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OPINIONI

Palestina e Israele. A chi spetta il perdono

La soluzione politica che è stata escogitata per porre fine all’apartheid sudafricano può davvero essere praticabile in una Palestina devastata dal fuoco psicotico dell’inferno israeliano? «Come potremo mai perdonarli?» Nei momenti più lucidi, so che il perdono è inevitabile

«Come potremo mai perdonarli?».  Mi sono ritrovato a chiedermi nell’ultimo mese e mezzo. Non sollevo la possibilità del perdono per suggerire una superiorità morale, né per dettare una condotta etica alle vittime del genocidio. In effetti, parlare di perdono in un’epoca di genocidi trasmessi in televisione può anche significare parlare dell’impossibilità del perdono. Eppure, l’argomento è già stato sollevato, anche se con circospezione.

Judith Butler, in un saggio sulla “London Review of Books” pubblicato il 19 ottobre che ha avuto molta diffusione (e poi tradotto in arabo) chiede ai palestinesi e agli israeliani di immaginare un futuro in cui tutte le parti «vivano insieme in libertà, non violenza, uguaglianza e giustizia», e che il mondo possa accogliere questo difficile compito producendo una generazione di “sognatori” e simili. È vero che Butler introduce questa rosea visione del futuro riconoscendo decenni di sofferenza palestinese sotto l’occupazione israeliana, anche se questo riconoscimento è a sua volta preceduto dal suo proclamare ogni possibile giustificazione per la rivolta di Hamas del 7 ottobre come un «ragionamento morale corrotto».

È anche vero che Judith Butler si è dedicata troppo a lungo alla Palestina per poterla liquidare come una semplice spettatrice-opinionista; il tipo di commentatrice politica distaccata che ha prosperato nei talk show e nei tweet dal 7 ottobre. No, Butler, oltre a essere una teorica rivoluzionaria degli studi di genere e politici, ha credenziali autentiche sulla Palestina. Ha scritto un libro sulle critiche ebraiche al sionismo, [Butler, Judith. 2012. Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism, New York: Columbia University Press] ha prestato il suo nome a innumerevoli lettere a sostegno del boicottaggio contro Israele e di appelli legali a sostegno di studiosi palestinesi in difficoltà, ha tenuto conferenze all’Università di Birzeit vicino a Ramallah e nel 2006 ha fatto la coraggiosa (ma, in Occidente, inaccettabile) osservazione che Hamas appartiene alla sinistra globale; un commento che in seguito ha ritrattato. Non c’è dubbio che Butler abbia buone intenzioni. Ma chiedendo ai palestinesi di, in qualche modo, ignorare quasi un secolo di oppressione al servizio di un futuro giusto ancora nebuloso e chiedendo agli israeliani, a loro volta, di assolvere il «ragionamento morale corrotto» dei palestinesi, impiega una sorta di filosofia morale che chiede alle vittime della violenza di condividere il peso della responsabilità con gli autori della stessa violenza e viceversa. In termini molto poco filosofici, chiede a ciascuno di mettere da parte le proprie differenze e di andare avanti.

C’è una genealogia in questo modo di pensare. In una splendida sezione del suo magnum opus Vita activa. La condizione umana, [Arendt, Hannah. 1958. The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press (tr. it. Vita activa, Bompiani, Milano 1964)] Hannah Arendt delinea due modi di navigare nelle situazioni difficili che si incontrano nel mondo; quelle che lei chiama «facoltà» dell’agire umano. Una è la punizione e la retribuzione, un tipo di azione meglio esemplificata dal vendicativo Dio del Giudizio Universale. Il secondo è il perdono, che, secondo Arendt, è stato «scoperto» per la prima volta da Gesù di Nazareth nei suoi ultimi istanti sulla croce. La scoperta di Gesù è radicale, scrive Arendt, perché nel contesto giudaico-ellenico della Palestina del I secolo, si era capito che il potere di perdonare appartiene solo a Dio. Portando questo potere divino nel regno degli affari umani, Gesù aprì la strada a possibilità politiche che prima non erano disponibili per i comuni mortali. Il perdono, quindi, è un atto di politica radicale.

Ma la stessa Arendt era una semplice mortale e, quindi, incoerente. Vedeva la scoperta del perdono da parte di Gesù come il «miracolo che salva il mondo», ma lei stessa non era in grado di perdonare. Spesso si ignora che, nonostante il suo ben noto verdetto sulla “banalità” della malvagità nazista, la Arendt era anche d’accordo con il verdetto della corte secondo cui Adolf Eichmann doveva essere messo a morte. [Arendt, Hannah. 1963. Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil,  New York, Viking Press (tr. it. La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964] Butler, scrivendo delle sconcertanti linee di pensiero di Arendt sull’argomento, offre la seguente analisi: «Nessuno muore come conseguenza del giudizio e delle parole di Arendt, eppure forse ci mostrano meno la ragione della pena di morte che la sua conflittuale e teatrale oscillazione tra la vendetta e qualche altra versione della giustizia». [Butler, Judith. 2011. Hannah Arendt’s Death Sentences, ”Comparative Literature Studies 48(3)”, pp. 280-295]

Come potrebbe essere il perdono secondo un’altra versione della giustizia? In un libro (relativamente) recente che ha tutte le complessità e le contraddizioni degne di un classico, Mahmood Mamdani esplora due modelli di possibili conseguenze di una catastrofe politica [Mamdani, Mahmood. 2020. Neither Settler nor Native: The Making and Unmaking of Permanent Minorities, Cambridge, Harvard University Press].

Il primo è il processo di denazificazione intrapreso dalla Germania del dopoguerra e il secondo è la fine dell’apartheid in Sud Africa. Uno sguardo anche superficiale a questa tipologia – la retribuzione, da un lato, e il perdono dall’altro – mostra che essa è quasi analoga alle due facoltà dell’agire umano di Arendt (dico quasi e non esattamente, per ragioni che spiegheremo più avanti).

La denazificazione comportò la pulizia etnica di 12 milioni di tedeschi provenienti dall’Europa centrale e orientale nelle due Germanie del dopoguerra, “processi farsa” [show-trial in original] contro ufficiali delle SS a Norimberga e una peculiare autoflagellazione a livello di identità nazionale che continua a persistere nel moderno stato tedesco; in particolare nel suo sostegno incondizionato al benessere degli ebrei del mondo, per il quale la Germania considera Israele come il garante indiscutibile. Ci sono anche i milioni di marchi tedeschi pagati come risarcimento alle famiglie delle vittime dell’Olocausto, la totale sottomissione degli interessi manifatturieri e militari della Germania Ovest agli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra e le celebrazioni periodiche che segnano l’anniversario della propria resa alle forze alleate, ora intesa come la liberazione della Germania da se stessa. Nella denazificazione, c’è un chiaro colpevole – i tedeschi – e una chiara vittima – gli ebrei.

Sebbene Mamdani non usi il termine, è il perdono che caratterizza il suo secondo modello, quello meglio esemplificato dal Sudafrica. Per Mamdani, il Sudafrica post-apartheid fa collassare le identità di carnefice e vittima in una categoria più ampia di “sopravvissuti”; per sopravvissuti si intendono coloro che insieme hanno “assistito” a un lungo incubo morale e politico sudafricano, e insieme sono sopravvissuti. Le caratteristiche di questo modello includono l’istituzione di istituzioni come la Commissione per la Verità e la Riconciliazione in cui sia il colonizzatore che il colonizzato lavorano insieme verso nuove frontiere politiche, nessuna punizione contro gli autori della violenza (in realtà, la categoria di perpetratore non esiste affatto), e altre concessioni simili. Mamdani chiarisce che è questo modello l’unica via percorribile per la Palestina: uno stato “non nazionale” che non sia esattamente un binazionalismo di democrazia ebraico/araba ma, piuttosto, un progetto politico anonimo che sia una patria per tutti e senza marcatori nazionali identitari. Egli scrive: «Arriverà il momento palestinese in cui un numero sufficiente di ebrei israeliani sarà fiducioso di essere annoverato tra i sopravvissuti del sionismo». In questo, la visione di Mamdani è in accordo con l’appello di Butler ai “sognatori”.

Guardando ora i bombardamenti a tappeto di interi quartieri, le sprezzanti conquiste militari degli ospedali, l’umiliazione psicologica degli sfollati, la negazione dei servizi di base e del sostentamento a oltre due milioni di persone, le ripetute menzogne propagandistiche e le fake news, l’arrogante elogio del genocidio da parte di funzionari eletti, gli abusi in stile Abu Ghraib sui prigionieri politici, le esecuzioni extragiudiziali in Cisgiordania e altro ancora (l’elenco non è affatto esaustivo), ci si chiede come si possa prendere sul serio il modello del sopravvissuto di Mamdani.

L’ostacolo a un futuro giusto in Palestina è davvero nelle mani degli ebrei israeliani che non sono ancora convinti se fare o meno il salto della fede per “sopravvivere” al sionismo? E la soluzione politica che è stata escogitata per porre fine all’apartheid sudafricano può davvero essere praticabile in una Palestina devastata dal fuoco psicotico dell’inferno israeliano? Va detto qui che la categoria anonima di “sopravvissuto” è stata coniata per la prima volta da Wynand Malan, il membro afrikaner della Commissione per la verità e la riconciliazione. Non poteva essere altrimenti. Mamdani menziona questa curiosità, ma non le dà alcuna importanza.

Il problema più ampio qui è quello dei limiti discorsivi riguardo a quali tipi di futuri e progetti politici sono accolti da una comunità di studiosi che ovviamente preferirebbe una tregua dai cicli infiniti di violenza. Mamdani è uno studioso affermato, il tipo che è in grado di farla franca con un ampio ragionamento morale in parti del mondo in cui potrebbe non avere un interesse libidico in gioco. Anche in tempi meno inquieti, sono rimasto colpito dall’argomentazione di Mamdani in un libro precedente secondo cui il Darfur forse non è stato un vero genocidio, mentre il Ruanda lo è stato. [Mamdani, Mahmood. 2009, Saviors and Survivors: Darfur, Politics, and the War on Terror, New York, Pantheon Books].

Il punto non è se Mamdani abbia ragione o meno, ma che la questione del genocidio, soprattutto tenendo presente che il lettore potrebbe anche esserne vittima, richiede una certa sensibilità, una certa umiltà e tatto. Mamdani è astuto nel notare che le realtà politiche in Israele/Palestina non sono mai statiche, e osserva cambiamenti nelle tendenze politiche israeliane nel corso dell’ultimo secolo e mezzo che lo inducono a prescrivere il modello dei sopravvissuti. Ma Mamdani sembra non considerare le mutevoli tendenze palestinesi allo stesso modo. Il binazionalismo, un tempo favorito da molti attivisti palestinesi e criticato da Mamdani, nell’ultimo decennio si è trasformato non in un paradigma di sopravvivenza, ma in un modello algerino di decolonizzazione rivoluzionaria; uno in cui non c’è futuro per il colonizzatore, tanto meno per un sopravvissuto. Si tratta di uno sviluppo comprensibile, indipendentemente dal giudizio morale, e soprattutto per le giovani generazioni di palestinesi che non hanno mai conosciuto, o sono troppo giovani per ricordare, nient’altro che la miseria dell’attuale status quo. Un’indicazione di questo sviluppo è il cambiamento della terminologia. Nello spirito del famoso detto di Confucio secondo cui «l’inizio della saggezza è la capacità di chiamare le cose con il loro nome giusto», i nuovi attivisti si riferiscono a tutti gli israeliani come “coloni” e a tutte le località israeliane, da quelle sulle colline della Cisgiordania a Tel Aviv, come “insediamenti”. I nuovi attivisti sono anche molto istruiti nella pedagogia degli oppressi, versati in Fanon e Kanafani, e sanno che il genocidio attualmente trasmesso in televisione non è un evento ma una struttura, con ognuna delle sue componenti già praticata da decenni; Solo che ora si è intensificato su una scala mai vista prima e il mondo sta guardando di nuovo.

Non credo che la Palestina sia l’Algeria, né che il rapporto ebraico con la Palestina sia esattamente speculare a quello francese con l’Algeria. In un certo senso, la Francia è stata un colonizzatore più benevolo di quanto Israele possa mai essere, concedendo alla fine la cittadinanza francese a tutti gli algerini e accogliendo furtivamente la decolonizzazione algerina nella propria immagine hegeliana di liberté-égalité-fraternité. [hepard, Todd. 2008. The Invention of Decolonization: The Algerian War and the Remaking of France, Cornell, Cornell University Press]

Questo non vuol dire che il progetto di colonizzazione francese in Nord Africa sia stato tutt’altro che brutale. È stato brutale eccome, con un massacro dopo l’altro che ha lasciato cicatrici psico-sociali indelebili. Ma questi sono gli standard a cui Israele si è abbassato. Inoltre, se il sionismo dovesse essere violentemente rovesciato, gli israeliani non avrebbero una metropoli in cui fuggire come hanno fatto i pieds-noirs francesi. Il punto, tuttavia, è che, se si sente la tragedia palestinese autenticamente nelle proprie ossa, come dovrebbe fare qualsiasi studioso serio che scriva sulla Palestina, allora è imperativo essere empatici nei confronti di queste complessità e sfumature del futuro politico che riflettono la realtà dell’esperienza palestinese. Dare lezioni ai palestinesi sul ragionamento morale corrotto, nelle sue varie forme, è l’antitesi di tale empatia.

«Come potremo mai perdonarli?». Mi ritrovo ancora a chiedermi. Nei momenti più lucidi, so che il perdono è inevitabile. Non intendo qui il perdono come politica radicale, come per Arendt, né come concessione politica. Piuttosto, il perdono è una realtà inevitabile della vita quotidiana, dell’incontro con il volto dell’Altro, del non rispondere al genocidio con il contro-genocidio. Il perdono di questo tipo è un lavoro difficile e costante. Gli attivisti palestinesi potrebbero benissimo scoprire alla fine che il perdono è la soluzione politica pragmatica, anche quella morale, ma questo è qualcosa che deve essere scoperto attraverso la sperimentazione – come ha fatto Gesù – e non prescritto da un ragionamento morale calato dall’alto. Jacques Derrida una volta ha scritto che solo l’imperdonabile è veramente perdonabile, perché altrimenti non sarebbe una cosa degna di perdono. [Derrida, Jacques. 2011. On Cosmopolitanism and Forgiveness, London: Routledge]

Ha anche disapprovato gli impulsi “transazionali” verso il perdono che si basano sulla logica dello scambio economico, come fa il modello di sopravvivenza di Mamdani. È per questo che distinguo Butler da Mamdani e Arendt da entrambi. L’appello di Arendt al perdono non è un invito ad andare avanti. Piuttosto, è un appello per una rivoluzione della coscienza e la sua stessa incapacità di perdonare Eichmann mostra una vulnerabilità e una lotta con se stessi che tocca il mio cuore.

Ma qui ci sono delle insidie. Torno ora all’immagine di Gesù sulla croce, quella che Arendt individua come luogo della scoperta del perdono come azione umana. Luca 23:46 è il versetto biblico generalmente considerato il culmine della missione di Gesù. A questo punto della narrazione della Passione, Gesù ha già perdonato i suoi carnefici e un’eclissi solare sovrasta Gerusalemme, portando le tenebre sulla terra. Gesù, con i suoi ultimi sussulti, affida il suo spirito alla custodia di Dio. Poi muore sulla croce: «Gesù gridò a gran voce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Quando ebbe detto questo, esalò l’ultimo respiro».

Nelle traduzioni arabe dei Vangeli, probabilmente alcune delle loro prime traduzioni mai fatte, almeno oralmente, l’azione della sua morte (il greco exepneusen) è tradotta come aslam, che significa “mi sottometto” o “mi arrendo”, essenzialmente la stessa forma che sei secoli dopo dà il nome all’Islam. Se il perdono è una politica radicale, o se si deve in un modo o nell’altro essere costretti od obbligati a perdonare, prendete questo gioco linguistico come un avvertimento per non confondere questa politica con la resa. Abbiate cura anche di considerare la meraviglia di ciò che risorge quando un movimento si spegne violentemente.

 Roy, Arpan. December 2023. ‘The Unforgiven’. Pubblicato su Allegra Lab, che ringraziamo per la disponibilità. Traduzione in italiano a cura di Miriam Zenobio, che ringraziamo per la proposta e la generosità.

*Arpan Roy è un antropologo che fa ricerca in Medio Oriente. Nel 2024 entrerà a far parte del Leibniz-Zentrum Moderner Orient di Berlino come borsista post-dottorato Marie Skłodowska-Curie. Ha conseguito un dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Antropologia della Johns Hopkins University. Il suo lavoro è in stretto contatto con i temi della religione, dell’etica, del linguaggio, della psicoanalisi e dell’esperienza della differenza nel mondo arabo.

Immagine di copertina di Francesco Arrigoni, corteo per la Palestina, Roma 2023