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L’Uno in psicoanalisi. Un fondamento fonduto. Il Seminario XIX “…o peggio” di Jacques Lacan

Da poco pubblicato nella sua edizione italiana da Einaudi, il Seminario XIX di Jacques Lacan dall’enigmatico titolo “…o peggio”, pronunciato durante l’anno accademico 1971-1972 torna su alcuni dei temi più importanti che hanno caratterizzato l’insegnamento dello psicoanalista francese. Come quello del concetto di Uno: che non è quello che la filosofia vorrebbe mettere a fondamento del pensiero, ma è quello equivoco, paradossale, ambiguo con cui ha a che fare l’inconscio

“Fondamento” è un termine che ricorre spesso nelle pagine di questo seminario (Jacques Lacan, Il seminario. Libro XIX. … o peggio. 1971-1972, testo stabilito da Jacques-Alain Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2020). La questione che maggiormente interroga qui Lacan è quella dell’origine di ogni fondamento: l’Uno. Come si origina l’Uno? Com’è possibile che, dal nulla, si manifesti qualcosa come Uno? Come si passa dallo Zero all’Uno? Che dall’indifferenziato si stacchi ed emerga qualcosa come Uno, come principio, come inizio di una serie, di una struttura, è ciò che classicamente nel discorso della filosofia desta meraviglia. Perché c’è qualcosa, anziché il nulla? Con tale questione, dentro e fuori la filosofia, Lacan qui si confronta, a partire da quel dialogo platonico in cui a parlare, a dirsi, è proprio l’Uno stesso, il Parmenide.

C’è un’altra cosa che ricorre spesso, quando Lacan parla di fondamento in queste pagine, ed è una cautela, un’attenzione a «non considerare questo fondato come troppo fondamentale» (p. 209), vale a dire a non fare del fondamento qualcosa di immaginario, di consistente, di non rappresentarselo cioè come un mito.

 

Perché Lacan ci avverte che «non c’è nulla di più pericoloso delle confusioni a proposito di quello che è l’Uno»? Perché scambiare l’Uno per un ente porta dritti dritti verso … il peggio (p. 102). Si potrebbe, ad esempio, interpretare così quello che Umberto Eco chiamava l’Urfascismo, il fascismo “eterno” o fondamentale: un grande abbaglio su quello che è l’Uno.

 

Anziché dunque indagare il fondamento in quanto essere, Lacan si mette qui sulle tracce della sua esistenza al di qua di ogni essere, al di qua di ogni rappresentazione. In più momenti, gioca con i termini fonder e fondre, fondare e fondere. E ci dice: «per fondare, bisogna fondere». E poco dopo: «[…] Solo gli equivoci fondano e fondono. […] Quello che mi interessa è il significante come Uno, e l’unico interesse del significante sono gli equivoci che possono scaturirne» (p. 205).

Abbiamo dunque qui una linea di ricerca piuttosto chiara – chiara nella sua paradossalità. Ciò che interessa lo psicoanalista in questo seminario è il significante come Uno, il primo significante, il punto di origine della batteria dei significanti che costituiscono un essere parlante. Saremmo portati a pensare che il significante come Uno abbia, tra le sue caratteristiche, innanzitutto quella di essere univoco, a senso unico, identico a sé. E invece Lacan ci dice che la psicoanalisi ha messo in luce che dal significante come Uno scaturiscono equivoci, e che tali equivoci sono il luogo privilegiato del lavoro di analisi.

Ma se l’Uno è uno, se esso non è due o molti, come può essere equivoco?

 

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I significanti come Uno – nell’algebra lacaniana S1 – sono i significanti padroni che determinano la vita di un soggetto, i punti in cui si fissano nell’inconscio i rapporti tra soggetto e discorso dell’Altro. Obiettivo di un’analisi è mettere al lavoro il soggetto al fine di reperirli, costruirli, fare in modo che possano produrre tutta la propria significazione attraverso quello che Jacques-Alain Miller ha delineato come un lavoro di amplificazione, prima, e riduzione, poi. Tramite il lavoro dell’analisi, il soggetto entra in contatto con il sapere che tali S1 organizzano inconsciamente.

«Nell’analisi, dice Lacan, prevale una cosa, e cioè che c’è un sapere che si trae dal soggetto. Al posto del polo del godimento» –  nel posto in alto a destra nello schema dei quattro discorsi, posto detto del godimento o anche del lavoro – «il discorso analitico mette la S barrata. Questo sapere risulta dal vacillamento, dall’atto mancato, dal sogno, dal lavoro dell’analizzante». E qui ciò su cui vorrei portare maggiormente l’attenzione: «è un sapere che non è supposto, è sapere caduco, rimasuglio di sapere, surrogato di sapere. È questo l’inconscio» (p. 73).

Rimasuglio, surrogato, caduco. Perché Lacan non dice semplicemente che l’inconscio è un sapere propriamente detto, di cui il soggetto, tramite l’analisi, può venire a conoscenza? Perché invece ne sottolinea questo carattere parziale, surrogato, spezzettato, come qualcosa che si ottiene come resto e come scarto? Perché altrimenti non sarebbe l’inconscio freudiano, sarebbe invece un sapere che, inconsapevole, passa alla consapevolezza, in una sorta di insight integrale; sarebbe cioè possibile una piena traduzione dell’inconscio nella sfera della coscienza. Il sapere organizzato da questi S1 arriverebbe a essere un sapere articolato tutto nella dimensione della coscienza. Avremmo, cioè, una esautorazione dell’inconscio.

 

La psicoanalisi prende invece le mosse dalla constatazione che l’inconscio è tale in quanto claudicanza della conoscenza, che non c’è padronanza dell’inconscio, possedimento dell’inconscio, e che l’inconscio lavora e produce i suoi giochi manifestandosi sempre come fallimento, come pietra d’inciampo di ogni padroneggiamento.

 

Ça rêve, ça rate, ça rit; sogna, fallisce e ride, l’inconscio (Jacques Lacan, Il mio insegnamento, la sua natura e i suoi fini, pp. 67-68). È per questo che la tesi che Lacan segue in questo seminario non è quella di certa filosofia, che lavora per la conoscenza dell’Uno, per cui “l’Uno è”, ma una tesi certamente inedita, quella per cui “c’è dell’Uno”, al partitivo. Non lo dice nemmeno correttamente, non dice “il y a de l’un”, ma pronuncia “yadl’un”, c’èdl’uno. Dunque ne indica il carattere di sincope, di surrogato, di pezzo (c’è dell’Uno), e lo fonde, con l’intenzione di studiarne il fondamento al di qua dell’essere. Si mette sulle tracce del fonduto del fondato, potremmo dire.

Come le fondamenta rispetto ai muri di un edificio, i significanti Uno fissano e stabilizzano una struttura di discorso. Una volta fissate le fondamenta, la struttura è fondata. Ma, lo abbiamo detto, ciò che ci interessa in psicoanalisi è, sì, il fondamento, da prendersi però nella sua natura di equivoco linguistico, o potremmo dire linguisterico con un termine che troviamo nel seminario dell’anno successivo a questo. Non dobbiamo, dice Lacan, considerare il fondamento come troppo fondamentale, giacché è grazie all’equivoco e non al significato o al senso, che può risuonare al meglio il significante radicato nell’inconscio, nella carne del soggetto. È col lavoro dell’interpretazione analitica, che mira a «produrre delle onde» semantiche al fine di far vacillare il senso stabilito e stabile, che meglio può evidenziarsi, può dimostrarsi il punto di scaturigine della significazione, il significante come Uno.

 

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A proposito di muri e fondamenta, nel capitolo che Jacques-Alain Miller titola Topologia della parola troviamo una metafora che parla proprio del muro. Qui Lacan si interroga sul senso, sulla necessità di un suo sgonfiamento in psicoanalisi. Il riferimento è ad alcuni manoscritti di Leonardo Da Vinci riguardanti la figurazione. «Guardate il muro», dice Leonardo. Sul muro si possono scorgere delle macchie, piccole increspature, talvolta delle muffe. «Una macchia di muffa è un’ottima occasione per trasformarla in una madonna», ci dice Lacan con Leonardo, «oppure in un atleta muscoloso. La muffa si presta particolarmente bene perché presenta sempre delle ombre, dei buchi. È molto importante accorgersi che sui muri c’è un genere di cose che si prestano alla figurazione, alla creazione artistica, come si dice. La macchia stessa è il figurativo in quanto tale» (p. 68).

Qui Lacan ci invita a considerare il muro nel suo al di qua e nel suo al di là. Al di qua del muro, abbiamo l’osservatore, che guarda le immagini che si formano a partire da macchie, buchi e ombre, e attraverso cui costruisce le figure in cui il desiderio si articola e si capta. Sono queste figure, dice Lacan, che si prestano a far «risonare la lira del desiderio», l’erotismo. È questo il territorio privilegiato del senso, del compiacimento e dell’alimentazione del desiderio nel suo versante immaginario. Una figura, potremmo dire così, è una organizzazione di senso a opera del desiderio inconscio, a partire da macchie e ombre. «C’è un senso, dice Lacan, per coloro che, davanti al muro, si compiacciono delle macchie di muffa che si rivelano tanto adatte a essere trasformate in una madonna o in un dorso di atleta. Ma noi non possiamo accontentarci di questi sensi confusionali [sens-confusions]. In fin dei conti non servono ad altro che a far risonare la lira del desiderio, l’erotismo, per chiamare le cose con il loro nome» (p. 70).

 

Perché una tale controtendenza (che non significa abolizione o rigetto) rispetto al senso? Perché la psicoanalisi lacaniana si fonda sulla divaricazione saussuriana tra significante e significato. Se il significato è dell’ordine del consensuale, del culturale, del discorso stabilito, dell’evidenza, il significante è ciò che interrompe la comprensione e obbliga il soggetto a domandarsi “Cosa significa?”. Il significato è il luogo in cui il senso sembra riposare, depositarsi, filare liscio, mentre il significante porta con sé un’interrogazione.

 

«Voi comprendete fintantoché il significante non vi ferma. Ora, comprendere è sempre essere a propria volta compresi negli effetti del discorso» (p.147). E così Lacan ci invita a portare l’attenzione a ciò che c’è al di là del muro. Incontriamo subito l’impasse: «Al di là del muro, tanto per dirvelo subito, non c’è altro, per quel che ne sappiamo, se non quel reale che si segnala precisamente come impossibile, per l’impossibilità di raggiungerlo al di là del muro» (p. 69). Nessuna illusione, dunque, di accedere a un al di là del muro, alla manifestazione del fondamento reale. Ciò con cui siamo confrontati in quanto esseri parlanti è il muro del linguaggio. Volerne cogliere l’al di là reale richiede un certo lavoro, che è quello della scienza e, in particolare delle matematiche. La scienza moderna ha trovato il modo, con i numeri e le formule, di avere a che fare con ciò che c’è dietro il muro. Ma per il soggetto che frequenta l’esperienza analitica, che è “affetto” dal significante nei suoi equivoci, non si dà un discorso di ciò che “lavora” dietro il muro.

Che non si dia discorso, però, non significa che non si dia una certa forma di “contatto”, cosa a cui una psicoanalisi punta. Sul muro dell’essere parlante c’è infatti un “clivaggio”, «c’è qualcosa che è installato davanti, e che ho chiamato parola e linguaggio, mentre dietro qualcosa lavora, forse matematicamente» (p. 70). Un clivaggio, una sfaldatura sul muro, una fessura. Di ciò che dietro al muro lavora, qualcosa passa da questa fessura; e forse questo qualcosa ha a che fare con la formazione di certe macchie, certe increspature, certe muffe.

 

Lo sappiamo: clivaggio, faglia, beanza, divisione, ferita, sono tutti termini per dire ciò che viene messo al lavoro in psicoanalisi. Il discorso analitico interroga proprio quella faglia, quella divisione del soggetto che non si riconosce, non si realizza completamente nelle immagini che si figurano sul muro. Qualcosa lo disturba, qualcosa lo morde, qualcosa al di qua del figurato, al di qua del mostrabile, lo guasta.

 

È per tale motivo che in psicoanalisi «l’unico interesse del significante sono gli equivoci che possono scaturirne». Dall’ordine della figura, nella sua forma stabilita, attraverso la presa in carico degli equivoci di quella stessa figura, di ciò che nella figura non quadra, una psicoanalisi lavora in negativo; dalla figura alla macchia, dalla macchia alla muffa, dalla muffa alla fessura. Ci si indirizza cioè verso i punti di insorgenza della fenditura sul muro, anziché soffermarsi sulla contemplazione, o sulla riconfigurazione delle figure sul muro, e questo significa orientare un’analisi verso il reale, verso la causa materiale del proprio dire.

Quando l’equivoco significante viene messo al lavoro dall’interpretazione analitica, sua omologa, si tocca indirettamente il punto di scaturigine dell’equivoco stesso, il c’è dell’Uno del significante nella sua “natura” di surrogato, di rimasuglio parziale e informe. È per questo che in Ancora, seminario dell’anno successivo, Lacan dirà che, più che il linguaggio, il campo di lavoro di una psicoanalisi è lalangue, lalingua. Anche qui, un fonduto! Che cos’è lalingua? La fusione equivoca e crea un litorale tra la lallazione e il linguaggio articolato, oltre che richiamare il pezzo di corpo. Lacan ne dà una definizione: «Una lingua fra tante altre non è niente di più che l’integrale degli equivoci che la sua storia vi ha lasciato persistere» (Jacques Lacan, Altri scritti, p. 488).

Lalingua per Lacan è un luogo di impasti e disimpasti tra simbolico e reale, luogo in cui il significante affetta il corpo, in cui carne e parola si mescolano e si fondono, in cui l’una fonda l’altra fondendovisi. «Siamo affetti da lalingua innanzitutto in quanto essa comporta degli effetti che sono affetti. Se si può dire che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, è nella misura in cui gli effetti di lalingua, già lì come sapere, vanno ben oltre tutto ciò che l’essere parlante ha la possibilità di enunciare» (Jacques Lacan, Il seminario. Libro XX, pp. 132-133).

 

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L’Uno della psicoanalisi non è l’Uno dell’essere, della forma, della rappresentazione, ma bensì il cèd’luno, informe, in tutta la sua equivocità, qualcosa che esiste al di qua o al di là di ogni essere, punto di insorgenza di ciò che sarà figurato. Obiettivo di un’analisi è seguire le tracce del significante come Uno per metterlo «spalle al muro» (p. 148). Operazione da cui il senso stesso risulta rinnovato.

 

Il sapere che si ottiene da un’esperienza analitica non sarà dunque un sapere pieno, unitario, articolato, interamente trasmissibile, ma un sapere a pezzi, o meglio, dei pezzi staccati.

 

Questa «etica del ben dire», del ben dire quello che del significante come Uno c’è, è ciò che una psicoanalisi può «permettere di sperare»: sperare cioè di «mettere in chiaro l’inconscio di cui siete soggetti» e di «ritrovarcisi» (Jacques Lacan, Altri scritti, p. 530 e p. 526). Ritrovarcisi in ciò che, di questo Uno-tutto-solo, c’è.