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Marco Bellocchio, un passato sempre presente

A quasi sessant’anni da I Pugni in Tasca, il regista emiliano torna al cinema con un documentario dedicato al fratello gemello Camillo, morto suicida nel dicembre 1968. Marx Può Aspettare è la sintesi di un’intera filmografia e una formidabile riflessione sul rapporto tra arte e vita, assenza e responsabilità

Di Marco Bellocchio si è scritto e detto tantissimo, con la progressiva consapevolezza che, anche in virtù della sua longevità artistica, i suoi film – da sempre opere e insieme operazioni – hanno saputo raccogliere i fantasmi di una società in trasformazione, le sue contraddizioni e le sue insanabili alterità. L’intera filmografia di Bellocchio, autore per molti decenni percepito “minoritario” rispetto, ad esempio, al coetaneo e conterraneo Bertolucci, potrebbe essere letta secondo questa chiave interpretativa: a partire dall’esordio nel lungometraggio nel 1965 con I pugni in tasca, le storie e i personaggi di Bellocchio si animano del germe ora vitale, ora fatale, di un movimento che punta istintivamente alla salvezza.

Questo dinamismo, questo continuo zigzagare – un verbo caro alla prima critica bellocchiana – tra esperienze di vita e cinematografiche divergenti, ha contribuito a realizzare una condizione di libertà evidentemente imprescindibile, che per Bellocchio ha significato fuggire gli scomodi rischi nascosti dietro alle etichette e alle semplificazioni, nelle quali il regista ha spesso percepito, a livello inconscio, l’altrui volontà di distruggerlo, o di castrare attraverso il conformismo, la convenzione o la tradizione, la possibilità di compiere un itinerario all’insegna della curiosità, della voglia di scoprire, della novità.

È molto interessante che, nell’anno del massimo riconoscimento internazionale tributabile a un autore cinematografico, la Palma d’oro onoraria del Festival di Cannes, Bellocchio torni in sala “rimettendosi a nudo” con un film oltremodo personale, autobiografico nell’argomento e intrinsecamente spiazzante rispetto a tutto quello che viene prima, di cui costituisce una mirabile sintesi e a un tempo un gesto di critica interna.

Marx può aspettare è un documentario familiare, aperto alle testimonianze dirette dei fratelli (Piergiorgio e Alberto) e sorelle (Maria Luisa e Letizia) del regista, e in cui Bellocchio si mette come mai prima d’ora in campo per riflettere su un evento decisivo della propria vita: la scomparsa del fratello gemello Camillo, nato poche ore dopo di lui il 9 novembre del 1939 a Piacenza, e morto suicida ad appena 29 anni, nel dicembre del 1968, quando l’enfant terrible del cinema italiano era già riconosciuto e premiato in tutto il mondo.

È bene precisare come, pur nella sua semplicità di linguaggio, il film non assuma in alcun modo i tratti o le caratteristiche dell’inchiesta o dell’indagine su una tragedia vecchia di cinquant’anni. Delle interviste venate di contraddizioni che Bellocchio fa a fratelli e sorelle, delle dichiarazioni che egli stesso offre ai propri figli Piergiorgio e Elena, talora visibilmente perplessi, lo spettatore non percepisce mai la voyeuristica, ossessiva o falsamente luttuosa ricerca della verità.

Le cause della morte di Camillo restano, per così dire, un mistero trasparente: un suicidio mascherato da disgrazia nel clima ultracattolico del nido domestico (di cui la madre, già da anni vedova, era la rappresentante più fragile e più invasiva) e insieme un evento preciso, che interroga e continua a interrogare chi resta prima ancora di chi si fa assente.

La storia di Camillo non è del resto soltanto quella di un giovane provinciale che, alla vigilia del Sessantotto, lanciava segnali inascoltati di una difficoltà “a trovare la propria strada”, nella cornice familiare di soggetti forti – i fratelli realizzati nei più svariati campi – che a lui potevano al massimo dedicare una vaga, incostante attenzione.

Il gesto di quest’uomo fermatosi in anticipo lungo il corso del tempo diventa anche il nodo irrisolto di tutto il cinema di Bellocchio: un cinema che, ora in modo subliminale ora in forma esplicita, riecheggia incessantemente quell’episodio enigmatico, e da esso dipende nell’ideazione di moltissime sue storie, come se il gesto di Camillo fosse l’immagine che eccede la capacità di Bellocchio di tenere, nonostante tutto, separate l’arte e la vita. 

È appropriato considerare in questo senso, all’interno della filmografia dell’autore, Gli occhi, la bocca (1982), che della vicenda di Camillo è una prima, intensa “versione” di fiction, come un’opera di assoluta cesura: prima di essa, le carrellate di personaggi bellocchiani intrinsecamente negativi, figli matricidi, insofferenti, votati a distruggere gli idola che sorreggono un edificio morale ormai decaduto ma contemporaneamente impossibilitati a essere fautori di un nuovo corso, di una rinnovata ideologia, di un’ipotesi di futuro.

A partire da essa, il desiderio di ritrarre uomini nuovi e forse adulti, prendendo distanze dalle figure del giovane ribelle, del contestatore puro, dal figlio folle, e assumere su di sé i tratti riconciliati del borghese e del padre alla ricerca dell’autorevolezza (si pensi in questo senso al successivo L’ora di religione). Gli occhi, la bocca era un film, forse non perfettamente riuscito ma molto intenso, su come Bellocchio rievocava la morte reale di Camillo per dire di una morte simbolica, sua e del suo cinema precedente, in favore di una nuova sintesi, di una possibile rinascita.

Con Marx può aspettare Bellocchio ritorna, letteralmente, sul luogo della tragedia – la palestra che Camillo, diplomato ISEF, alla fine aveva deciso di aprire per non rimanere senza far niente – e offre il controcampo di quel film (e di tanti altri), questa volta non guardando a se stesso come protagonista, ma rendendo protagonista proprio Camillo, il grande assente, né ribelle antisociale, né pragmatico riconciliato, emblema di un passato totalmente presente, come il regista a più riprese, nelle parole sue e dei suoi fratelli, lascia intendere.

E del resto lo stesso titolo che Bellocchio dà al proprio film è la battuta geniale che Camillo gli diede quando cercando di rispondere alle sue manifestazioni di sofferenza, Marco gli suggerì di abbracciare la causa rivoluzionaria per risolvere i suoi problemi personali.

Meravigliosamente costruito sull’alternanza tra testimonianze familiari – parole e ricordi orali che spesso sono immagini a tutti gli effetti – e gli archivi privati da cui emerge di Camillo un profilo da vitellone malinconico, Marx può attendere diventa così un film generoso e catartico: un film in cui Bellocchio, senza volersene scagionare, cerca di capire (e condividere) le proprie responsabilità di fronte al suicidio di un gemello che, per ragioni solo in parte razionalizzabili, non ha saputo nuotare con la stessa agilità nel fiume della vita.

Ma soprattutto è un film che dichiara con decisione, rilanciando programmaticamente la poetica del suo autore, che il passato vive nella vita di chi rimane, abita come un fantasma la coscienza di chi se ne fa portatore, e come tale è un mistero quasi spirituale: una via crucis non a caso evocata nel film dal padre gesuita Virgilio Fantuzzi, il quale non esita a definire Bellocchio un grande apologeta della fede, con grande divertimento dell’autore.

Nel proprio cinema Bellocchio effettua un continuo salto da un’identità all’altra, un’evoluzione costruttiva che è simile all’intensità di due fotogrammi sovrapposti, che in questo documentario si collocano proprio nel finale, e ritraggono il dialogo impossibile tra gli occhi dell’autore di oggi e quelli del suo gemello di allora. Cioè il tentativo commovente di tenere vivo attraverso lo sguardo del cinema un legame perduto, prima ancora di assegnare una colpa o decretare una pena.