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OPINIONI

Palestina e Israele: pensieri laterali

Tentiamo di riflettere con respiro più lungo, pur nell’angoscia e nella concitazione di una situazione che evolve con imprevedibile rapidità, soprattutto sottraendoci al ricatto del “con chi stai” e del “chi condanni in via prioritaria”. Insomma alla logica mediatica occidentale, ormai minoritaria nel mondo

La mia generazione, che è stata sconfitta ed è via di estinzione, ha avuto però una fortuna: di avere avuto buoni gruppi rock da ascoltare e, sul piano internazionale, buone cause per cui battersi. Fidel e il Che a Cuba, Ali la Pointe e Ben Bella in Algeria, zio Ho e Giap in Vietnam, Mao Zedong e Zhou Enlai in Cina, Biko e Mandela in Sud Africa, Zuaiter e Arafat per i Palestinesi, Fred Hampton e Malcolm X negli States. Certo, non è che non scorresse anche sangue innocente e che tutto funzionasse senza sbavature, la rivoluzione non è un pranzo di gala e nelle rivoluzioni coloniali in particolare esplodevano secoli di oppressione dei corpi e delle menti, ma tutto stava dentro progetti universali di liberazione e se ne teneva un bilancio razionale e non cieco al dolore. La battaglia di Algeri con i suoi attentati l’abbiamo vista tutti. Per questo, a dirla in modo sommario e parafrasando a rovescio una cinica frase di Roosevelt, quelli di Hamas non sono “i nostri figli di puttana”.

Per altro verso, c’è stata una metamorfosi oggettiva anche nei protagonisti della rivoluzione coloniale, il passaggio da mujāhid a shahīd, da combattente per una causa, mondana o religiosa, a testimone-martire di una fede. Il fallimento del socialismo arabo, la degenerazione del baathismo e l’impasse di al-Fatah hanno aperto la strada al terrorismo sacrificale.

Tuttavia, come in ogni congiuntura storica, c’è una contraddizione principale e un aspetto principale della contraddizione. La contraddizione principale oggi in Palestina passa fra i colonizzatori occupanti e i colonizzati occupati e l’aspetto principale della contraddizione non è la crudeltà dei terroristi verso i civili israeliani, ma la sistematica prevaricazione dei coloni armati e delle autorità israeliane esercitate sui corpi, la terra e gli olivi dei palestinesi.

Il muro a Bil’in. Foto di Pasqule Liguori

Non vogliamo mettere sulla bilancia i bambini decapitati nei kibbutz e quelli ridotti in poltiglia dai bombardamenti a Gaza – una contabilità oscena che vuole assolvere l’una o l‘altra parte – bensì registrare il fatto che la causa della violenza e dell’odio reciproco sta in decenni di occupazione illegale e di apartheid, opera di tutti i precedenti governi israeliani e che la destra estrema su cui si appoggia Netanyahu per sfuggire a una condanna per concussione ha soltanto esasperato e avvolto di un’aura pseudo-messianica. E che quindi per sbarazzarci di tutti i mostri – il ladro Bibi, gli assassini in divisa, gli esecutori magari poco convinti delle follie suprematiste di Ben-Gvir e Smotrich, i fanatici del terrore jihadista contro gli Ebrei in quanto tali – occorre “soltanto” invertire il processo di spossessamento che ha umiliato e frammentato Gerusalemme e la Cisgiordania, prorogando all’infinito gli effetti della Nakba del 1948. Non basta neppure arrestare l’evacuazione forzata di due milioni di Gazawi dal capoluogo e dalla parte nord della striscia Gaza per concentrarli in un gigantesco campo profughi di tende e baracche su mezza Striscia, a ridosso del valico di Rafah (chiuso) con l’Egitto.

Anche se tutto fosse congelato al momento attuale – cioè al massacro di decine di migliaia di abitanti e alla distruzione dell’abitato e degli ospedali di Gaza, in un territorio trasformato da prigione a cielo aperto in fossa comune – resterebbe inalterata la situazione di occupazione e odio reciproco, ovvero di oppressione per tutti i Palestinesi e di insicurezza per tutti gli Israeliani.

Il 7 ottobre e le stragi di oggi condensano uno sterminio distribuito in modo strisciante in settanta anni di occupazione e in specie nell’ultimo trentennio. E questo ormai la maggioranza degli Israeliani, non solo i lettori di “Haaretz”, lo sanno benissimo. Non sono così stupidi e bugiardi come la grande maggioranza dei giornalisti e opinionisti italiani che soffiano sul fuoco seduti davanti al loro computer o comodamente sdraiati nei talk show – iene con tastiera o in video – verrebbe da aggiornare una vecchia definizione. E lo sanno anche gli utilizzatori finali del terrore, in campo atlantico e mediorientale. Il problema è come uscirne senza precipitare verso una terza guerra mondiale.

I più volenterosi (e/o i più ipocriti) rilanciano con scarsa convinzione la soluzione dei due stati, aggiungendo vaghi accenni alle risoluzioni dell’Onu, ai confini del 1967 e a Gerusalemme est come capitale e comunque recriminando sul mancato riconoscimento della legittimità di Israele da parte delle organizzazioni palestinesi e (sempre meno) dei paesi arabi circonvicini. È una soluzione plausibile? E quali problemi resterebbero aperti? Apriamo qui una parentesi facendo un excursus “culturale”.

Nel Medio Oriente si sono sviluppate due grandi culture, ebraica e islamica, su una base etnica (per la componente arabo-islamica), linguistica e religiosa comune, che ha contribuito in grado inestimabile alla cosiddetta civiltà occidentale, fornendole, fra l’altro, due strumenti concettuali potenti (e nefasti): l’anima e il Dio unico, personale e trascendente. Il fattore religioso è stato in entrambi i casi un principio unitario decisivo, per quanto non siano mancati lunghi e fecondi periodi di laicizzazione. Una caratteristica specifica (e parallela) è la compenetrazione di legge religiosa e legge civile, per cui l’organizzazione del potere e la legislazione rinviano direttamente alla Bibbia (precetti della Halachah e commenti) o al Corano (il Fiqh, secondo le varie scuole interpretative) e la cittadinanza coincide di fatto con l’appartenenza confessionale.

Malgrado i vari compromessi con la legislazione positiva di matrice occidentale, il diritto israeliano, quello dei paesi sunniti e la velāyat-e faqih sciita instaurata in Iran dal 1979 presentano questo nucleo di indistinzione. La cosa passa spesso inosservata e deflagra solo in alcuni casi particolari, ma resta un sottinteso inquietante in ogni momento. Deflagra, per esempio, quando il possesso della terra, il controllo del territorio è oggetto di uno scontro che assume subito carattere di sacralità, come se il Dio-persona (geloso e vendicativo) delle due religioni fosse chiamato in causa. Allora il conflitto verte su un’area geografica su cui vale un diritto divino e non solo tradizionale o per interesse economico (la sventurata Palestina, Eretz Israel) o un suo minuscolo lembo, il Monte del Tempio, sorretto dal Muro del Pianto e coronato dalla Spianata delle moschee. Qui trattative, concessioni reciproche e coesistenza sono sempre minacciate dalla spada di Jahvè o di Allah e dalle armi più aggiornate dei loro fanatici seguaci. Chiusa parentesi.

Checkpoint verso Hebron. Foto di Pasqule Liguori

Per questa ragione la soluzione, sempre meno convintamente proposta, della prospettiva “due popoli, due stati” non si urta soltanto con i dati storici contingenti che l’hanno resa impraticabile – il fallimento degli accordi di Oslo, l’accaparramento delle fonti idriche e delle terre più fertili, il processo accelerato di colonizzazione della Cisgiordania, che ha insediato in quel territorio villaggi e grandi agglomerati urbani israeliani fortificati e collegati da una rete di strade sopraelevate inaccessibili ai palestinesi – ma contraddice all’inevitabile deriva confessionale di due stati separati che si consoliderebbero nell’odio reciproco e nel compattamento confessionale interno, ognuno producendo i propri fondamentalismi, gemelli fascisti.

Questa polarizzazione non è riducibile e imputabile soltanto a un fenomeno religioso, ma anche alla sua secolarizzazione perversa. Al di là delle vicende coloniali del Medio Oriente, del gioco ormai irreversibile dei rapporti di forza e delle tempeste che hanno sconvolto la geografia antropica dell’Asia minore (pensiamo soltanto, oltre al reinsediamento ebraico, all’espulsione dei Greci e al genocidio degli Armeni e degli Assiri nel primo ventennio dello scorso secolo), al di là della scelta opportunistica di scaricare in Asia un problema creato e sanguinosamente gestito in Europa,  Israele ha edificato la propria legittimità sul lutto della Shoah, sulla conversione del dolore e della domanda di sicurezza in violenza (G. Winant, On Mourning and Statehood: A Response to Joshua Leifer), mentre i Palestinesi, rinserrati nei campi profughi e nel bantustan di Ramallah, hanno conferito senso alla loro resistenza nel segno delle sofferenze vittimarie e del ritorno degli espulsi della Nakba del 1948 e successivi trasferimenti forzosi (ultimo e gigantesco quello in atto a Gaza).

Non che il problema della sicurezza di Israele e quello del ritorno dei Palestinesi nel territorio originale non costituiscano problemi reali, ma è la loro deriva metafisica mortuaria e gli effetti psicologici di massa del trauma che ostacolano ogni soluzione. Tali tendenze manifestano sia tra i super-ortodossi delle due religioni che nei rispettivi ambienti laici, perché il fondamentalismo originario si è stemperato e intrecciato con le vicende storiche recenti e si è insediato anche in perfetti atei. No al culto della morte – e lo dico da fedele discepolo di Baruch.

È a questo livello che, anche dopo la liquidazione dell’appropriazione coloniale delle terre che oggi costituisce la contraddizione principale, anche dopo un cambiamento di rotta della politica israeliana (e siamo ben lontani da tutto ciò) la natura di Hamas e la sua attuale egemonia sui movimenti palestinesi potrebbe diventare in tempi ravvicinati l’aspetto principale della contraddizione per un processo di pace e ricomposizione in Palestina.

Il suprematismo ebraico e l’integralismo simmetrico di Hamas, che ha sostituito l’anticolonialismo rivoluzionario laico originario dell’Olp, creano una situazione paralizzante, che fa molto comodo sia all’imperialismo Usa che alle monarchie conservatrici dell’area, e proprio per questo l’unica, difficilissima, al limite improbabile prospettiva di salvezza e coesistenza è quella di uno Stato unico per Israeliani e Palestinesi, che rinunci, per un verso, allo “Stato degli Ebrei”, per l‘altro,  alla cancellazione di Israele.

Il bordo urbano e illegale di Gerusalemme che avanza. Foto di Pasquale Liguori

Uno Stato che non riconosca la legittimità dell’altro, sia considerandolo un male passeggero, sia trattando l’altro come subordinato (gli Arabi rimasti all’interno di Israele) o semi-colonizzato (gli Arabi di Cisgiordania e di Gaza), è privo di senso. Da un lato la demografia lascia prevedere una crescita superiore della componente araba e dunque uno Stato riservato agli Ebrei e che ammetta soltanto il loro ritorno in patria sarebbe costretto a negare un regime di eguaglianza politica e di potere alla maggioranza elettorale, dall’altro l’espulsione degli Ebrei dalla Palestina è materialmente impossibile in quanto si tratta di una potenza nucleare e non solo industriale o in termini di armamenti convenzionali. Non stiamo parlando di quanto sia giusto e ingiusto, ma di impossibilità materiale in termini di dati di fatto ed evoluzione prevedibile.

La soluzione dell’unico Stato – dal fiume al mare, come sostiene Ilan Pappé – è tanto inevitabile quanto al momento in apparenza impossibile. Come se ne esce, una volta che pure si fossero bloccati gli attuali processi coloniali e genocidari, che rischiano di innestare un conflitto più che regionale e magari una terza guerra mondiale? Forse non ha senso parlarne ora, ma un cenno dovremmo pur farlo.

Di regola i conflitti coloniali e affini si sono risolti con l’espulsione regolata o violenta dei colonizzatori, con danni e ingiustizie – è il caso dell’indipendenza nei paesi del Maghreb e in Libia, dove c’era una consistente presenza di settler europei e di minoranze ebraiche di remoto insediamento. In risposta alla nascita di Israele ci sono stati esodi più o meno forzati di Ebrei di altrettanto e perfino più lungo insediamento da tutto il Medio Oriente.  Abbiamo un unico esempio di soppressione dell’apartheid senza la cacciata della minoranza che se ne serviva per eternizzare l’oppressione. In Sudafrica l’Anc si è astenuta molto precocemente dall’uso della violenza contro i civili inglesi e afrikaner ed è riuscito a ottenere un regime di eguaglianza elettorale e civile dopo lunghe e sanguinoso lotte. Ne è nato un regime con molti problemi e tutt’altro che edenico, dove la distribuzione della ricchezza e della povertà è molto ineguale e uno strato di neri ricchi si è aggiunto al ceto capitalistico e agrario bianco, sotto un governo piuttosto corrotto. Non è un modello se non – e per questo ci interessa – per il fatto che per ora ha evitato di sostituire all’apartheid l’espulsione, ovviamente rovinosa, degli antichi dominatori coloniali.  Per quanto imperfetta anche la riparazione extra-giudiziaria delle antiche ingiustizie e dei crimini ha funzionato in una certa misura.

Utopia? Nella terra che ha visto nascere il messianismo sarebbe comunque meglio della catastrofe permanente, ovvero della prosecuzione dello stato di cose presente. Servirebbe un Mandela pure fra il Giordano e il Mediterraneo. In passato si era ipotizzato che Marwan Barghuthi potesse rivestire quel ruolo, ma ora è sepolto con cinque ergastoli nelle carceri israeliane e non è certo il primo di cui Hamas chiederà lo scambio.

Immagine di copertina Villaggio assediato At-Twani, di Pasquale Liguori. Tutte le foto nell’articolo dello stesso autore.

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