l’«oscillazione permanente tra meccanicismo e vitalismo» (p. 167) caratteristica della storia della conoscenza della vita, evitando così che all’apice del primo si ripresenti regolarmente la questione finalistica, ineliminabile una volta assimilato l’organismo a una macchina, almeno quanto al culmine del secondo si ripropone sistematicamente il macro-problema di una definizione stessa dell’organico contro il regno dell’inorganico, operazione frutto di vaghe intuizioni pre-scientifiche. Si tratta dunque, in breve, di concepire il vivente come un essere «senza analogo» (p. 186), che impone di disinnescare ogni previa assimilazione a campi già scientificizzati e di ricorrere, nello specifico, alla categoria chiave di «regolazione» (p. 167 e ss.), istituita dal disinnesco simultaneo delle precomprensioni macchiniche e fisico-chimiche, che funzionano perciò fruttuosamente come “ostacolo epistemologico”, senza per questo perdere di validità nel loro legittimo ambito di istruzione. Con questa parola si intende infatti un tipo di causalità non-lineare che caratterizza, nello stesso momento in cui ne rende intelligibile la natura, l’essere organico, al contempo effetto e causa dei propri processi. Il riconoscimento identificativo del vivente e la sua concettualizzazione sono cioè momenti concomitanti, analogamente (questa volta sì!), alla regolazione in cui norma ed esistenza, regola e forma organica, coincidono perfettamente.

Lo stesso vale, ancora, con il sociale e dunque con il politico, i quali devono essere liberati dal peso della metaforica tecnica (fondata sulla supposizione di una «decisione normativa trascendente») come di quella vitale (basata sulla concezione di un’«idea direttiva immanente all’intero campo»: p. 238). Anche in questo caso, l’istruzione deriva da una messa tra parentesi delle analogie che, prelevate da campi estranei, tendono a sovrapporsi a quello politico, per occultarne la singolarità. Non la “regolazione”, dunque, ma la «giustizia» (p. 262) e il «governo» (p. 264) appaiono rispettivamente come il concetto e la categoria propri dello spazio epistemico politico. È insomma la crisi, stato normale delle società, a circoscrivere il campo di un’istruzione concettuale genuinamente politica, in cui l’ordine non è dato in partenza, ma costituisce la posta in gioco di una decisione normativa sempre rivedibile e sempre responsabile, fino all’ultimo, dell’organizzazione a cui dà luogo, contingente e mai definitiva. Ma davvero è sufficiente riconoscere la singolarità epistemologica del politico per rendere ragione della sua precisa collocazione rispetto al sapere? La specificità del campo epistemico della politica risiede appunto nel fatto per cui non basta mai solamente il concetto: bisogna per l’appunto agire. «Nessun sapere potrà mai ritenersi in grado di possedere una misura in base alla quale giudicare la ‘bontà’ o meno della pratica politica o degli effetti che essa produce; quest’ultima è, per così dire, la misura di sé stessa» (p. 269). Non è l’atto teorico che ridefinisce che cos’è politica, ma la prassi – anche senza, e anzi soprattutto senza, una rappresentazione esaustiva presupposta. Il politico è il campo epistemico in cui l’episteme non basta a se stessa e l’epistemologia si configura in esso quale momento del non-epistemico, inteso non come qualcosa di inconoscibile o impensabile, ma di sempre oltre il già pensato e il già noto. Come creazione, insomma, di un’organizzazione che la riflessione viene poi a ritrovare e riarticolare, gettando le basi a partire dalle quale effettuare il suo ulteriore, inanticipabile smottamento. L’auto-produzione della concettualità politica – che l’Autore considera come l’unico modo di scansare la totalizzazione del sociale da parte di una sua parte, per dir così – diventa allora la chiave di volta della sua comprensione. C’è politica (e al limite, diremmo noi, politica rivoluzionaria), là dove l’azione non è interamente predeterminata dalla sua rappresentazione – là dove, in altre parole, una certa sconnessione di prassi e teoria è elevata a fattore intimamente propulsivo della prima.

Ecco allora che l’epistemologia dei concetti – nella misura in cui compie un salto al di là di se stessa, per parlare delle proprie operazioni – rende conto anche dell’evoluzione dei filosofemi e quindi dell’integralità del sapere, in quanto esso è sempre al contempo sia scientifico che filo-sofico – lasciando così un certo spazio alla pluralità delle opzioni della riflessione filosofica medesima. È il quarto genere di «sorveglianza» (p. 278) indicata da Cesaroni, relativo al tipo di discorso condotto nel libro: essa viene dopo il piano rappresentativo (dell’esperienza ordinaria), epistemico (dell’esperienza scientifica) ed epistemologico (proprio dell’analisi dei concetti), ricomprendendoli in sé senza irreggimentarli. Il pensiero, in questo senso, si mostra come una forma del sapere e viceversa, il sapere si fa fino in fondo pensante. Scrive Cesaroni: «questo significa allora che la riflessività giunge qui a interrogarsi sulla struttura stessa della riflessività» (p. 278). La riflessione della riflessione in cui si concreta l’istruzione scientifica assurge insomma a modello della stessa riflessione con cui la filosofia sic et simpliciter si rivolge all’epistemologia, rimanendo così al proprio interno. Una volta riconosciuto il carattere auto-istruttivo della discorsività filosofica stessa, il suo non dipendere più, di contro a quel che diceva Canguilhem, «da una materia estranea» (Il normale e il patologico, 1943), questo carattere si ritrova perciò automaticamente in ogni altra attività, per quanto poca formalizzata e poco permeata di riflessività possa apparire di primo acchito. È per questo motivo che l’inizio (la constatazione della rottura tra concezione scientifica e rappresentazione) e la fine (la reduplicazione delle scienze nello specchio della filosofia) del percorso proposto nel libro possono così giustificarsi a vicenda e persino quella prassi che sembrava eccedere sempre e comunque il discorso si rivela come una forma, non la sola, del sapere. Assunta infatti la non-chiarezza originaria dell’esperienza a impulso strutturale della sua stessa concettualizzazione-chiarificazione, essa diventa una sorta di nodo da sciogliere ogni volta di nuovo nella costruzione dei diversi saperi concernenti il reale (fisico, biologico, sociale), come nella riorganizzazione epistemologica degli stessi. In breve, l’errore diventa il pivot dell’impresa teorica, quale che sia poi la sua forma determinata. Ne viene fuori così qualcosa come un’epistemologia della liberazione che, riconoscendo il procedere sempre problematico dei saperi scientifici (strutturalmente plurali), apre altresì a una riconferma della funzione filosofica, come apripista critico delle mutazioni concettuali dei primi. Un’epistemologia che procede registrando volta a volta il modo in cui il sapere si affranca infine soltanto da se stesso.

L’autonomia del pensiero – un sapere per forza di cose trans-individuale e più-che-personale – si estrapola insomma dal proprio seno, vincendo una resistenza che non è diversa dal suo stesso procedere in avanti. Certo, «non sussiste un’unica episteme, […] l’esercizio della scienza non è solo la continua creazione di concetti, ma anche di nuove modalità di concettualizzazione e di sempre nuovi campi epistemici» e bisogna quindi parlare non della «vita del concetto, bensì [del]la vita dei concetti» (p. 286). Ma, appunto, si tratta pur sempre di una vita – una vita la cui unità è soltanto quella della propria pluralità, in nulla distinta dal suo moltiplicarsi e differenziarsi. Che si faccia filosofia o si lavori al palinsesto della scienza a venire, il risultato, dunque, non cambia: si partecipa di un unico movimento – il movimento del sapere, che esiste sempre in una forma sdoppiata, riflessa in se stessa, e, al limite, in una pluralità di forme, ivi compresa quella forma che mira alla loro ricomposizione: la filosofia, appunto. Una ricomposizione per forza di cose sempre incoativa, mai definitiva, ma non per questo meno caratterizzata da riflessività, sistematicità e progressività: vale a dire, da un carattere autenticamente scientifico, anche se non sempre verificabile all’interno delle singole proposte filosofiche, ma soltanto, semmai, sul piano meta-filosofico della transizione tra diverse filosofie (inventariate e passate al vaglio nel libro). E questo, si direbbe, persino a prescindere da quello che i singoli filosofi dichiarano apertamente: c’è insomma un’azione epistemologica, malgrado tutto, persino in quelle filosofie che non si propongono apertis verbis un fine epistemologico. Filosofare equivale sempre ad innestarsi in un determinato campo del sapere, per compiere sui suoi contenuti una serie di operazioni che ne riattivano le potenzialità dinamiche e che ne risvegliano così la capacità di procedere oltre il già dato delle acquisizioni conoscitive sedimentate. È in questa precisa accezione che, già a partire da Marx, il trascendentale – nome della filosofia in quanto attività separata dalla prassi – subisce un procedimento di storicizzazione e, dunque, di empiricizzazione che ne problematizza la legittimità. Il cambiamento, a questo punto, investe le stesse forme della riflessione filosofica, non stabilendone una volta per tutte il tipo ideale (l’epistemologia), e conservando però una posizione di preminenza alla consapevolezza, questa sì epistemologica, della loro insuperabile pluralità: quella di un sapere che procede diffrangendosi e riunificandosi incessantemente, secondo una pulsazione ritmica immanente, al contempo pratica e teorica, scientifica e filosofica, empirica e trascendentale, perché muove dalla corrispondenza mai totale di prassi e teoria, di fatto e concetto, di detto e dire (di enunciato ed enunciazione: p. 287).

Assunta infatti da Cesaroni a paradigma dell’unico piano epistemologico-epistemico, concettuale-categoriale, in cui consiste il progresso della scienza-filosofia, la riflessione della riflessione emerge quale cellula elementare al cui livello si sviluppa tutta la vitalità esuberante del sapere, in quanto esso tende per sua intima natura a superarsi, ricorrendo sempre alla mediazione di errori e definendo così un intreccio sempre più stretto, sebbene mai completo, tra discorsività scientifica e discorsività filosofica. Questo andirivieni tra scienza e filosofia, che fa sì che talvolta la filosofia avanzi ricalcolando il contenuto di un sapere scientifico e talvolta la scienza si istruisca innovativamente attraverso una rilettura di una precedente lettura filosofica, è appunto il processo di autoistruzione del pensiero, sempre, comunque e ovunque. Un processo che, analogo e anzi isomorfo a quello del politico, quando esso assume una forma prettamente rivoluzionaria, è insomma inseparabile da un contributo non semplicemente “discorsivo”, ponendosi in via di principio al di là di ogni tentativo di farne esclusivamente il territorio di auto-riproduzione del dominio (di una parte sul tutto) e stornando così l’estrazione di valore di cui il dominio è il vettore. Un politico che si sutura non alla vita concettualizzata ma alla vita che si concettualizza e che non si limita ad autoregolarsi (precariamente), ma produce di continuo realtà non ancora regolate e regole non ancora regolanti, concetti senza oggetti e oggetti non concettualizzati, i quali si rincorrono a vicenda, senza raggiungersi mai una volta per tutte. Un’epistemologia della liberazione fondata sulla riflessività è allora sempre congiunta all’apporto continuo, e sempre rinnovato, del non meramente conoscitivo e, invero, dell’empiria del preriflessivo o dell’irriflesso in cui consiste, semplicemente, l’azione, collettiva e compartecipata dell’essere-in-comune, anche di quello “teorico” degli scienziati e dei filosofi. Le scienze (fisica, biologica, politica) sarebbero per la filosofia una trascendenza motrice, e viceversa, la filosofia – epistemologica e meta-epistemologica – lo sarebbe per la scienza, mentre l’esperienza prescientifica e prefilosofica lo è per entrambe. Le dicotomie del discorso filosofico – immanenza vstrascendenza su tutte – convoglierebbero perciò nell’operare concreto, e sempre problematico, delle moltitudini, umane e non. Come fa notare Cesaroni in chiusura: «bisogna riconoscere che il condurci nelle nostre vite, con tutto ciò che le riempie e che dà loro colore, l’affastellarsi di ciò che possiamo chiamare le nostre gioie e i nostri dolori, non potrà che risultare astratto. […] Ma questa astrattezza non è nulla di negativo: nomina semplicemente il fatto che, in ogni esperienza, c’è sempre qualcosa che manca, qualcosa che in fondo non torna e che spinge all’interrogazione, aprendo la strada verso il concreto, cioè verso il concetto» (pp. 286-87).

La teoria ha bisogno della prassi per riconfermarsi ogni volta come teoria – come teorizzazione in atto – e dare il via a sua volta a una o più nuove prassi. Il concetto non è il caput mortuum dell’effetto, ma la sua trasformazione, e, quindi, il dissodamento del terreno opportuno per una sua imprevedibile riconfigurazione, necessariamente a un livello di comprensione ulteriore da quello precedente. Sapere in senso proprio, o “pensare” come forma del “sapere”, non vuol dire quindi contemplare: sapere è operare, mettendo a distanza (da se stesse) le operazioni, epistemiche e pratiche, affinché si riaccenda il fuoco della loro irriducibile innovazione.