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EUROPA

Non abbiamo imparato nulla dal genocidio di Srebrenica

Trent’anni fa a Srebrenica venivano uccisi 8372 bosgnacchi dalle truppe serbo-bosniache durante la guerra civile scoppiata al crollo dell’ex-Jugoslavia. Oggi la Bosnia-Erzegovina è sull’orlo di una nuova crisi

Trent’anni fa,nel luglio del 1995, a Srebrenica venivano uccisi 8.372 bosgnacchi dalle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Radko Mladić durante la guerra civile scoppiata al crollo dell’ex-Jugoslavia.

Srebrenica dall’inizio del conflitto si era trasformata in un’enclave a maggioranza bosniaco-musulmana sotto il comando dell’Esercito della Repubblica della Bosnia-Erzegovina. Molti civili in fuga dalle atrocità della guerra si rifugiarono in questa piccola cittadina. Data la crisi umanitaria, il 16 aprile del 1993 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU dichiara la città “zona sicura” e smilitarizza i Caschi blu dispiegati nell’area (UNPROFOR). A inizio luglio inizia l’offensiva delle truppe serbo-bosniache, che entrano nella città l’11 luglio e in due giorni, separata la popolazione maschile e femminile, sotto gli occhi inermi delle truppe ONU, inizia il massacro.

Più di 8mila uomini di ogni età vengono sterminati e gettati in fosse comuni, i corpi poi saranno riesumati per spostarli in altre fosse secondarie e terziarie, per farne perdere le tracce.

Ancora oggi non sono stati ritrovati tutti i resti, ma la ricerca non si ferma. La natura genocida dell’atto è stata confermata dal Tribunale Penale Internazionale per l’Ex-Jugoslavia (ICTY) e dalla Corte di Giustizia Internazionale (ICJ), che hanno giudicato colpevoli 16 persone, tra cui Ratko Mladić. L’ICTY è stato anche il primo tribunale internazionale ad adottare una sentenza di condanna qualificando lo stupro come reato contro l’umanità.

A maggio del 2024, su iniziativa di Germania e Ruanda, è stata votata una mozione che istituisce l’11 luglio come “Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica”. La risoluzione, che condanna la negazione del genocidio e la glorificazione di chi lo ha commesso, è stata votata con 84 voti favorevoli, 19 contrari e 68 astensioni; tra i contrari Serbia, Russia e Ungheria. In Serbia e nella Repubblica Srpska (l’unità amministrativa a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina) è stata svolta una massiccia campagna contro la risoluzione sotto lo slogan “noi non siamo un popolo genocida”. Il Presidente serbo Vučić al potere dal 2017 – ma al centro della vita politica del paese dal 2012, prima come Ministro della difesa poi come Primo Ministro – ha fatto leva sui sentimenti nazionalisti e revanscisti per supportare la sua Presidenza già scricchiolante. In quei mesi, al centro di Belgrado, è comparsa una scritta: «L’unico genocidio commesso nei Balcani è stato quello contro i Serbi».

Belgrado, luglio 2024 – foto dell’autrice

Israele quel giorno non si è presentato per evitare di dover votare una mozione che riguardasse il riconoscimento di un altro genocidio oltre l’Olocausto, come scrive Fracesco Strazzari sul Il Manifesto: «I rapporti tra Israele e Serbia sono più che amichevoli, come testimoniato dalla recente visita della portavoce del Parlamento di Belgrado a Tel Aviv. Le forniture di armi alla Serbia sono definite da Tel Aviv come episodi occasionali. Un’inchiesta di BIRN e “Haaretz” ha appurato che, nel pieno dell’offensiva su Gaza, le vendite di armi serbe a Israele sono cresciute di 30 volte (da 1,6 a 42,3 milioni di dollari) anche grazie a uno spin doctor israeliano, incaricato dell’immagine del contestatissimo presidente Vučić».

Infatti da un anno, il Presidente di destra Vučić è al centro delle contestazioni del movimento studentesco che ora chiedono a gran voce le sue dimissioni e accusano tutto il sistema politico serbo di corruzione e clientelismo.

E nonostante nell’ultima enorme manifestazione del 28 giugno ci siano stati dei discorsi nazionalisti dal palco della manifestazione, come scrive Aleksandar Ivković su European Western Balkans: «dall’inizio delle proteste si sono registrati sviluppi incoraggianti nelle relazioni interetniche. L’integrazione degli studenti bosniaci di Novi Pazar nel movimento è stata ampiamente considerata come un importante passo avanti nelle relazioni serbo-bosniache. La protesta studentesca tenutasi ad aprile nella città di Novi Pazar, a maggioranza bosniaca, è stata ricca di simbolismi senza precedenti, tra cui studenti con l’hijab che portavano bandiere serbe».

Ma nel frattempo le tensioni in Bosnia non sono diminuite, a febbraio di quest’anno il Presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik ha promulgato leggi che di fatto annunciano la separazione della parte serbo-bosniaca dalla Bosnia-Erzegovina. Per questo è stato condannato per attentato all’ordine costituzionale, ma le autorità non hanno proceduto all’arresto e la situazione rimane in stallo con tutte le istituzioni federali bloccate. Questa nuova crisi istituzionale mostra tutti i limiti di una federazione costruita a tavolino su base etnico-comunitaria con gli accordi internazionali di Dayton.

La crisi è certo alimentata dagli echi della guerra in Ucraina, che sta riaprendo le ferite mai guarite del crollo del socialismo reale, del saccheggio dei beni pubblici dei aesi socialisti, della successiva crisi economica, dell’emigrazione e della costruzione di sistemi di democrazia rappresentativa clientelari. E se la Bosnia rischia di scoppiare, non è da meno la situazione in Kosovo.

A trent’anni dalla fine della guerra, non esiste una lettura comune di cosa sia accaduto tra Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia. Come spiega Tatjana Đorđević su Valigia Blu, i libri scolastici non hanno una storia condivisa: ma «tre storie diverse vengono insegnate ai ragazzi, a seconda della loro nazionalità, serba, bosniaca o croata».

La guerra nell’ex-Jugoslavia rimane un conflitto dimenticato dagli altri Stati europei, basti pensare che all’inizio della guerra in Ucraina molti giornali italiani hanno titolato che finiva l’era di pace in Europa sancita con la fine del secondo conflitto mondiale, come se a pochi chilometri dalla nostre coste negli anni Novanta non fosse in corso una guerra sanguinosa. Si distoglie ancora lo sguardo dalle responsabilità europee e statunitensi in quel conflitto, mentre il genocidio del popolo palestinese è in live-streaming su nostri telefoni.

Sono state le madri, le sorelle, le donne vittime di violenze e stupri, a raccogliere i pezzi e a tenere viva la memoria. Munira Subašić, dell’associazione “Madri di Srebrenica”, ha parlato all’Assemblea Generale delle Nazioni: «È difficile vivere con il dolore nell’anima, ascoltare la negazione del genocidio. I nostri figli sono stati uccisi perché avevano nomi diversi, erano musulmani. L’Europa e il mondo sono rimasti in silenzio a guardare. Le madri non hanno aspettato, si sono alzate per ottenere giustizia […] e hanno cresciuto i figli, rimasti orfani, insegnando a non odiare e non cercare vendetta […]. Il mondo e l’Europa sono profondamente ingiusti, specialmente nei confronti delle persone musulmane in Bosnia-Erzegovina. Per trent’anni non hanno imparato niente e non so proprio quale tipo di messaggio possono dare alla Palestina o all’Ucraina» (discorso dal minuto 27:12 al 35:30).

E oggi a trent’anni dalla guerra civile e dal genocidio in Bosnia, dopo il completo fallimento delle istituzioni nazionali e internazionali, possiamo sperare nelle madri di Srebrenica, nella loro ricerca di giustizia e tessitura della memoria, e nelle strade in rivolta della Serbia. Forse solo dal loro incontro si potrà creare una storia condivisa e un futuro più giusto per tutta la regione. 

L’immagine di copertina è Jelle Visser, il Memoriale del genocidio a Potočari, via Flickr

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