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MONDO

Palestina tra autodeterminazione, apartheid e diritti umani: intervista a Francesca Albanese

La relatrice Speciale alle Nazioni Unite dallo scorso maggio, esperta indipendente incaricata dall’ONU del delicato mandato sul rispetto dei diritti umani in Palestina, ha pubblicato lo scorso 27 ottobre il “Rapporto sulla situazione dei diritti umani nei Territori Occupati dal 1967”

Ripubblichiamo oggi l’intervista a Francesca Albanese proprio quando la relatrice ONU per i diritti umani in Palestina, assieme alla Dott.ssa Tina Marinari, relatrice di Amnesty International, si trova pesantemente sotto attacco a livello mediatico a causa della pubblica denuncia delle politiche colonialiste e di apartheid praticate nei confronti del popolo palestinese. Qui l’appello dell’associazione Per Non Dimenticare che denuncia la situazione

De-palestinizzazione del territorio palestinese occupato. Consultando fonti per l’avvio del progetto fotografico “Distruzione, costruzione e ritorno(?)” dedicato alla condizione e alla struttura abitativa in Palestina, mi sono soffermato su questo concetto, su cosa si fa per scongiurarlo: “de-palestinizzazione”.

È espresso nel Rapporto sulla situazione dei diritti umani nei Territori Occupati dal 1967, presentato da Francesca Albanese all’Assemblea Generale dell’ONU lo scorso 27 ottobre. Relatrice Speciale alle Nazioni Unite dallo scorso maggio, la dottoressa Albanese è l’esperta indipendente incaricata dall’ONU del delicato mandato sul rispetto dei diritti umani in Palestina nel quadro delle normative internazionali.

Il Rapporto denuncia l’impressionante quadro di illegalità in cui si attua la progressiva espansione territoriale israeliana con la confisca di terre ai palestinesi e l’istituzione di proprie colonie in Cisgiordania in un contesto di dominio militare, violento e doloroso, che annulla il diritto del popolo palestinese alla propria autodeterminazione.

Di fronte alle palesi violazioni e ai crimini commessi da Israele, la gran parte della comunità internazionale occidentale appare colpevolmente inerte. Un’inerzia che si traduce in politiche colluse con la materializzazione di un regime di vera e propria apartheid ai danni dei palestinesi. Il documento ha il merito di sollecitare una sterzata vigorosa, in realtà un’inversione di marcia, finalizzata al raggiungimento delle condizioni atte all’autodeterminazione palestinese.

Come atteso, il Rapporto presentato alle Nazioni Unite stimola un intenso dibattito. Non l’ennesimo, però. In esso, è infatti sottolineata la comprovata inutilità dei vari approcci sinora perseguiti per una definizione degli assetti geopolitici in Palestina. Un nuovo atteggiamento mentale che, prendendo avvio dallo smantellamento dell’apparato coloniale messo in atto da Israele, definisca la piattaforma di riferimento teorico e pratico a supporto dell’autodeterminazione dei palestinesi in un quadro di pace e giustizia nel Territorio Palestinese Occupato.

Il concorso della convergenza politica internazionale è, inutile a dirsi, indispensabile per avviare un simile percorso. Uno stimolo a tale convergenza dipende anche dal livello di ri-sensibilizzazione sul tema con un’opinione pubblica occidentale che torni a essere più consapevole e informata su ciò che accade nel Territorio Palestinese.

La Relatrice Speciale è costantemente impegnata a diffondere i contenuti delle sue ricerche. Francesca Albanese ha una vasta esperienza di ricerca e insegnamento nell’ambito degli studi sul diritto internazionale e umanitario ed è autrice di volumi tra cui Palestinian Refugees in International Law (Oxford University Press, 2020). Ha volentieri aderito alla mia richiesta di un colloquio sugli indirizzi che emergono dal suo Rapporto all’Assemblea Generale ONU e su alcuni elementi di attualità in Palestina.

Il video dell’audizione della d.ssa Albanese all’Assemblea Generale ONU:

L’autodeterminazione del popolo palestinese è spesso affrontata nei media occidentali con indeterminatezza informativa per qualità e quantità. I contenuti del Rapporto che lei ha prodotto rischiano la zona d’ombra se non vi fosse anche la sua personale e tenace disponibilità a promuoverli. È d’accordo sul fatto che vi siano gap comunicativi, ostacoli interni alle stesse Nazioni Unite che impediscono a contenuti così importanti, riguardanti illegalità e crimini quotidianamente commessi nei Territori Occupati, di raggiungere adeguatamente l’opinione pubblica?


Non possiamo parlare di “gap”. Almeno, non nel senso di un gap comunicativo. Vi è un misto di autocensura, non necessariamente consapevole e volontaria ma figlia di un’interpretazione dell’operatività dei mandati che le varie Agenzie ONU adottano e che portano poi a definire dei limiti molto contenuti entro cui agire e di una sorta di ostracismo che viene fomentato dalla paura di incorrere nell’accusa di antisemitismo. Ecco, vi sono questi due “poli energetici” che in qualche modo si oppongono o resistono alla neutralità del messaggio che porto. Insomma, non opero in una situazione di inerzia e si materializzano spesso forze contrarie, molto importanti.

Chi è a capo di un’Agenzia delle Nazioni Unite potrebbe avere paura di sentirsi attaccare, di essere additato come antisemita e poi magari di non poter progredire nella carriera. In genere, va detto, un Relatore Speciale delle Nazioni Unite gode comunque di una maggior libertà operativa. Nel mio caso, rispetto ad altri mi riesce naturale affrontare apertamente e pubblicamente questioni delicate e complesse concernenti la Palestina occupata in virtù di una conoscenza ampia della questione palestinese, soprattutto nei suoi significati e risvolti legali: ciò mi dà una base solida su cui sviluppare il lavoro di Relatrice Speciale. Non mi sento particolarmente intimorita dall’aggressività istituzionale che Israele manifesta anche nei confronti delle Nazioni Unite e che gli Stati occidentali consentono.

Lei, però, non ha potuto visitare i Territori Occupati nello svolgimento del suo mandato. Questo quanto ostacola il suo lavoro sia come giurista che come analista diplomatica?

Ho vissuto in Palestina diversi anni e anche dopo essermene allontanata per ragioni di lavoro e ricerca ho continuato a farvi spesso ritorno. Non più a Gaza, purtroppo, solo in Cisgiordania inclusa Gerusalemme. Ho una buona conoscenza del territorio. Nell’ambito del mio mandato, però, non ho ancora avuto la possibilità di recarmi in Palestina, cosa che ho programmato di fare nei prossimi giorni. Di questo intento ho informato le autorità competenti israeliane che non hanno ancora risposto, segno del fatto che il mio ingresso nei Territori non è desiderato. Rispetto a chi mi ha preceduto, però, la pratica di visita non imploderà negli uffici ONU di Ginevra con la mancata risposta del governo israeliano: tenterò ugualmente di accedere al Territorio Occupato.

Se corretto, nel Rapporto che ha da poco pubblicato lei solleva la questione di una sostanziale inefficacia, almeno per come perseguiti, dei vari approcci contro l’occupazione. Vale a dire, l’approccio umanitario, quello politico e infine quello dello sviluppo economico. Sull’infruttuosità di questi approcci, può chiarire il suo punto di vista, alla luce del nuovo mindset di autodeterminazione auspicato?

Sì, innanzitutto il discorso dell’autodeterminazione palestinese così nuovo non è. In Italia, la questione palestinese è da sempre stata intesa come una questione di autodeterminazione. Il popolo palestinese ne ha diritto sin dal 1919.
Per razzismo, antisemitismo, colonialismo e imperialismo europei, la storia è poi precipitata ricadendo tanto sul popolo ebraico che su quello arabo-palestinese con l’evoluzione che sappiamo. Inoltre, dal 1967 a oggi c’è un’occupazione militare in ciò che rimane della Palestina pre-1948 che non divenne Stato d’Israele. È inconcepibile che da allora siano trascorsi ben cinquantacinque anni che per i palestinesi sono stati in larga parte sotto legge marziale. Tuttavia, invece di risolvere la questione, di concentrarsi su come smantellare questo sistema che non ha nessuna ragion d’essere dal punto di vista legale, l’approccio contemporaneo è quello di pensare a come sopperire alle mancanze del sistema, a come far fronte ai bisogni umanitari creati da questo disastroso mostro illegale che è l’occupazione. E lo attua con una campagna di solidarietà e di aiuti in permanenza che io critico perché i palestinesi non hanno bisogno di carità. Il popolo palestinese è un popolo storicamente dotato di grande imprenditorialità. Oltretutto, è proprio vilificante il fatto di dover dipendere dagli aiuti umanitari erogati dalla stessa comunità internazionale che poi rimane silente, totalmente inattiva quando si tratta di risolvere problemi politici schierandosi addirittura a protezione di Israele.

Quindi, che politica sostengono veramente gli Stati europei? Costruiscono strutture che poi Israele sovente demolisce. Tutto ciò accade senza nemmeno pretendere ragioni e domandare un minimo di giustizia o di riparazione per quei danni, continuando invece a pagare le spese dovute all’occupazione israeliana. Ecco, questo appare insensato e non solo dal punto di vista della logica, mi sembra dissennato: si spendono soldi europei per pagare le spese di un’occupazione illegale senza nemmeno produrre in prospettiva alcun bene a favore della popolazione occupata. Così anche l’approccio dello sviluppo economico.

È noto il processo voluto, progettato dall’amministrazione Trump (il cosiddetto piano di pace proposto da Jared Kushner) e che ha anche guadagnato margini di credibilità tra gli Stati arabi parte del processo di normalizzazione; ma in che modo può lo sviluppo economico aiutare un popolo che non ha diritti? Un popolo che assiste all’arresto dei suoi bambini, persino dell’età di 12 anni, portati in catene dinanzi a una corte militare, tenuti in una situazione di detenzione senza neanche un giudizio. E non perché ci debba essere un giudizio di una Corte per legittimare un fenomeno che fondamentalmente, come ho detto, è estremamente arbitrario. Quindi, sì, critico questi approcci perché non hanno nessun senso e critico anche il fatto di continuare a insistere sulla soluzione di due popoli/due Stati.

foto di Anne Paq _ Anata, West Bank, Palestine, 12.10.2022

Su questo ritorneremo più avanti per un approfondimento. Di fronte all’evidenza di una condizione di perpetrata apartheid ai danni del popolo palestinese, quanto si sta rivelando produttiva la denuncia dell’apartheid stessa e che sviluppi si possono immaginare su questo fronte?

Secondo me strategicamente è molto importante il discorso sull’apartheid perché è un discorso che noi occidentali capiamo. Non abbiamo ancora capito che l’apartheid nel Territorio Occupato è una cosa che esiste e non è detto che debba coincidere con quella del Sudafrica per poter qualificarsi in quanto tale.

L’apartheid è un crimine: una Convenzione a riguardo chiarisce tutti gli aspetti dall’intento alla materialità del crimine, lo Statuto di Roma configura poi l’apartheid come crimine contro l’umanità. Quindi, non c’è dubbio che vi sia la fattispecie giuridica di una sua dimensione oggettiva. Ciò che manca è la sua comprensione. Osservo i Paesi occidentali nella loro difficoltà a identificare Israele nel suo commettere il crimine di apartheid. Nel Rapporto, però, proietto in avanti il discorso dello smantellamento dell’apartheid correlato alla rimozione della presenza degli israeliani nel territorio occupato perché non hanno diritto di risiedervi. Certo, va considerato che tra i coloni c’è gente che lì è nata e vive da cinquant’anni, ormai: d’accordo, non andranno attuati sfollamenti forzati, ma deve esservi il riconoscimento di fronte alla legittima volontà palestinese di un proprio Stato, di una legge palestinese, di una giurisdizione palestinese, di una protezione palestinese. Non può sussistere – è inconcepibile – una giurisdizione israeliana in territorio altrui.

Quali sono acclarate violazioni del diritto da parte di Israele?

Nel Rapporto ho articolato la violazione del diritto all’autodeterminazione nella cornice di una vera e propria violazione del diritto a esistere come popolo, nel senso di poter determinare il proprio status giuridico politico, il proprio futuro politico, la gestione delle risorse del proprio territorio e lo sviluppo sociale, economico e culturale. Tutto ciò è proibito dallo stato israeliano attraverso un’occupazione che è fondamentalmente finalizzata ad acquisire quanto più territorio possibile sottratto ai palestinesi e privato della loro presenza. Vi è evidenza di una folta serie di crimini: potenziali crimini di guerra, crimini contro l’umanità nel trasferimento forzato di popolazione, arresti arbitrari individuali e di massa, detenzioni arbitrarie con violazioni dei diritti civili e politici, persecuzione delle organizzazioni non governative, repressione di qualsiasi libertà, dall’informazione, all’espressione libertà religiosa, libertà di godimento del proprio spazio culturale, diritto alla privacy. Non c’è un diritto che non sia violato, c’è ben poco che venga rispettato dal punto di vista dei diritti umani.

Se si vuole, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è una cartina al tornasole di tutto ciò che viene costantemente negato: non c’è niente di quella Dichiarazione che venga rispettato per i palestinesi sotto occupazione e il blocco di Gaza è esso stesso un crimine di guerra perché è una punizione collettiva, quindi proibita. La situazione nel Territorio Occupato non è sostenibile, è gravissima. È medievale la condizione per stile di vita, assenza di benessere… Forse, con le eccezioni di alcune situazioni delimitate come a Ramallah e a Gaza City, la maggior parte della popolazione vive in una condizione di depressione, di progressivo depauperamento.

E in questo si configura il concetto importante di “colonialismo di insediamento” che è proprio quello poi specificamente e ferocemente attuato ai danni del territorio e del popolo palestinese. Avevo preso un appunto da un volume con una frase di Tolstoj, «tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»: sull’autodeterminazione, quanto grava la frammentazione del popolo palestinese suddiviso in palestinesi in esilio, palestinesi con cittadinanza israeliana e quelli che invece risiedono nei Territori Occupati? La moltiplicazione di condizioni quanto influisce sul diritto all’autodeterminazione?

Il diritto all’autodeterminazione è il diritto collettivo per eccellenza, è il diritto del popolo. Ora il popolo palestinese è frammentato e questo è un fatto. Però, non significa che il diritto perda valore. Significa invece che ha diverse manifestazioni messe in opera, cioè esecuzioni diverse a seconda del gruppo perché, ripeto, l’autodeterminazione non porta necessariamente alla definizione di una forma di Stato, ovvero di uno o due Stati. A mio modo di vedere, il diritto e il consenso internazionali sono tali per cui su quel 22% occupato che rimane del territorio palestinese, i palestinesi hanno diritto di decidere cosa debba essere quello Stato. Quindi, possibilmente, diritto all’autodeterminazione che si esprime nella forma di indipendenza politica da qualsiasi ingerenza, da qualsiasi controllo e dominio straniero.

Per i palestinesi con cittadinanza israeliana, invece, la questione è un’altra: l’autodeterminazione per loro significa che vanno riconosciuti come una minoranza che ha quindi delle prerogative speciali relativamente alla propria sfera politica economica, sociale e culturale. Essi non solo non sono riconosciuti come tali, costituendo una minoranza scomoda, ma sono anche fortemente discriminati. Devo chiarire però che non affronto questo tema nel Rapporto perché è fuori dalle competenze del mio mandato, che si concentra solo sulla situazione del Territorio Palestinese Occupato dal 1967: Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est.

Cosa significa autodeterminazione per i palestinesi che sono parte della diaspora, per i rifugiati?

Significa innanzitutto – e in qualche modo per loro questo diritto è inscindibile dal diritto al ritorno – che, per certi versi, è diritto alla restituzione. Però, nel diritto internazionale non v’è un obbligo di Israele a riconoscere la nazionalità. Dovrebbe, però. Infatti, dopo il 1948 ha denazionalizzato illegalmente in massa 750mila persone che adesso sarebbero di nazionalità israeliana. Quindi, quella di garantire la cittadinanza ai rifugiati è una forma di riparazione al male fatto. Quello che permane è il diritto alla restituzione, vale a dire che tutto ciò che è ancora in piedi deve essere restituito. La terra va restituita ai legittimi proprietari che dovranno accordarsi su come procedere, quando e come recuperarla. Per coloro che ritornano, l’autodeterminazione potrebbe essere nello stato di Israele come minoranza oppure come maggioranza nello stato palestinese. Nello specifico di questo scenario, secondo me, non c’è una ricetta univoca.

Immagini nell’articolo di Activestills Collective

Vi è una consistente negazione stessa della Nakba, la catastrofe del 1948. Questo ha degli effetti importanti sia sulla percezione del problema che sugli sviluppi del discutibile e improbabile “processo di pace”…

È vero quello che dice nel senso che abbia un impatto sulla percezione e che non ci si sente obbligati a riconoscere la Nakba. È un fatto orrendo così come avviene per la negazione del genocidio degli armeni o quello degli ebrei in Europa o anche quello commesso dai tedeschi contro gli herero in Namibia o contro i congolesi da parte dei belgi. Il fatto di non riconoscere la Nakba è gravissimo, parliamo di eventi e fatti pesantissimi.

C’è stata una pulizia etnica della Palestina nel 1948. Questa va vista come l’inizio della fine della Palestina che fu. Quindi, è incredibile che non ci non ci si senta in obbligo morale di riconoscerlo. Il problema di percezione esiste e si parla persino di “narrativa palestinese” come se si trattasse di una cosa opinabile invece che di un fatto storico realmente accaduto.

L’altro aspetto secondo me molto importante è l’impatto psicologico che tale negazione ha sui palestinesi: il fatto di non vedersi riconosciuto un momento così drammatico della loro storia, così fondamentale e il conseguente elemento riparatore che sarebbe, almeno nella forma, una presa di coscienza da parte del popolo israeliano per cui il proprio dramma, la propria questione esistenziale si sviluppa con implicazioni gravissime per un altro popolo. Il fatto che non ci sia tale presa di coscienza, che non ci siano delle scuse, costituisce una gravissima ferita e profonda.

Cambiando prospettiva, la storicamente non compatta risposta politica dei Paesi Arabi alla questione dell’autodeterminazione palestinese ha condizionato il suo sviluppo concreto?

Certo. Personalmente, ho studiato il sostegno da parte del mondo arabo nei confronti dei palestinesi in chiave storica attraverso l’ottica dei rifugiati palestinesi stessi. Si tratta di un fenomeno complesso nel senso che la solidarietà è forte e constatabile in genere a livello di popolo seppur con delle eccezioni, come in Libano e in Egitto. Al contempo, c’è storicamente stata una sorta di sospetto nei confronti dei palestinesi da parte di certi governi arabi. All’inizio, v’era solidarietà nei loro confronti perché schiacciati dall’imperialismo, dal colonialismo europeo prima e di matrice sionista poi e quindi scacciati dalla loro terra. Però, in definitiva, i palestinesi sono sempre stati identificati come un popolo foriero di un’idea di libertà, di liberazione, quasi di valori occidentali che cozzavano con le “autarchie del deserto” nel senso che erano e sono dittature. L’OLP che portava avanti l’idea della liberazione dall’oppressione, con ideali di cui non si voleva troppa contaminazione nei paesi arabi, è sempre stata vista con sospetto. C’è dunque una sorta di solidarietà instabile e talvolta ipocrita nel senso “ti aiuto a condurre la tua lotta ma fuori da casa mia”.

A onor del vero, i palestinesi hanno contribuito sì alla crescita economica di tanti paesi arabi tra gli anni ’50-’70, ma anche ad alcune delle pagine più nere della storia di alcuni di questi Paesi. E ciò non necessariamente in modo colpevole, magari pagando il prezzo di tante perdite, maltrattamenti e massacri come nell’unica guerra civile che la Giordania abbia mai sperimentato nel ’69-’70 o nella guerra civile libanese dove però anche gli stessi palestinesi sono stati coinvolti nel conflitto. Dunque, sono stati considerati un elemento di destabilizzazione dai Paesi arabi. Era inevitabile e i Paesi arabi che dovevano ergersi a guardiani dei diritti dei palestinesi non di rado sono venuti meno a quell’impegno producendo una dinamica malsana. Adesso c’è questa biforcazione per cui il popolo arabo in generale, se si può chiamare così, è molto sensibile nei confronti della questione palestinese. Lo stesso non sento di poter affermare relativamente ai loro governi.

L’OLP ha rappresentato per lungo tempo e in significative fasi storiche un elemento rappresentativo della generale e complessa condizione palestinese. Dopo Oslo, questo spessore rappresentativo si è via via assottigliato fino a una generalizzata sfiducia nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese non di rado associata a un atteggiamento persino collaborazionista con Israele nei Territori Occupati. In che misura ciò può essere alla base di nuove tendenze di lotta e resistenza messe in atto dalla generazione più giovane di palestinesi e trasversali alle storiche fazioni palestinesi? Mi riferisco ad esempio a gruppi come Lion’s Den. C’è qualcosa di nuovo che emerge nei Territori?

Sinceramente, non saprei cosa e come interpretare tutto ciò. Mi spiego: c’è qualcosa di nuovo? Sì e no. I palestinesi non ce la fanno più e questo senso di disperazione, di rivolta e è ciclica. Non si può tenere un popolo oppresso sine die. Quindi c’è un senso di stanchezza, di sfiducia nei confronti dei propri rappresentanti, della propria classe politica. Non credo che ci sia molta fiducia nei confronti dell’Autorità Palestinese e dell’OLP. A me fondamentalmente dispiace vedere la rivolta armata perché è il sintomo, un chiaro elemento rivelatore del fatto che continuiamo a fallire, che non si riesce a garantire un minimo di pace, stabilità e diritti al popolo palestinese. Per questo, i palestinesi sono costretti a ricorrere alla violenza, all’uso della forza perché non hanno altro strumento. Nel corso di cinquantacinque anni, le hanno provate tutte: la resistenza armata, quella civile, il boicottaggio, il ricorso alla giustizia internazionale… Dal loro punto di vista, nulla ha effetto. Quindi qual è il messaggio che emerge? Qualsiasi cosa facciano i palestinesi, non v’è aiuto efficace da parte della comunità internazionale e dunque riprendono il proprio destino nelle loro mani.

Desideravo riportarle un pensiero tratto da un testo di Edward Said che, a un certo punto, sostiene «pensiamo alla Palestina come un luogo dove tornare ma allo stesso tempo anche come qualcosa di completamente nuovo visione di un passato in parte recuperato e di un nuovo futuro forse persino come a un disastro storico che si trasforma nella speranza di un domani diverso» e poi continua parlando di «liberazione dall’essere delle non entità, dall’oppressione e dall’esilio». Fino a che punto possiamo considerare il rapporto tra realizzabilità e utopia? Inoltre, con riferimento al new mindset che pure Lei riprende nel Rapporto, desideravo chiederle dell’impostazione di Ilan Pappé quando delinea tre punti non emendabili ai fini dell’autodeterminazione e cioè decolonizzazione, cambio di regime con una democrazia aperta e, infine, soluzione a uno Stato rigettando definitivamente la soluzione a due Stati considerata una sovrastruttura concettuale utile solo a tergiversare, perdere tempo. Su questa traiettoria che va dal citato pensiero di Said fondato su sentimenti di speranza e di novità nell’atteggiamento palestinese all’impostazione storico-politica di Ilan Pappé, cosa commenta?

Stimo molto entrambi e secondo me non sono incompatibili nel senso che forse quella di Said è più una riflessione nata dallo sconforto di vedere il processo di pace – nel quale lo stesso Said non credeva molto – volgere al termine anche con quella carica utopica che aveva innescato. La lettura di llan Pappé è scevra di idealismo ma al tempo stesso è carica di utopia. Forse, proprio in questa utopia è da trovare l’elemento di connessione tra Pappé e Said. Pappé è molto chiaro, apprezzo moltissimo la sua lettura, è stato brillante a vedere e a illuminare dall’interno la struttura coloniale della società che Israele ha costruito. I palestinesi l’hanno sempre denunciata però, ecco, Pappé è stato molto coraggioso a tratteggiare anche quale possa essere la visione futura. Poi, ripeto, secondo me la leadership, il processo decisionale dovranno essere responsabilità dei palestinesi perché è la loro liberazione prima di tutto. È anche la liberazione degli israeliani dalla struttura coloniale di cui fanno parte. Però, i palestinesi sono le vittime reali di quella struttura, non sono bystanders, non sono gli osservatori che ne beneficiano senza necessariamente avere un ruolo attivo o da carnefici. Sono le vittime principali.

Foto di Anne Paq _ Hebron, West Bank, 30.10.2022

Ritornando all’utopia. Molte persone la vedono come qualcosa legata all’inutilità, all’irraggiungibilità. Però, mentre lei poneva la domanda, pensavo a una cosa che mi piace molto e che è la mia idea di utopia nelle parole di Eduardo Galeano: !l’utopia è l’orizzonte per cui di due passi avanzo e di due passi avanza anche lei. Di dieci passi indietreggio, di dieci passi lei avanza. Ma a che serve l’utopia? A camminare, ad andare avanti». L’orizzonte nel quale credere per me, come persona e come giurista, è uno fatto di giustizia e di stato di diritto.

Quando penso alla Palestina, quello che possiamo guardare è un orizzonte fatto di fine di questa ingiustizia, fine di quest’aberrazione di un sistema con l’auspicio che si ritorni a uno scenario di legalità in cui chi ha sbagliato, chiunque abbia commesso dei crimini sia assicurato alla giustizia. Ci siano perciò delle riparazioni rilevanti nei confronti del popolo palestinese in quanto popolo e in quanto singoli individui così come è stato per il popolo ebraico europeo che aveva sofferto l’antisemitismo. A tal proposito, è stato ed è giustissimo che la Germania continui a offrire forme di riparazione alle vittime dell’Olocausto e, in realtà, questo dovrebbe essere un punto di riflessione anche per l’Italia, perché furono mandati a morte nostri connazionali di origine e religione ebraica. È giusto che ci sia una forma di riparazione se indirizzata nei confronti dei palestinesi. È utopico? Sì ma nel senso che bisogna avere un orizzonte molto chiaro per sapere verso cosa si stia avanzando.

Ho letto del quarto comitato dell’assemblea generale ONU che si occupa di questioni di decolonizzazione che ha deliberato di far votare l’Assemblea Generale per richiedere un parere alla Corte di giustizia internazionale sull’illegalità dell’occupazione. Iniziativa molto importante che è passata con 98 voti a favore e 52 astenuti.

Sì, il quarto comitato dell’Assemblea Generale, che è quello che dirime questioni di decolonizzazione, ha votato perché sia posta a voto nell’ambito dei lavori dell’Assemblea Generale in seduta plenaria la risoluzione di richiesta di un’opinione legale alla Corte di giustizia internazionale che si occupa di interpretazione del diritto internazionale relativamente al tema dell’illegalità dell’occupazione per il modo in cui questa violi il diritto all’autodeterminazione. Soprattutto, alla Corte si chiede quali siano le conseguenze per gli Stati terzi circa la mancanza di attuazione degli obblighi cioè fondamentalmente del fatto che siano tollerati abusi e impunità di Israele.

Tra i 13 Paesi che hanno invece espresso voto contrario a una risoluzione di così elevato tenore etico e giuridico, oltre gli Stati Uniti, si segnala l’Italia…

Penso che ci sia tanta ignoranza e tanta mancanza di morale. È da irresponsabili quel voto contrario. Esso offende non soltanto la legalità internazionale ma anche il nostro passato. Un passato in cui l’Italia è stata capace di giocare un ruolo fondamentale, di principio tanto in difesa dello Stato di Israele quanto in difesa del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Adesso non si fa né l’una né l’altra cosa: si difendono delle politiche che sono al di là della legalità non nell’interesse di Israele ma nell’interesse di governi vieppiù di destra che hanno portato adesso ad una situazione gravissima che sta creando imbarazzo in tutti. Anche negli americani, i quali non se la sentono di condonare e di aiutare un governo che supporta una retorica chiaramente, apertamente razzista.

Qualcosa in tal senso accade e, proprio in questi giorni, dagli Stati Uniti arriva la notizia dell’apertura di indagine ufficiale sull’uccisione di Shireen Abu Akleh, la giornalista di “Al Jazeera” qualche settimana fa. Iniziativa verso cui si sono subito levati gli scudi ostativi di Israele.

Questa iniziativa è un segnale positivo. Non sono abituata, né faccio retropensiero, secondo me questo è il corso di cose naturali. Sono tanti i palestinesi con cittadinanza americana, anche minorenni, che sono stati uccisi o picchiati barbaramente dall’esercito oppure dai coloni nel corso degli anni. Il caso di Shireen Abu Akleh è però gravissimo perché era un’icona del giornalismo internazionale e stava facendo il suo lavoro di reportage mentre era in missione. Si parla di pratiche volte a prender di mira i giornalisti come deterrente per non averli tra i piedi. Quindi è necessario che ci sia un’investigazione su questa cosa ma anche un’inchiesta più ampia su come vengono trattati i giornalisti in uno scenario che non è un contesto di conflitto e che però, di diritto, può essere a esso parificato.

Un ultimo parere glielo chiedo circa il recente voto in Israele e la composizione della nuova Knesset che offre alla coalizione di destra ed estrema destra religiosa oltranzista, la maggioranza parlamentare e il ritorno di Bibi Netanyahu come premier. Ai fini delle raccomandazioni emergenti dal suo Rapporto, quali possono essere effetti e ricadute delle scelte presumibilmente non predisposte all’autodeterminazione palestinese da parte del nuovo governo?

Non sono un’esperta, né un’analista politica quindi veramente offro la mia opinione per quanto mi è dato di capire e leggere. Non è dunque un’opinione fondata su una lettura giuridica ma come dicono alcuni autori palestinesi il peggioramento della situazione palestinese nei territori occupati ci sarà ai margini nel senso che si indurirà la pressione, cioè si farà probabilmente più feroce. È bene però ricordare che feroce lo è già: il 2022 è stato un anno veramente difficile con lo scatenamento di una forza militare letale, con circa 200 morti palestinesi e 30 tra gli israeliani. Bisogna tornare al 2003 o al 2005 per ritrovare un numero così elevato di morti in Cisgiordania. Quindi la situazione è gravissima e tuttavia espone maggiormente all’osservatore internazionale la realtà della politica israeliana che risulterà più evidente ed esplicita. Non c’è più Lapid che edulcora il messaggio, c’è Ben Gvir che chiede e chiama a gran voce il suo popolo per picchiare i palestinesi o addirittura aprire il fuoco contro di essi. Quindi la situazione è assai critica. Però, forse, renderà più manifesta la vera natura del problema politico israeliano nei riguardi della questione palestinese.

L’autore dell’intervista è fotografo urbano e sociale.

Immagine di copertina di Anne Paq da Hebron, West Bank, 30 Oct 2022. Pubblicata su Activestills Collective