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Molteplicità in agguato ed ecologie bizzarre: gli animali secondo Gilles Deleuze

Che cosa può un animale? Il divenire-animale deleuziano come tracciato per la realizzazione di un antispecismo politico affermativo e minoritario. Un estratto dal n. 401 della rivista di filosofia “aut aut” che per la prima volta nella sua storia dedica un numero all’antispecismo politico intersezionale (per la cura di Massimo Filippi e Giovanni Leghissa)

Questo è un estratto, leggermente adattato dalla redazione per la pubblicazione online su DinamoPress, del saggio di Massimo Filippi incluso nel n. 401 di “aut aut” La filosofia davanti al massacro degli animali. Ringraziamo la casa editrice Il Saggiatore e la redazione di “aut aut” per la gentile concessione

L’animalità […] è un compito per se stessi e al contempo uno scandalo per gli altri

M. Foucault, Il coraggio della verità

La rivoluzione si muove come un millepiedi

M. Hardt e A. Negri, Comune

Gli animali attraversano da cima a fondo il pensiero di Deleuze. Basti pensare che è il lemma Animale ad aprire il suo abbecedario e che è il concetto di divenire-animale a occupare un posto centrale in tutta la sua opera. Tanto che non è possibile dubitare che Deleuze (da solo o con Guattari) offra una prospettiva rivoluzionaria sull’animalità, una prospettiva politica solo parzialmente esplorata dalla riflessione maggioritaria sulla questione animale, ancora troppo umana e troppo legata alle visioni morali e dicotomiche dei padri fondatori dell’antispecismo (Peter Singer e Tom Regan) e dei loro discendenti, seguaci ed epigoni.

Se le elaborazioni attorno all’animale da parte dei principali esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer e Marcuse) e da parte di Derrida sono altrettanto rilevanti da un punto di vista politico, quella di Deleuze è, però, decisamente più carnale. A cominciare dalla definizione di cosa sia, o meglio, di cosa possa un animale – questione curiosamente data per scontata dall’antispecismo maggioritario. Al proposito, va sottolineato che Deleuze definisce l’animale in positivo: «Un essere fondamentalmente in agguato», un essere sempre “all’erta” e “mai calmo”, un essere in carne e ossa che deve rendersi costantemente conto di quanto stia accadendo nel suo territorio, dietro [e] accanto». Un’esistenza – un essere esposti/presi/concatenati da/con il fuori di sé – perennemente attraversata da forze impersonali e da affetti dis/giuntivi, una molteplicità dentro la molteplicità del caosmo, un assemblaggio che si assembla (o meno) con altri assemblaggi, un divenire che diviene con altri divenire-con. Legione tra legioni.

L’animale in Horkheimer e Adorno e in Derrida è invece definito in negativo ed è fatto più di idee e parole che di carne. Per i primi, l’animale è «l’idea dell’uomo [come] distinzione dall’animale», un’«antitesi […] che appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale». In maniera analoga, per Derrida l’animale è un “singolare generale”, «una parola che gli uomini si sono arrogati il diritto di dare» «per designare quell’unico essere che sarebbe rimasto […] senza parole» (enfasi aggiunte) e per «indicare ogni essere vivente tranne l’uomo […] come animale parlante» (enfasi aggiunte), come «se tutti i viventi non umani potessero essere raggruppati nel senso comune di questo ‘luogo comune’ […] a prescindere dalle [loro] abissali differenze».

Con questo, sia chiaro, non si sta sminuendo la rilevanza politica di queste posizioni rigorosamente anti-antropocentriche e profondamente critiche nei confronti della svalutazione degli animali e della violenza sistemica dei processi di animalizzazione; si sta sostenendo, invece, la necessità per l’antispecismo di sviluppare una politica affermativa e che questa possa trovare un impulso significativo nella riflessione di Deleuze sull’animalità.

Poiché non è possibile passare in rassegna tutti gli animali che hanno lasciato le loro tracce dentro il corpus deleuziano, in questo saggio si proverà a dar conto di alcuni divenire-animale rilevanti per la realizzazione di un antispecismo minoritario. Per il primo aspetto (selezione dentro il bestiario deleuziano), ci si troverà facilitati dal fatto che nell’opera del filosofo francese certi animali e certi divenire-animale si ripresentano più volte come dei, o meglio, in quanto ritornelli. E, per il secondo (Deleuze non era antispecista), dal fatto che è stato lui stesso a indicarci come procedere: «Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e di fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso».

La vespa-orchidea: l’involuzione delle specie

In Mille piani, Deleuze e Guattari propongono una tassonomia animale che prevede solo «tre specie»: gli animali edipici («il ‘mio’ gatto, il ‘mio’ cane»), gli animali di Stato («archetipi o modelli») e gli animali demoniaci (quelli che «formano mute e provano affetti»).

In questa classificazione eterodossa è immediatamente evidente che gli animali non sono definiti da presunte caratteristiche proprietarie, ma da relazioni che agiscono e da cui sono agiti. Per quanto riguarda la relazione che gli umani dovrebbero intrattenere con loro, Deleuze non ha incertezze: l’umano che intenda davvero divenire-con gli animali deve farsi catturare da «una relazione animale con un animale», che poi altro non è che il divenire-animale stesso: «Divenire-animale non consiste nel fare l’animale o nell’imitarlo, è ovvio che l’uomo non diviene ‘realmente’ animale più di quanto l’animale non diventi ‘realmente’ qualche cosa d’altro. […] Ad essere reale è il divenire stesso, il blocco di divenire, e non l’insieme dei termini che si suppongono fissi e per i quali passerebbe colui che diviene».

Non sorprende, allora, che poche righe dopo Deleuze e Guattari smantellino la loro stessa classificazione: «Ogni animale può anche essere trattato secondo le modalità della muta e del pullulamento […]. Perfino il gatto, il cane…». Il problema, insomma, risiede nel fatto che troppo spesso si intrattiene «un rapporto umano con l’animale», un rapporto che trasforma «le bande, umani e animali, che proliferano con i contagi, le epidemie, i campi di battaglia e le catastrofi», non tanto in animali domestici ma in «animali domestici addomesticati», in animali familiari per mezzo di pratiche materiali (es. gli animali da compagnia e gli animali da reddito) o simboliche (gli animali controfigure d’altro nella psicoanalisi e non solo). Entrare in un rapporto animale con l’animale è, al contrario, riconoscere che «ogni animale […] ha il suo Anomalo» e che l’anomalo è «né individuo né specie», ma «un fenomeno dei bordi». Significa che uno dei pregi del neoevoluzionismo è l’aver mostrato che l’evoluzione è anche «comunicativa e contagiosa», in quanto «fila secondo la propria linea, ‘tra’ i termini messi in gioco e secondo i rapporti assegnabili».

A differenza dell’antispecismo maggioritario che si richiama a un’idea fissista ed essenzialista di specie, Deleuze sembra ricordarci che «Darwin non dice cosa sono le specie bensì cosa fanno: variano in continuazione», tanto che se la «concezione genealogica» del naturalista inglese «fosse stata accolta e assimilata, lo stesso termine ‘specie’ avrebbe dovuto essere abbandonato e sostituito con quello di ‘linea’» (J.-J. Kupiec, La concezione anarchica del vivente).

È esattamente questo ciò che può la vespa-orchidea:

Nella linea o nel blocco di divenire che unisce la vespa all’orchidea si produce una comune deterritorializzazione, della vespa in quanto diviene un pezzo autonomo dell’apparato di riproduzione dell’orchidea, ma anche dell’orchidea in quanto diviene l’oggetto di un orgasmo della vespa liberata dalla propria riproduzione. (G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, p. 408)

La vespa-orchidea, ma lo stesso vale per gli innumerevoli assemblaggi (o ecceità) dell’assemblaggio-ecceità Deleuze-Guattari (gatto-virus C-babbuino, uomo-cavallo-staffa, Achab-tradimento-Moby Dick, uccello-musica-Mozart, Hans-frusta-cavallo-strada…), «costituisce una zona di vicinanza, […] una relazione non localizzabile […] e [un] movimento mediante il quale la linea si libera del punto e rende i punti indiscernibili». E, a sua volta, zona di vicinanza non significa coincidenza ma “no man’s land”, “alleanza”, “tra”, scorrere ininterrotto dei fenomeni di desiderio («Qual è la mia posizione nel branco? Sono fuori dal branco? Sono accanto, dentro, al centro?»). La vespa-orchidea è involuzione se «involvere significa essere ‘dentro’ nel mezzo, adiacente».

Involuzione delle specie è comprendere che «un animale si definisce non tanto per il suo genere o la sua specie, i suoi organi e le sue funzioni, quanto per i concatenamenti in cui entra», per la sua «bizzarra ecologia». E, quindi, che il divenire-animale è deantropocentrizzazione assoluta che trascina via ogni residuo di Umanità dall’uomo – «Deterritorializzazione assoluta dell’uomo, in opposizione alle deterritorializzazioni relative che l’uomo opera su se stesso» –, a cui corrisponde un altrettanto assoluta decolonizzazione dell’animale, che torna a essere “metamorfosi” in grado di indicare all’uomo «vie d’uscita o […] mezzi di fuga ai quali […] non avrebbe mai pensato da solo».

Ragni, zecche, pidocchi: essere poveri di mondo e l’antispecismo viscido

Deleuze era «affascinato da animali come ragni, zecche, pidocchi» per il «carattere ridotto dei loro mondi», per la loro capacità, «in una natura formicolante», di estrarre gli affetti e i corpi in grado di renderli più potenti. La povertà di mondo di questi animali consente di cogliere la composizione di latitudini («le parti intensive secondo una capacità») e longitudini («le parti estensive secondo un rapporto») di mondi ecologicamente più complessi.

Sono proprio questi animali di superficie, che eludono altezze e profondità, a mostrarci che «ogni animale è anzitutto una banda, una muta»: non solo non esistono il ragno, la zecca o il pidocchio bensì ragni, zecche e pidocchi o, meglio ancora, ragni-tele-mosche, pidocchiamenti e zecche-luce-odore-peli:

Guardate la zecca, ammirate questa bestia, essa si definisce attraverso tre affetti, […] un mondo tripolare, e questo è tutto! La luce la colpisce ed essa si arrampica alla punta di un ramo. L’odore di un mammifero la colpisce, ed essa si lascia cadere su di lui. I peli le danno fastidio ed essa cerca un posto sprovvisto di peli per penetrare sotto la pelle e bere sangue caldo. Cieca e sorda, la zecca non possiede che tre affetti nella foresta immensa […]. E tuttavia quale potenza! (G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, pp. 60-61)

È con queste bestie minori che si consuma la differenza principale tra gli animali che popolano le pagine di Deleuze e quelli che circondano Derrida. In quest’ultimo, gli animali vanno a comporre un «bestiario personale e un po’ paradisiaco» – «i miei animali» – e, se non hanno valenza di «figure animali» (con questa specie di lapsus, Derrida definisce molti degli animali che compaiono nella sua opera prima de L’animale che dunque sono), possono comunque essere ricondotti, seppure in modo forse un po’ frettoloso, a mammiferi dai connotati edipici, che entrano singolarmente – e con un volto! – in un rapporto personale con il filosofo. L’esempio più noto ed emblematico è quello del «piccolo gatto», «che è poi una gatta» (altro lapsus significativo), «un gatto reale», un «essere vivente insostituibile», «un’esistenza che rifugge ogni concettualizzazione», che entra «nel mio spazio» per ingaggiare uno scambio di sguardi, in grado di suscitare l’«imbarazzo della vergogna» e la consapevolezza della finitudine condivisa («la sua possibile scomparsa» che è «anche la mia»). Per Deleuze, invece, come detto, «ogni animale è o può essere una muta» capace di creare «molteplicità, divenire, popolazione, racconto…». Se è vero che perfino una pulce può diventare «la mia cara bestiolina», ciò che entusiasma Deleuze è comunque «cominciare dagli animali semplici, […] che non sono nel nostro mondo né in un altro, ma con un mondo associato che essi hanno saputo incidere, tagliare, ricucire: il ragno e la sua tela, il pidocchio e la testa, la zecca e un angolo di pelle di mammifero […]. Una vita sconosciuta, forte, oscura, ostinata».

È per questa ragione che l’antispecismo, se non vuole ricadere nelle secche di un antropocentrismo ancora più feroce di quello che intende combattere, deve lasciarsi alle spalle le visioni dicotomiche secondo cui esisterebbero solo due “specie” (l’Umano e l’Animale), poco conta che assumano le fattezze dell’assimilazione – con l’inclusione nella sfera del riconoscimento degli animali più vicini all’Umano che all’Animale – o quelle della separazione – l’Animale e l’Umano non hanno assolutamente nulla in comune. C’è bisogno che l’antispecismo si lasci contagiare del pullulare viscido delle bestie infami che, pur generando ribrezzo e repulsione, condividono con “noi” una faglia comune (sconosciuta, forte, oscura, ostinata) di affetti e di forze impersonali e transpersonali, una faglia di comunanza che è costituita dalla vulnerabilità, dal soffrire, dal gioire, dall’im/potenza e dalla mortalità con/divisi. Da questa prospettiva, l’antispecismo viscido è materialismo senza riserve, un materialismo basso per dirla con Bataille.

«Queste sono bestie filosofiche, e non la nottola di Minerva» e, forse, neppure la gattina di Derrida. Perché pensare non prevede tanto che l’animale ci guardi e che noi siamo nudi davanti a lui (o lei?), quanto accettare di filare lungo un ininterrotto susseguirsi di alienazioni produttive senza origine né compimento, lungo sintesi disgiuntive con animali ciechi e sordi (non abilisti), ma capaci di estrarre, incidere, tagliare e ricucire «tutto ciò che c’è di non-umano nell’uomo e fuori dall’uomo» (D. Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti). E pensare comincia forse proprio da là.

Vitelli e ratti: la resistenza, il lutto e il poter soffrire

La visione di Deleuze sull’animalità si fa più carnale che mai nel momento in cui ingaggia un corpo a corpo con la pittura di Bacon (G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione), artista in grado di creare, secondo il filosofo francese, «una zona d’indiscernibilità tra l’uomo e l’animale», un’indiscernibilità che è «più profonda di qualsiasi identificazione sentimentale», in quanto non è una banale «combinazione di forme», ma «atto comune» costituito dal «corpo in quanto carne macellata». O, per usare le parole di un autore che Deleuze non ha mai smesso di criticare, «orribile scoperta […] [del] rovescio del viso, […] [della] carne in quanto sofferenza» (J. Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi. 1954-1955). «L’uomo che soffre è una bestia, la bestia che soffre è un uomo» o, come disse Bacon, «quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non esserci io appeso lì, al posto dell’animale».

Se Bacon «è pittore di teste, non di volti», laddove il volto è «organizzazione spaziale organizzata che riveste la testa» e la testa è «uno spirito che è corpo […], spirito animale», ossia il rovescio del volto, «ognuno di noi», in quanto testa-corpo-animale, «è carne macellata gettata via». È dentro la tensione incandescente e intensiva di questo tra-le-due-carni che nasce una «fascinazione verso l’animale che muore». Fascinazione che, intrecciando la pittura di Bacon con le pagine di Moritz e quelle di von Hofmannsthal, Deleuze intende nei termini di affetto responsabile: «non un sentimento personale» ma «l’effettuazione di una potenza di muta che fa vacillare l’Io», che ci fa «rosicchiare […] come roditori» o ci fa «venire gli occhi gialli di un felino». Hofmannsthal, dopo aver sparso «una gran quantità di veleno per ratti», viene richiamato all’orrore della realtà dalla visione di quanto sta inevitabilmente accadendo in «quella cantina, colma della lotta contro la morte di quel popolo di ratti», quando è percorso dallo «stridio di denti» della madre ratta circondata dai «piccoli morenti», quando «sente che è in lui che l’anima dell’animale mostra i denti». Moritz, provando nelle pieghe più intime della sua testa-carne il tipo di esistenza dei vitelli messi a morte, diviene testa-occhi-muso-narici, diviene «responsabile, non dei vitelli che muoiono, ma davanti ai vitelli che muoiono».

Questa responsabilità-davanti alle vittime è fondamentale per ripensare alcune nozioni che l’antispecismo non è stato ancora in grado di elaborare sufficientemente. In primo luogo, quello della resistenza degli animali verso la violenza istituzionalizzata e industriale perpetrata quotidianamente nei loro confronti in «proporzioni senza precedenti» e «in condizioni che gli uomini del passato avrebbero giudicato mostruose» (J. Derrida, L’animale che dunque sono). Ormai è evidente che, nonostante millenni di domesticazione alla docilità e nonostante la sproporzione delle forze in campo, gli animali si ribellano all’assoggettamento. Meno evidente è che tali ribellioni non sempre siano attive, muscolari e abiliste. Ribellione – questo è ciò che l’antispecismo deve ancora comprendere – è anche la creazione da parte dell’animale fatto a pezzi di uno stridio di denti capace di generare un divenire-rivoluzionario. Ancora meno evidente è la posizione che dovremmo assumere davanti a queste ribellioni: una posizione che dovrebbe smettere di parlare a nome d’altri per solidarizzare con le vittime, riconoscendo «una identità di fondo» che fa vacillare l’identità umana. Su che cosa sia resistenza Deleuze, infatti, non ha dubbi: «L’uomo non smette di imprigionare la vita, di uccidere la vita. […] Liberare la vita dalle prigioni dell’uomo… E questo è resistere».

Un altro aspetto a cui chiama la responsabilità-davanti è la rivendicazione del lutto per gli animali sterminati. Il lutto per i corpi che non contano è questione politica dal momento che, «quando il cordoglio […] diventa pubblico, l’ordine civico viene minacciato» (J. Butler, La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte). Questo lutto, infatti, riconosce relazioni e legami sociali resi impossibili «dalla mancanza di convenzioni culturali per dichiarar[n]e la perdita» (J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”) e permette di creare nuove comunità. Il lutto per i miliardi di animali sterminati ogni anno è, pertanto, doppiamente minaccioso, poiché riconosce legami con una moltitudine di esseri sconosciuti e disconosciuti e poiché si muove in direzione di una concezione inedita e scandalosa dipopolo.

Resistenza e lutto così declinati, come propone Derrida in una delle zone di maggiore indiscernibilità con il pensiero di Deleuze, ci inducono a ripensare la famosa domanda di Bentham, Possono soffrire?. Basta, infatti, spostare l’enfasi dal soffrire al possono e tutto cambia: «la questione si tinge di una certa passività», dal potere si passa alla potenza che non è solo «potenza di» ma anche «‘potenza di non’», «impotenza». Riconoscere che gli animali possono non potere, che sono presi in «una possibilità senza potere, una possibilità dell’impossibile [è] il modo più radicale di pensare la finitezza [e la vulnerabilità] che noi condividiamo con gli animali».

Ecco perché la formula di Bacon, secondo Deleuze, non è «‘pietà per le bestie’, ma ogni uomo che soffre è carne macellata», una carne che «ha conservato tutte le sofferenze» e che costituisce «la zona comune all’uomo e alla bestia»: «testa senza volto», bocca che diviene-grido. In questo senso, la «guerra sulla pietà» è «una vera e propria guerra delle specie», una guerra tra chi pensa che il vivente vada diviso in specie più o meno speciali e chi pensa che esista una sola specie di sofferenza, che bisogna «fare corpo con l’animale», che «per sfuggire all’ignobile non resta che fare come gli animali (ringhiare, scavare, sogghignare, contorcersi)». Una guerra sempre più infuocata tra chi dice una “stupidaggine” quando dice “L’Animale” e chi sa, come afferma perentoriamente Deleuze in un’altra zona di indiscernibilità con il pensiero di Derrida, che «la stupidità non è l’animalità».

Topi, uccelli, felini, pidocchi di mare: antropomorfismo lacerato

«Scrivere è un flusso tra i tanti e non ha alcun privilegio rispetto agli altri, entra in rapporto di corrente, di controcorrente, forma dei gorghi nell’incontro con altri flussi, flusso di merda, di sperma, di parola, di azione, di erotismo, di moneta, di politica ecc.». E, tuttavia, «si potrebbe dire che la scrittura in se stessa, quando non è ufficiale, si ricongiunge necessariamente a delle ‘minoranze’ […] nelle quali ci si trova presi, volenti o nolenti per il fatto stesso che si scrive».

Ora, se «l’uomo è maggioritario per eccellenza» e se «ogni divenire è un divenire-minoritario», non c’è «altra ragione per scrivere» se non quella di «essere un traditore […] della propria maggioranza». Fino al tradimento supremo: quello della propria specie. Scrivere è pertanto, anche e soprattutto, scrivere con gli animali. Gli animali, infatti, «emettono segni», cioè scrivono seppure in una lingua che non vogliamo ri/conoscere. E scrivere con gli animali non è scrivere di loro o su di loro, ma come loro: «Nel modo con cui un topo traccia una linea, o torce la propria coda, o come un uccello emette un fischio, come un felino si muove, oppure dorme pesantemente». E sono proprio questi topi, uccelli e felini che «donano alla scrittura un divenire senza il quale essa non sarebbe». Scrivere come un animale è «un incontro tra due regni, […] una cattura di codice dove ciascuno si deterritorializza» in un divenire-impersonale e non-rappresentativo.

Quanto detto dovrebbe sollecitare una rivalutazione dell’importanza delle narrazioni antropomorfiche nell’operazione di smantellamento dell’antropocentrismo. L’antropomorfismo è considerato il peccato originale da parte degli approcci scientifici al mondo animale e da parte dell’antispecismo maggioritario. Ma, come insegna il pensiero femminista, è possibile scrivere (dipingere, comporre…) politicamente solo a partire da corpi situati, da posizionamenti incarnati. E i nostri corpi, piaccia o meno, sono incarnati e posizionati come umani. Ecco, allora, che la «disarticolazione dell’anthropos dell’antropocentrismo» passa anche attraverso forme di «antropomorfismo strategico», un «utilizzo critico dell’antropomorfizzazione» che permetta di «abbattere le strutture arrugginite e tossiche, secondo le quali l’umano, con il suo eccezionalismo, si accaparrerebbe tutte le ‘cose belle’: l’agency, l’intenzionalità, […], la coscienza, l’immaginazione» (K. Barad, La performatività queer della natura).

Se «non si scrive altro che per amore», se «scrivere […] è testimoniare per la vita», e «amore è un evento ontologico nella misura in cui, creando nuovo essere, segna una rottura con ciò che esiste», scrivere è «essere un pidocchio di mare, che a volte salta e vede tutta la spiaggia, a volte resta nascosto con il naso puntato su un unico granello di sabbia», è lasciarsi infestare da «tutto un branco» per scrivere con «le sue unghie, il suo occhio morto, le sue antenne e mandibole, la sua assenza di espressione». Se solo riflettesse, l’antispecismo si renderebbe conto della necessità di «forzare il linguaggio […] fino al limite che separa l’uomo dall’animale […] ma in modo tale da non esserne separato», della necessità di un antropomorfismo lacerato, per convocare Bataille ancora una volta.

Aragoste e Scenopoïetes dentirostris: il movimento dell’antispecismo

Per Deleuze, gli animali non stanno solo in agguato entro ecologie bizzarre. Hanno anche un’altra proprietà: il territorio. Ma questa proprietà è una proprietà impropria: «Non c’è territorio senza un vettore di uscita dal territorio e non c’è uscita dal territorio, cioè deterritorializzazione, senza, allo stesso tempo, uno sforzo di riterritorializzazione altrove. Tutto questo accade negli animali».

Tanti sono gli animali che Deleuze mobilita per de/scrivere questi inesausti ritornelli «che illustrano prodigiosi decolli dal territorio e [che] ci fanno assistere a un vasto movimento di deterritorializzazione in presa diretta sui territori che attraversa da un capo all’altro». Questi movimenti seducono profondamente il filosofo francese, tanto da fargli affermare che «costituire un territorio, per me, è quasi la nascita dell’arte» e che, quindi, l’arte «non è […] privilegio dell’uomo». E così in più sedi Deleuze (da solo o con Guattari) si mette sulle tracce di questi movimenti “inquietanti” con un’attenzione e una delicatezza che vanno a configurare un nuovo territorio a cui potremmo dare il nome di etologia politica. È in questo zigzag, così simile al volo di una mosca, che Deleuze riconosce «il movimento elementare, il movimento che ha presieduto alla creazione del mondo». Come fa l’uccello Scenopoïetes dentirostris che produce il suo concatenamento territoriale «facendo cadere, ogni mattina, delle foglie che ha tagliato e poi rovesciandole, perché la loro faccia interna più pallida contrasti con la terra». Come fanno in maniera ancora più rilevante le «aragoste, che si mettono a camminare in fila in fondo all’acqua», facendosi in tal modo espressione di tutti i movimenti di «coloro che abbandonano in massa il proprio territorio» in un «concatenamento sociale» che, pur enigmatico, è in grado di creare un popolo a venire pronto addirittura a correre il rischio dello sterminio.

Il movimento dell’antispecismo ha molto da imparare dai movimenti di questi animali, movimenti che affermano che «il territorio vale solo in relazione a un movimento attraverso il quale lo si lascia». Il movimento dell’antispecismo se vuole davvero contribuire a quel movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente deve abbandonare l’isolazionismo single-issue per deterittorializzarsi/riterritorializzarsi insieme ad altri movimenti migratori, per «far sgorgare flussi in grado di rompere tutte le segregazioni […], in grado di allucinare la storia, di delirare le razze e di infiammare i continenti». Di smantellare i generi e le specie. L’antispecismo per divenire-politico deve comprendere quali siano i suoi alleati, una volta preso atto che il Capitale mette in stato di arresto tutti i movimenti non mercificabili e non ri/produttivi.

Coda: il ritorno dei cani e dei gatti

È noto che Deleuze non ha mai amato i cani («abbaiare è davvero la vergogna del regno animale») e i gatti («non mi piacciono i decespugliatori, un gatto passa il tempo a strofinarsi»). Eppure…

Eppure quando la sua malattia si fece più feroce è a un cane legato che corre il suo pensiero. Il 25 aprile 1991 scrive una lettera a un amico in cui racconta: «L’inverno è stato molto difficile […]: lunghe crisi di soffocamento, legato come un cane alla mia bombola d’ossigeno».

Eppure quando pensa alla morte è a un gattino (o una gattina?) che pensa. «Un gattino» che, entrato nel suo spazio, «è morto subito», ma che, cercando «un posto dove morire», gli ha mostrato che «c’è anche un territorio per la morte», che «gli uomini che sanno morire sono animali, e gli uomini, quando muoiono muoiono come animali». Che la morte è deterritorializzazione/riterritorializzazione estrema, perché «quel che era composto in un concatenamento […] diviene componente di un nuovo concatenamento».

L’animale in Deleuze è «una vita […] l’immanenza dell’immanenza […], completa beatitudine» ed è proprio per questo che c’è un al di là del divenire-animale: «Divenir-elementari, molecolari e perfino divenir-impercettibili». «SI MORIRE».

In copertina un’immagine dell’invasione di api avvenuta al torneto di tennis di Indian Wells in California giovedì scorso