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Nei sotterranei dell’immaginazione politica

Esce in italiano il libro di Stefano Harney e Fred Moten, “Undercommons” (Tamu in co-edizione con Archive Books 2021). Attraversando le teorie e le pratiche della tradizione radicale nera e del post-operaismo, il libro propone un ampliamento dello spettro del pensiero socio-politico contemporaneo e della critica estetica, negli Stati Uniti e non solo

L’enigmatica parola undercommons, che annoda atto e processo, istante e durata, l’avvenimento e la storia è il titolo del lavoro di Stefano Harney e Fred Moten recentemente pubblicato da Archive Books e dalla nuova casa editrice napoletana Tamu.

La traduzione italiana di Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero tradotto da Emanuela Maltese con il supporto collettivo di Carmine Conelli, Chiara Figone, Vasco Forconi, Angelica Pesarini e Justin Randolph Thompson conferisce un sovrappiù rispetto all’originale edizione in lingua inglese pubblicata nel 2013 da Minor Composition. Questo gruppo di studio ha fatto della versione italiana un luogo di transito e di incontro dove osservare la massima mobilitazione e fermentazione delle possibilità del sistema linguistico a tutti i livelli. Emanuela Maltese rende pienamente, in italiano, le «lingue fuggitive» della conversazione tra il post-operaismo italiano (quello che nel testo viene chiamato «il pensiero dell’autonomia») e la tradizione radicale nera: si tratta di un movimento, un uscire da qualcosa per entrare in qualcosa d’altro, un sottosuolo irrevocabile che situa la ricerca poetica e militante non contro, ma di fronte alla storia.

Dalla schiavitù ai movimenti antirazzisti o contro la precarietà di oggi, Undercommons è uno scavo non facile, ambivalente che fa di ogni parola un componimento misto di avvenimenti e di invenzione, il «luogo di incontro sperimentale della fonografia nera».

È vero, questo è un «testo difficile da leggere, alle volte oscuro, che costringe il lettore a fermarsi spesso» come sostiene la premessa a cura della Technoculture Research Unit.

Stefano e Fred non invidiano lo scrittore cordiale verso i suoi destinatari, a cui tocca stringere troppe mani sporche. «La volata fuggitiva del laboratorio linguistico» di Undercommons fa sì che il mondo dei rapporti e delle tensioni sociali, della lotta di classe, del mutamento storico viene chiamato intorno alla loro ricerca poetica. Al lettore propongono continue «dislocazioni, dispersioni» e un’incessante «mobilità del pensiero» laddove non esiste problema della ricerca poetica e dello stile che non sia anche del proprio tempo sociale. E mentre la loro poetica si presenta al tempo stesso più armata e disarmata, le forme del loro stile presuppongono, e predispongono, un ambito, una società, uno spazio: che sia la stiva di una nave negriera, la sala caffè delle infermiere o degli insegnanti di un liceo, una qualsiasi cucina, portico, cantina, corridoio, panchina di un parco poco importa. È durante una qualsiasi «festa improvvisata di notte» che ci si incontra per decifrare la musicalità di questo testo e comprendere il ritmo dove tutti possono mettersi a insegnare e a imparare da tutti.

Anziché rassicurare con un discorso filato che non fa mai resistenza in chi legge, Undercommons insospettisce continuamente il lettore inserito in un ordine storico ed estetico che gli autori producono e continuamente ricevono tra i vari saggi del libro. Il loro uso delle parole fa gioco in uno spazio che in realtà possiede cicli, ritmi e temporalità come una vite che balla, oscillando fra le convenzioni date e quelle prodotte dalle lotte in cui l’immaginario ha la sua parte. Il gioco di parole di Stefano e Fred, per loro stessa ammissione, è preso in prestito dal gioco simbolico dei bambini e delle bambine dove una «spada diventa quello che si usa per colpire una palla e una mazza da baseball diventa qualcosa con cui fare musica». Giocano con le parole dimorando lì dove le convenzioni in uso nella realtà storico-sociale non sono rispettate facendo così acquisire al lettore il potere di narrare la storia. Insomma, gli autori di questo libro chiamano a un gioco tutt’altro che infantile proponendo una decostruzione sistematica degli schemi convenzionali per spostarsi «in qualche nuovo modo di pensare e in un insieme di relazioni, un nuovo modo di stare insieme, pensare insieme».

Leggendo questo lavoro quello che mi ha fatto tenere il fiato è il passaggio, ora oscuro ora aperto, di quello che gli autorichiamano «studio», un’attività sotterranea e appassionata, antidoto all’accademia che stana i comportamenti politicizzati, che lavora nella separazione tra il fare e il piacere, tra il lavoro e la passione. È ciò che mette in comune il conflitto e rende visibile la disuguaglianza del desiderio che non fa tornare i conti, che falsifica il calcolo, che moltiplica in eccesso. Lo studio, di cui lo studente universitario in regola con gli esami è povero, è un sapere informale fatto di attitudini, disponibilità di tempo, potenzialità di senso che problematizzano ambiti di relazione che la routine universitaria lascia muti. Lo studio come «antagonismo generale» è qualcosa di immediatamente sociale poiché non esiste conoscenza se non come forma di vita, come produzione conflittuale, pratica sensuale e di relazione. Lo «studio nero» è l’esplorazione del senso e la direzione delle relazioni sociali in cui si è immersi, quelle concrete e quelle ancora tutte da inventare tra quelle formalizzate da un’organizzazione e quelle che strutturano le discipline e i loro confini.

Il tema dello studio, così inteso dagli autori di Undercommons, è ciò che ci conduce direttamente al problema particolare, grande quanto si voglia, dell’organizzazione dei saperi. Un’organizzazione fondata sul coinvolgimento e la promiscuità intellettuale, dove la dimensione collettiva e quella produttiva non possono essere disgiunte.

L’Unità di ricerca Technoculture, nata all’interno del Centro di Studi Postcoloniali e di Genere dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, è forse l’esempio più interessante, in Italia e non solo, di tale organizzazione dentro l’accademia (anche se questo prototipo organizzativo non viene menzionato nei saggi del libro, è ciò che ne ha reso possibile la traduzione italiana). Ma Undercommons interroga anche l’organizzazione dei saperi fuori dall’accademia e lo fa assumendo la regola del fuggiasco: habe nichts, non avere nulla, non portarsi dietro nulla «di tutte quelle schifezze che ti si attaccano addosso dall’università». Forse, su questo, ci sarebbe ancora da scrivere e da approfondire, specialmente in Italia, dove sembra di assistere non solo alla precarizzazione selvaggia di chi ha un dottorato, ma alla loro espulsione dall’università: è un’intera generazione altamente istruita che è fuori dall’accademia. Allora, come organizzare questa comunità di maroon? Come pianificare, per gioco, pratiche educative espansive oltre l’università? Come affermare un originale politeismo dei saperi, dell’educazione e della ricerca oggi che i confini dell’accademia, con la loro capacità di connettere quanto di escludere, di includere differenzialmente quanto separare, si sono profondamente iscritti al centro della produzione di sapere? Undercommons è un invito a immergersi nelle turbolenze prodotte quando si rendono espliciti i conflitti latenti e potenziali che oggi attraversano i saperi, facendo della pianificazione fuggitiva e dello studio nero un lavoro di immaginazione politica.