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Pasolini e la proletarizzazione del Decameron

La versione dell’opera boccaccesca girata dall’autore di “Petrolio” non è raccontato dal punto di vista dei potenti che provano ad arginare il contagio, ma mette al centro della narrazione mezzadri, giardinieri, artisti e loro assistenti

Prima delle rivolte, qualsiasi gesto, fatto o atto aveva la dicitura “in tempi di pandemia” appiccicato sopra: leggere, fare politica, andare a una mostra d’arte, cucinare… in tempi di pandemia. Prima delle, dapprima riottose, rivolte contro il razzismo sistemico della polizia organizzate dalla comunità nere, da formazioni politiche autonome, da un movimento giovanile che ora rischia di essere cooptato dalla macchina liberale del no-profit, la pandemia di Covid-19 era già vista da molti non solo come il prodotto di un virus, ma di un sistema capitalista razzializzato che privatizza la cura e attua politiche di controllo sui gruppi socialmente più vulnerabili. Prima che le autorità newyorkesi mobilizzassero a maggio oltre mille agenti dell’ordine preposti alla rimozione delle persone senza fissa dimora dalla metropolitana (così da poterla sanificare, pare), oltre cinquecento agenti erano già stati ingaggiati a Dicembre per inasprire i controlli contro l’evasione del costo del biglietto. Prima che il sindaco Bill de Blasio emanasse una proposta di bilancio con imponenti tagli alle infrastrutture sociali, ma lasciando intatto il finanziamento di circa sei miliardi di dollari alla polizia, New York stava già provando a riprendersi da decenni di politiche di austerity.

 

La città ha perso oltre 20.000 posti letto in appena venti anni, uno smantellamento storico di quello che un tempo era un sistema di sanità pubblica piuttosto ampio. In poche parole, prima dell’arrivo di questa “nuova” epidemia, erano già molte quelle in atto.

 

Prima delle rivolte, l’isolamento sociale era già un dato scontato e diffuso in quasi tutto il mondo e si può dire che sia ancora così, mentre aumentano i casi negli Stati Uniti e nel resto del mondo. L’impulso biopolitico imposto è quello di cavalcare la tempesta: dichiarazione dello stato di eccezione. Comunità autonome formate (e che continuano a formarsi) attraverso la reclusione collettiva. Mentre nel tentativo di fare profitto su di un pubblico bulimico, un intero corpus di materiale culturale a tema pandemia e suoi correlati è stato prodotto e dissotterrato. Il più illustre esempio è forse Il Decameron, la raccolta di novelle che Boccaccio scrisse tra il 1349 e il 1353. Il libro ha fatto eco nel vissuto di molt*, soprattutto coloro che cercavano di dare senso, in termini storico-letterari, a una crisi sanitaria senza precedenti. La premessa – un gruppo di giovani aristocratici si isolano in una villa nel mezzo della campagna toscana per scampare alla peste nera, intrattenendosi con il racconto di storie a sfondo erotico e di aneddoti moralizzanti sull’inganno e la furbizia – è in parte utopistica, ma anche condizionata dalle categorie di egemonia ed esclusione. I nobili sono coloro che ci raccontano le storie, ricordandoci di tutti quei privilegi escludenti sui quali si articola la vita ai tempi della pandemia, mentre loro – come la classe media anti-degrado urbano di oggi – si rintanano nel lusso della sicurezza. Quando Pier Paolo Pasolini ha realizzato, circa sei secoli dopo, un libero adattamento di alcune delle novelle de Il Decameron, l’opera di Boccaccio era già diventata parte integrante della costruzione del patrimonio di un’Italia unita, almeno nel nome, nel 1861. Un patrimonio, per buona parte, ad appannaggio esclusivo delle classi più abbienti.

 

Secondo la studiosa Agnès Blandeau, che giustamente definisce quella di Pasolini una “proletarizzazione” dell’originale di Boccaccio, il regista fa del suo adattamento un volgarizzamento (nel senso tardo latino del termine, una traduzione) rendendo le novelle accessibili a tutt*, non solo a un pubblico colto e istruito.

 

Diversamente dal più commerciale Contagion (2011), la storia di questa pandemia (o più correttamente della peste) non è raccontata dal punto di vista dei potenti che provano a contenere il contagio, tanto meno attiva una narrazione di resilienza. Pasolini infatti esautora il racconto di qualsiasi riferimento alla peste e al dispositivo sociale e narrativo cortese impiegato da Boccaccio. Invece di soggiogare l’elite allo schiaffo Buneliano o al disprezzo Godardiano, Pasolini relega questi personaggi sullo sfondo, mettendo al centro della narrazione i mezzadri, i giardinieri, gli artisti e i loro assistenti. «Non troverete i personaggi di Boccaccio», spiega il regista, «perché li ho ridotti a uno schema e poi li ho riempiti con la realtà di Napoli, di un mondo sottoproletario invece di quello borghese». Pasolini era cosciente della connotazione di classe che viaggiava con dialetti regionali: il napoletano stretto dei personaggi del suo film per essere compreso da molti connazionali avrebbe avuto bisogno dei sottotitoli, un gesto che in un certo modo parallelamente richiama l’uso del volgare da parte di Boccaccio.

 

 

Segnato da Ennio Morricone – scomparso circa un mese fa – inimitabile compositore e frequente collaboratore di Pasolini, anche la musica de Il Decameron evoca il sud. Nel primo quadro del film, infatti, un musicista di strada suona il Canto delle Lavandaie del Vomero (una famosa canzone popolare Napoletana) accompagnando la scena in cui Andreuccio da Perugia – interpretato da Ninetto Davoli, attore feticcio e amante di Pasolini – viene incoraggiato da un imbroglione partenopeo a non passeggiare attorno la città di notte poco prima che questo lo getti in una pozza di merda.

 

Cacciato dal Partito Comunista nel 1949, Pasolini ne rimase critico compagno di viaggio per il resto della sua vita, andando alla ricerca di un comunismo che superasse l’analisi marxista-leninista della divisione in classi e che accogliesse altre modalità di pensare il sociale, senza il feticismo delle classi subalterne o l’apologia dell’autoritarismo stalinista.

 

Nonostante fosse più vecchio di almeno una generazione, Pasolini si avvicinò con un certo interesse ai movimenti giovanili ed extraparlamentari del post-68, fu persino redattore di “Lotta Continua”, ma sempre riconoscendo le origini borghesi del movimento e il mancato incontro con le classi subalterne. Per la sua eterodossia politica, la sua omosessualità e il suo sfacciato antielitismo, Pasolini è stato calunniato, minacciato e alla fine ucciso; il suo corpo martoriato e calpestato dal passaggio dell’auto sul suo cadavere – un’esecuzione di ispirazione mafiosa (Giuseppe Pelosi, l’unico sospettato condannato per l’omicidio, ha ritrattato la sua confessione nel 2005). L’agire violenza contro la sua immagine non ha però trovato nella morte dell’autore la sua fine: si pensi soltanto all’ “infame mantra” di un Pasolini che stava con la polizia imposto, trasversalmente agli orientamenti politici, alla lettura di Il Pci ai giovani – l’abusata famosa poesia scritta da Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia a Roma nel 1968.

Nelle sue poesie, nei suoi racconti, nei suoi film e nei suoi scritti politici, l’esaltazione primaria di Pasolini è dedicata alle borgate urbane popolate di immigrati del sud, ai contadini della Sicilia, della Campania e del Friuli depredati dei loro mezzi di sussistenza, lavoratrici e lavoratori del sesso, persone senza fissa dimora nelle periferie dei centri urbani in rapido sviluppo. In uno dei suoi ultimi articoli apparsi sul Corriere della Sera, Pasolini rimpiange la scomparsa delle lucciole dalle campagne italiane per via dell’industrializzazione, forse evocando in modo sottile, proprio l’immagine delle lucciole di marciapiede, le prostitute.

Per sovraimporre il piacere al lavoro e celebrare quella che Pasolini definisce come una “ontologia della realtà, il cui simbolo nudo è il sesso,” ne Il Decameron la rappresentazione carnevalesca del Trecento mette in primo piano il produttivismo e l’estetica della macchina che caratterizza la rappresentazione marxista e modernista di una agency proletaria. Uno dei personaggi, Ciappelletto – interpretato da Franco Citti, che nel debutto alla regia di Pasolini, Accattone (1961), interpreta il ruolo dell’eponimo magnaccia – mantiene il ruolo del martire imbroglione pensato da Boccaccio, ma il suo peccato mortale non è l’indecenza, quanto più la ricerca di profitto. Secondo Peter Bondanella e Federico Pacchioni, la sua beatificazione “diventa una metafora degli atteggiamenti predatori della chiesa e della borghesia”. In un altro quadro, il bel Masetto di Lamporecchio si finge muto per sedurre le monache di un convento e diventa così oggetto dell’espressione collettiva del desiderio senza vergogna delle sorelle.

 

Una delle ultime storie delinea invece tragicamente l’intersezione tra repressione sessuale di genere e la risposta della classe egemone: tre fratelli facoltosi uccidono Lorenzo, un lavoratore siciliano impiegato dalla famiglia (nel testo originale viene in realtà da Pisa) come punizione per aver avuto una relazione con la loro sorella Elisabetta, donna di clausura.

 

«Che servi e padroni siano uguali oggi» ridono loro mentre, fuori campo, lo accoltellano. Con l’aiuto della sua governante, Elisabetta riesuma il corpo del suo amante, ne strappa dal corpo la testa e la pianta in un vaso di basilico. Come ha scritto Colin MacCabe per “Criterion”, «Il Decameron ci presenta un corpo che vomita, che scoreggia, che scopa, che è spogliato di tutti quei processi civilizzanti di cui è portatore il Rinascimento. Che poi sono quelli [i corpi] delle borgate romane, delle baracche in cui Pasolini compì la sua sessualità e trovò la morte, come quelli di qualsiasi altra rappresentazione accurata del Medioevo».

Lo scrittore Alberto Moravia una volta disse di Pasolini che era un poeta civile, inteso come un «poeta che vede il Paese natale come non lo vedono né possono vederlo, appunto, i potenti di questo paese». Opportunamente, il regista appare nel film come un allievo di Giotto, arrivato in una piccola città per dipingere un affresco accanto a dozzine di contadini, una presa di posizione precisa: l’arte è e deve rimanere una missione civile. E adesso, mentre sono varie le epidemie che continuano a diffondersi – dalla gentrification al controllo sociale – mentre quella sanitaria non accenna ad arrestarsi, appare ancora più chiara la relazione che c’è tra queste. Dopo decenni di neoliberismo razzializzato che ha reso la soggettivazione politica della classe operaia invisibile alle forze di sinistra e ha permesso alle forze di destra di abusarne, l’arte di Pasolini pensata su e per coloro che una volta ha definito come la «velina incrostazione / del nostro mondo sul nudo universo» (come dice in Chiusa la festa) ci mostra come l’oppressione di classe sia solo una tra le tante epidemie, un amalgama di crisi che viene subito messa da parte quando viene proclamato lo stato d’eccezione.

 

Pubblicato originariamente su Artforum online

Traduzione dall’inglese di Giulia Sbaffi per DINAMOpress