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Phoebe Waller-Bridge: la solitudine dell’attrazione

Dal teatro alla serialità televisiva, l’attrice e sceneggiatrice londinese ha appassionato il mondo attraverso personaggi di cui è impossibile non innamorarsi, a partire dalla protagonista di “Fleabag”, emblema di una solitudine pronta a farsi carico dei propri desideri, “no matter what it takes”

«I am obsessed with audiences. How to win them, why some things alienate them, how to draw them in and surprise them, what divides them. It’s a theatrical sport for me – and I’m hooked». («Sono ossessionata dal pubblico. Come conquistarlo, come alcune cose lo estranino, come ingaggiarlo o sorprenderlo, che cosa lo divida. Per me è uno sport da palcoscenico – e ne sono esaltata»).

Basterebbero queste righe introduttive alla pubblicazione del testo teatrale di Fleabag, quando l’adattamento tv aveva ormai sedotto tutto il mondo, per capire che Phoebe Waller-Bridge è una genuina e irresistibile trapezista della relazione. Da quando ha fondato a Londra, insieme all’amica e regista Vicky Jones, la compagnia teatrale DryWrite, la commediografa e attrice britannica ha ragionato nel profondo sulle strategie di connessione con gli spettatori, sfidando se stessa – parole sue – a suscitare consapevolmente il loro responso. Non stupisce che agli inizi, in teatro, il suo lavoro si misurasse in curiosi esercizi come «make an audience fall in love with a character in under five minutes», dotando lo stesso pubblico di palloncini gonfiati con l’elio, da lasciar andare quando la scintilla effettivamente scattava.

 

 

Esperimento dopo esperimento, con una prima serie tv all’attivo, Crashing, che qualcosa lasciava già intuire, Waller-Bridge si preparava a farci innamorare di una trentenne senza nome (soltanto il soprannome del titolo, letteralmente “sacco di pulci”), ossessionata dal sesso e dal cattivo gusto, votata al senso di colpa e all’autosabotaggio, ma anche viva e passionale: qualcuno che poteva masturbarsi su Obama, scoreggiare in ascensore, regalare un vibratore alla sorella ossessivo-compulsiva, boicottare la nuova relazione del padre vedovo. E che fin dall’inizio rompeva la quarta parete e ci parlava: non tanto per intrattenerci più da vicino, ma per farci sentire parte di una relazione, un suo riflesso, persino una risorsa contro i fantasmi del fallimento.

Oggi è impossibile sottovalutare l’impatto che Fleabag ha avuto sul suo pubblico, ma se la serie tv – due stagioni di appena dodici episodi complessivi – si è rivelata un instant classic, molto si deve alla capacità della sua autrice di non venire meno all’essenzialità del filtro teatrale di partenza: loquela a profusione, un clamoroso polso della scena, dinamiche di potere fra personaggi risolte in fulminanti schermaglie di sguardi, una sessualità ingombrante ma pressoché lasciata fuori campo, scorci londinesi stilizzati o ridotti a pura forma, una sostanziale reticenza insomma a filtrare sociologicamente il contesto del racconto, tacendo persino ciò che altre riuscitissime serie televisive – pensiamo a Easy – elevavano a elemento chiave: l’intrusività dell’odierna tecnologia e la trasfigurazione virtuale delle nostre vite.

 

 

Eppure Fleabag è stata per molti una serie profondamente contemporanea, e fertile in particolare di intuizioni sulla condizione femminile, con soluzioni al vetriolo capaci di umanizzare la rappresentazione dell’angoscia, specie nei formidabili scambi familiari, o pungolare ogni dogmatismo di ritorno: battute come quella al centro della seconda stagione – «A volte ho paura che non sarei così femminista se avessi avuto delle tette più grandi» – non si limitano a sfogare l’ironia di una donna contro i bolsi adagi dell’emancipazione, ma portano al culmine quella sintesi implacabile di cinismo e rabbia sotto alla quale cova la brace di ogni contraddizione, e che gli equivoci relazionali di tutti i giorni, fatti di competizione e rancore, costantemente esasperano.

Se è vero dunque che «le donne sono nate con il dolore dentro; gli uomini no, devono cercarlo», come afferma l’imprenditrice liberata dalla menopausa nel cameo di Kristin Scott Thomas, è altrettanto intenso il momento in cui Fleabag confessa, davanti al sacerdote di cui si sta innamorando, di volere «qualcuno che mi dica ogni giorno come vivere la mia vita». In questa dialettica tormentata, cos’è l’amore impossibile per un prete se non un piccolo, splendido trattato sulla solitudine che si fa carico del proprio desiderio, anche quando le sue proiezioni sono incollocabili? Con l’idea, per giunta, geniale, che sia proprio il prete (la figura del desiderio) a smascherare la rottura della quarta parete da parte della protagonista («What was that? Where’d you just go?»), a confermarci che quella verbosità lunatica e incessante che Fleabag rivolge al pubblico altro non sia che un rimuginare intorno alla propria ferita, finalmente illuminato dalla “grazia” di una potenziale trasformazione. Per arrivare a una malinconica presa di distanza nei confronti dell’audience che le si era cucito addosso e ora viene congedato, potremmo dire liberato, perché la solitudine, forse, non fa più paura.

 

 

Può far sorridere, ma i personaggi di Phoebe Waller-Bridge sono tutte figure al centro di una sostanziale antropotecnica intorno al tema del desiderio, una sorta di esercizio quotidiano dalle conseguenze sempre più nette o pericolose. Basti pensare alla Eve Polastri protagonista della serie Killing Eve, con cui Waller-Bridge ha portato sullo schermo il ciclo di novelle Villanelle di Luke Jennings: la storia di un’annoiata funzionaria dell’MI-5 che inizia a dare la caccia a un’allucinata sicaria sociopatica e presto realizza, ricambiata, di essere abitata da una vera e propria ossessione, tra eros e thanatos. Anche nei codici del genere – un’efferata spy-story intinta di umorismo – Waller-Bridge eleva la “tentazione di esistere” delle sue protagoniste femminili a destino quasi tragico di cui dover rispondere coram populo, intrecciando acrobaticamente la provocazione morale al bisogno di tracciare percorsi di sopravvivenza alla norma. Fleabag, Eve, Villanelle e chissà quali altri prossimi personaggi, indiscutibili mind builder, sono accomunati dall’eccentricità della loro azione, tanto più impattante agli occhi del pubblico quanto più ascetico è il loro distaccarsi da un orizzonte globale emotivamente immunizzato.

Come scriveva Barthes a proposito della parola nel discorso amoroso, «io non posso impedirmi di pensare, di parlare; e non c’è nessun regista che può interrompere il cinema interiore che vado filmando a me stesso»: in questa volubile galleria di segni che girano “a ruota libera”, sconquassando il dato ordinario e la consuetudine, Waller-Bridge sembra esaltare l’eresia di chi tenta di dare a se stesso una forma propria, qualunque sia il prezzo da pagare nel rapporto trasparente tra libertà e verità. Lo fa attingendo alla propria franca fragilità, nel meccanismo suo distintivo (e perversamente performativo) contro il culto della fitness consumistica, del lifestyle spettacolarizzato, dell’egotismo autoimprenditoriale contemporaneo: gli stessi fantasmi con cui tre recenti Emmy Awards, il sodalizio con Amazon e le porte di Hollywood ormai spalancate le impongono oggi di fare i conti. Una nuova serie, Run, è già in cantiere e siamo certi che Phoebe-Waller Bridge avrà pensato anche stavolta a come conquistare il suo pubblico, riconquistando nuovamente se stessa.