approfondimenti

OPINIONI

L’odissea precaria dell’Università tra espulsioni, tagli e caos amministrativo

Gli interventi del governo sul percorso di accesso alla carriera accademica hanno reso ancora più difficile e incerto il lavoro di migliaia di precarie e precarie. Per l’autunno si prepara un nuovo sciopero per chiedere migliori condizioni e più garanzie

A distanza di tre anni dalla riforma del preruolo introdotta con la Legge n. 79 del 29 giugno 2022, il governo è recentemente tornato a mettere mano alle regole del reclutamento universitario: l’emendamento Occhiuto, inserito all’ultimo momento nel cosiddetto Decreto Scuola (Decreto Legge n. 45, 7 aprile 2025, art. 1-bis), riorganizza radicalmente le figure di accesso alla carriera accademica, svuotando la precedente riforma e compiendo un ulteriore passo nel processo di precarizzazione e ridimensionamento del sistema delle università pubbliche italiane. Molti Atenei hanno già approvato i regolamenti che attueranno presto la riforma, le cui conseguenze non sono state ancora del tutto chiarite.

Il primo e principale problema del nuovo impianto normativo, come già evidenziato, è che fa rientrare dalla finestra le figure flessibili e a basso costo che erano state messe alla porta: infatti l’originaria “riforma Bernini” del preruolo (DdL 1240), che puntava su una più estesa precarizzazione e frammentazione del preruolo introducendo ben quattro nuove figure precarie,, è stata ritirata per le mobilitazioni cresciute dall’autunno del 2024 in molti Atenei e per i rischi di “reversal” denunciati  da ADI e FLC-CGIL rispetto agli obiettivi del PNRR, in quanto le maggiori tutele della Legge 79 erano state inserite come milestone della Missione 4.

Ma un altro problema cruciale è quello della copertura economica. I nuovi contratti costano più degli assegni di ricerca aboliti (45.000 euro ca annui i Contratti di Ricerca-CDR e gli incarichi post-doc contro i 24.000 ca dell’assegno), e gli Atenei, tra tagli all’Fondo di finanziamento ordinario (FFO) e tetti di spesa imposti dalla Legge 79 e dall’emendamento Occhiuto, non potranno compensare la spesa. Ne deriverà un’espulsione massiva di ricercatrici e ricercatori, priva di ogni valutazione ex ante: secondo una stima ADI, 2090 ricercatrici e ricercatori potrebbero essere espulse/i già da quest’estate.

Colmare questo gap richiederebbe un incremento mirato dei fondi FFO destinati al cofinanziamento e l’introduzione di un meccanismo di riparto chiaro, rapido e perequativo. Ma al momento mancano entrambi: le risorse sono inadeguate e il sistema di assegnazione interno agli Atenei opaco e farraginoso.

È qui che si gioca dunque nel giro di qualche mese, nel silenzio delle governance e nella debolezza del dibattito pubblico, la partita della sopravvivenza di migliaia di ricercatrici e ricercatori precarie/i nel nostro Paese, a fronte dei patetici appelli di chi vorrebbe attrarre i talenti in fuga dagli USA per le politiche anti-accademiche di Trump – non così differenti da quelle del governo Meloni.

Dalla Legge 79/2022 all’emendamento Occhiuto: mutazioni e avvitamenti del preruolo

Nel 2022, con la Legge 79, il legislatore aveva tentato di razionalizzare e semplificare il percorso del preruolo – che oggi può durare fino a 15 o 16 anni senza alcuna garanzia di stabilizzazione. L’assegno di ricerca, contratto di lavoro parasubordinato (minimo un anno rinnovabile fino a 6) era stato riconfigurato nel 2011 dalla riforma Gelmini ed era presto divenuto il cardine del sistema di sfruttamento di migliaia di ricercatrici e ricercatori (attualmente 21.709 negli Atenei statali).

La riforma del 2022 lo aveva abolito, sostituendolo con il nuovo Contratto di Ricerca (CDR), della durata minima di due anni, rinnovabile per altri due, senza obblighi didattici e formalmente inquadrato nella contrattazione collettiva. L’obiettivo dichiarato era costruire un percorso più strutturato verso i ruoli universitari, legando il preruolo al contratto RTT attraverso una riserva del 25% nei concorsi per RTDa e assegnisti (da almeno tre anni).

D’altra parte la riforma si era da subito scontrata con due limiti strutturali: l’assenza di un finanziamento dedicato e l’introduzione di tetti di spesa che rendevano molto problematica l’applicazione effettiva dei nuovi contratti. In particolare, l’art. 6 stabiliva che la spesa per i CDR non potesse superare la media della spesa per assegni di ricerca nel triennio precedente, senza tenere conto dell’aumento dei costi dei CDR rispetto agli assegni, dovuti alle maggiori tutele.

Dopo i tentativi maldestri di varare la nuova legge di riforma del preruolo DDL 1240), il nuovo governo riesce a vanificare la Legge 79 ricorrendo alla decretazione d’urgenza: l’emendamento Occhiuto (FI), inserito all’interno del cosiddetto Decreto Scuola (DL 45/2025), introduce, in aggiunta ai CDR della 79/2022, due nuove figure:

L’incarico di ricerca (art. 22-ter): figura intermedia tra assegno e CDR, più economica e flessibile ma priva di inquadramento contrattuale. Accessibile entro sei anni dalla laurea magistrale anche senza dottorato, è un contratto parasubordinato dai contorni giuridici incerti: non è chiaro se dia diritto alla Dis-Coll come l’assegno e può essere attivato tramite conferimento diretto, risultando complessivamente peggiorativo rispetto all’assegno di ricerca.
L’incarico post-doc (art. 22-bis): riservato a dottori e dottoresse di ricerca, ha durata annuale rinnovabile fino a tre anni ed è attivabile anche con fondi esterni. Pur essendo un contratto subordinato, non è soggetto a contrattazione collettiva, non ha riserve nei concorsi RTT, la selezione avviene per titoli e resta incerta la quantità di didattica richiesta. La durata minima di un solo anno compromette ogni possibilità di progettualità scientifica e personale.

Entrambe le nuove figure introdotte, si configurano chiaramente come forme contrattuali fortemente precarie, prive di tutele, senza prospettive di progressione e segnate da una forte discrezionalità nei processi di selezione.

In definitiva, ciò che emerge è l’esatto opposto della semplificazione annunciata: il nuovo assetto produce una frammentazione ancora maggiore del preruolo, accentuando discrezionalità, disparità e gerarchie, e smantellando l’impianto razionalizzatore che la Legge 79/2022, pur con tutti i suoi limiti, tentava di introdurre. Nonostante sia ormai acclarato, vista la stabilità nel tempo del numero di precari3, che, come si argomenta in un recente saggio, “il sistema universitario abbia necessità del corrispondente apporto di lavoro nel lungo periodo e che quindi l’attività svolta a tempo determinato non corrisponda a un’esigenza temporalmente circoscritta da parte delle Università”, si torna a rendere strutturale la precarietà nel sistema, con la conseguente elevatissima “dispersione delle professionalità formatesi nel settore”.

La trappola del sottofinanziamento: tagli all’FFO ed effetto combinato tra tagli e riforma

A rendere ancora più instabile l’intero impianto del nuovo preruolo è il quadro finanziario strutturalmente insufficiente in cui si inserisce. Come segnalato da FLC-CGIL, il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) registra nel 2025 un aumento solo nominale: dopo il taglio del 2024 (pari a circa 518 milioni di euro), l’incremento del +3,7% previsto per quest’anno si rivela del tutto illusorio. Infatti, una volta considerati gli effetti dell’inflazione e gli aumenti stipendiali del personale strutturato, il valore reale dell’FFO 2025 scende al di sotto di quello del 2021, con una perdita stimata di circa il 5%.

Invece di rafforzare il sistema, il governo ha imposto dal 2026 un blocco del turnover al 75%, aggravando una crisi già profonda: l’Italia ha un rapporto studenti/docenti tra i peggiori in Europa (20 a 1) e servirebbero almeno 40.000 assunzioni solo per raggiungere la media continentale (15 a 1).

Ma anziché valorizzare il bacino del precariato, si restringe ulteriormente l’accesso, aprendo la strada a un’espulsione di massa e mettendo a rischio il futuro della ricerca e dell’università pubblica.

Il combinato disposto tra riforma del preruolo e tagli al FFO genera una gabbia finanziaria nella quale le università non possono stabilizzare, non possono garantire la continuità delle carriere, e spesso non riescono nemmeno a pianificare il futuro. Il rischio è una crisi occupazionale senza precedenti, che investe la parte più produttiva e vulnerabile della comunità scientifica nazionale: le ricercatrici e i ricercatori precari.

Abolizione ASN e divaricazione definitiva tra preruolo e ruolo

Il Ddl 1518, attualmente in discussione al Senato, rappresenta il completamento dell’emendamento Occhiuto inserito nel DL 45/2025: insieme delineano un’unica architettura normativa che interviene sia sulle figure del preruolo sia sull’accesso al ruolo. Il risultato è una divaricazione ancora più netta tra il tempo lungo del lavoro precario e il momento, sempre più accidentale e discrezionale, della stabilizzazione.

Il DdL 1518 intende superare l’Abilitazione Scientifica Nazionale, affidando la valutazione ai concorsi locali con commissioni composte da quattro membri esterni sorteggiati e uno interno. Se l’obiettivo è snellire le procedure e rafforzare l’autonomia, il nuovo assetto, come segnalato di recente da Mario Pianta, presidente della Società Italiana di Economia, aumenta il rischio di cooptazione, accresce le disuguaglianze territoriali e annulla ogni garanzia nazionale sui criteri di accesso. Contemporaneamente, le nuove figure contrattuali, incarico di ricerca e incarico post-doc non prevedono alcuna progressione verso la stabilizzazione: non maturano anzianità utile, non danno punteggio nei concorsi, non aprono alcun canale riservato.

A legittimare la nuova architettura concorrono due meccanismi distinti ma convergenti: da un lato, il richiamo al merito e alla competitività, incarnato dal Fondo Italiano per la Scienza (FIS), che – pur ispirato all’European Research Council (ERC) – premia pochissimi ricercatori attraverso chiamate dirette basate su selezioni discrezionali e spesso poco trasparenti; dall’altro lato, una spinta localistica e aziendalista che rafforza l’autonomia degli Atenei, con concorsi gestiti localmente.

Il risultato è una doppia opacità: selezione opaca nei finanziamenti centralizzati e cooptazione opaca nei concorsi locali.

Nel mezzo, nessun criterio trasparente per decidere quali carriere meritino stabilizzazione e quale valore riconoscere agli anni di lavoro scientifico svolti in condizioni di precarietà. L’università pubblica italiana si allontana così da un sistema regolato e nazionale, per avvicinarsi a un modello segmentato e diseguale che disperde risorse e competenze.

Il valore perduto: una stima economica della dissipazione del capitale cognitivo

Completa il quadro la dimensione economica del capitale cognitivo precarizzato su cui si regge da decenni il sistema universitario italiano. Oggi sono attivi circa 21.700 assegnisti di ricerca nel sistema pubblico. Se si stimano tre anni di dottorato e tre di assegno – come durata media delle carriere, anche prudente – si arriva a oltre 130.000 anni/persona di lavoro scientifico. Considerando un costo medio annuo lordo di 25.000 euro tra borse e assegni, l’investimento complessivo sulle loro carriere supera i 3,25 miliardi di euro.

Ma questa cifra rappresenta solo una parte del valore in gioco: secondo le metriche internazionali (OCSE, Commissione Europea), ogni euro investito in ricerca pubblica genera tra 2 e 6 euro di ritorno economico, sociale e tecnologico. Anche ipotizzando il moltiplicatore più basso (2x), questi ricercatori “invisibili” hanno generato almeno 6,5 miliardi di valore netto per il Paese.

A differenza delle retoriche che li descrivono come “costi da contenere”, queste carriere rappresentano in realtà la principale leva di produzione di sapere e innovazione del sistema accademico. Secondo un recente sondaggio nazionale condotto su un campione stratificato dall’ADI, solo il 2,5% delle posizioni precarie è finanziato da fondi privati, mentre il resto è coperto da PNRR (23%), PRIN (21,8%), FFO e fondi istituzionali (20,3%), fondi europei (11,1%).

Ciò significa che il sistema universitario italiano, agendo da collettore di risorse (per lo più) pubbliche, ha mobilitato permanentemente un esercito di precari per garantire la tenuta a basso costo della didattica, della progettazione competitiva e della produzione scientifica, offrendo nel contempo la possibilità alla casta degli strutturati di essere competitivi a livello nazionale e internazionale grazie a gruppi di ricerca sottopagati e privi di prospettive.

Chiaramente questo sistema a lungo andare diventa insostenibile, ma invece di fare ope legis come accaduto in passato, oggi si pensa di gettare il bambino con l’acqua sporca.

Non può essere un caso infatti se da un lato – correttamente – si raddoppia il costo dei contratti (45.000 euro ca annui di CDR e incarichi post-doc contro i 24.000 ca dell’assegno) e dall’altro si impone agli atenei di spendere le stesse risorse disponibili prima della riforma. Il raddoppio dei costi a parità di risorse significa la metà dei contratti, con un’espulsione di massa repentina e scriteriata – in senso letterale, senza criterio. Ma proviamo a quantificare questa espulsione, anche in termini di costi.

Simulando tre scenari – ottimista (20% di perdite), realistico (50%), pessimistico (70%) – si arriva a proiettare la possibile cancellazione di posizioni di ricerca per un numero che oscilla tra le 6.500 e le 15.000 unità, equivalenti a una perdita netta di attività scientifica compresa tra i 39.000 e i 90.000 anni/persona. Se monetizziamo questa perdita, parliamo di investimenti bruciati per 1,75-4,05 miliardi e di mancata produzione di valore per 3,5-8,1 miliardi, il tutto senza valutazioni preventive, mappature del fabbisogno, anagrafe delle precarie e dei precari, né piani di compensazione per gli Atenei. Una miopia drammatica, che rischia di tradursi, oltre che in una espulsione di massa, anche in una dissennata dissipazione di capitale cognitivo.

Il nodo dei cofinanziamenti: tetti di spesa, opacità istituzionale e rischio espulsione

Il cuore della crisi attuale, però, non risiede solo nell’assetto normativo, ma anche nelle prassi amministrative opache e inefficienti che abbiamo sopra menzionato.  Come emerso da una recente interlocuzione diretta tra i/le rappresentanti precari/e e la rettrice della Sapienza, il nuovo assetto si regge su una partita tecnico-contabile totalmente incerta, che rischia di produrre effetti drammatici nei prossimi mesi.

Il primo nodo riguarda il calcolo del tetto di spesa imposto agli Atenei per le nuove figure contrattuali, che in genere si suddividono in finanziamenti integrali tramite bandi di Ateneo o cofinanziamenti su bandi dei dipartimenti: la norma non armonizzata prevede da un lato (Legge 79) che non si possano superare per i CDR i livelli di spesa del triennio precedente destinati agli assegni, dall’altro (Emendamento Occhiuto) che non si possano superare per incarichi di ricerca e incarichi post-doc i livelli di spesa del triennio precedente destinati ad assegni e RTDa. Di conseguenza, non è chiaro se i tetti di spesa vadano applicati separatamente (CDR da un lato e incarichi post-doc e incarichi di ricerca dall’altro), oppure cumulativamente, con la possibilità di destinare a tutte e tre le figure le stesse risorse impiegate nel triennio precedente per assegni e RTDa.

Questa ambiguità normativa ha prodotto una paralisi nelle governance: come nel caso della Sapienza, i vertici amministrativi non sono in grado di definire un criterio operativo e rinviano ogni decisione in attesa di istruzioni dal MUR, che però non arrivano. Il rischio è che, di fatto, si imponga un’interpretazione restrittiva e cumulativa, che accorpi tutte le figure in un unico tetto escludendo dal computo i contratti finanziati con fondi PNRR, finendo per ridurre drasticamente la capienza finanziaria disponibile per i contratti 2025. Si tratta di un ritardo che va ad aggravare la crescente urgenza data dal rischio concreto di espulsione per migliaia di ricercatrici e ricercatori a causa dei costi accresciuti dei nuovi contratti.

Il secondo nodo riguarda invece i criteri interni di ripartizione dei fondi tra dipartimenti, stabiliti autonomamente da ciascun ateneo. Alla Sapienza, ad esempio, la quota di cofinanziamento destinata ai dipartimenti viene suddivisa per metà in base alla “qualità della ricerca” prodotta dal dipartimento e per metà al numero di posizioni attualmente aperte. Ma questo criterio, che dovrebbe riflettere il fabbisogno reale sulla base dello storico del precariato, finisce per seguire logiche interne di potere accademico, più che il valore o la continuità delle carriere coinvolte.

Inoltre, la riforma del preruolo avrebbe richiesto una revisione di questi criteri, in ragione dell’introduzione delle nuove figure contrattuali, ma gli atenei non hanno avviato alcun processo di aggiornamento. Il risultato è un sistema che naviga a vista, in cui ogni decisione – o rinvio – rischia di escludere migliaia di ricercatrici e ricercatori senza alcuna valutazione di merito né di necessità.

Difendere l’università pubblica, dalla base della piramide

In questo scenario, la posta in gioco va ben oltre la condizione del precariato della ricerca. È l’università pubblica, nella sua interezza, a essere sotto attacco. Siamo di fronte a una strategia di lungo periodo che mira a ridurre l’università pubblica a pochi poli di eccellenza, comprimere la spesa precarizzando la forza lavoro e smantellare ciò che non serve al mercato, aprendo praterie alle università telematiche e ai privati. Un disegno che non parte dall’alto, ma dalla base, prosciugando la linfa vitale del sistema, tagliando fuori le ricercatrici e i ricercatori, ovvero le energie che oggi garantiscono la tenuta della didattica e della produzione scientifica del sistema pubblico.

Difendere l’università pubblica significa contrastare questo disegno pretendendo misure d’urgenza, stabilizzazioni e una riforma realmente organica del sistema universitario.

Per avviarci in questa direzione avanziamo richieste precise e immediate:

  • L’istituzione tempestiva di un fondo compensativo nazionale per il cofinanziamento dei contratti di ricerca, gestito con criteri trasparenti, perequativi e orientati al fabbisogno reale, volto a scongiurare nel breve periodo le espulsioni massive di assegnisti e RTDa in scadenza.
  • L’istituzione immediata di un’anagrafe pubblica delle carriere individuali, per valutare l’impatto delle riforme e orientare l’allocazione delle risorse; oggi questa ricostruzione è impossibile, perché nei bilanci degli atenei la spesa per il lavoro precario è iscritta nella voce “beni e servizi”, la stessa che comprende la cancelleria, per intendersi – un segno, non solo simbolico, dell’indifferenza sistemica verso il lavoro scientifico precario.
  • L’adozione del piano straordinario di reclutamento proposto dalla FLC CGIL, che prevede 40.000 stabilizzazioni su base pluriennale come unica alternativa all’espulsione di massa.
  • La revisione dei criteri di riparto interno dei fondi, affinché tengano conto dello storico delle posizioni attivate, dei fabbisogni effettivi e delle carriere interrotte, e superino le  logiche spartitorie basate solo sul peso dei docenti strutturati.
  • Il riconoscimento del lavoro scientifico, formativo, di terza missione e organizzativo svolto dalle precarie e dai precari, che oggi garantisce la continuità e tenuta dell’attività accademica in tutti gli atenei.
  • Semplificazione del preruolo, riduzione del limite di anni di precarietà e introduzione di piani ordinari di reclutamento con periodicità certa che tengano in equilibrio riconoscimento dell’esperienza maturata e inserimento di ricercatrici e ricercatori più giovani.

Si tratta di rivendicazioni che hanno le proprie radici nel lavoro svolto negli ultimi mesi dalle assemblee precarie universitarie – come l’assemblea nazionale di Bologna (8-9 febbraio 2025) e il collegato Manifesto. Alcune di queste rivendicazioni sono confluite nella mobilitazione del 12 maggio 2025, quando in oltre 20 città docenti, dottorandi/e, assegnisti/e, personale tecnico-amministrativo e studenti sono scesi/e in piazza per scioperare.

Ma quanto fatto finora dev’essere solo l’inizio di una mobilitazione più vasta che miri a ottenere adeguati finanziamenti all’università pubblica e una sua riforma organica che cancelli il lavoro precario in ogni comparto. In vista di un prossimo sciopero generale dell’università da costruire, serve rilanciare il conflitto, intessere alleanze trasversali, riaprire spazi di confronto e di organizzazione, dentro e fuori i dipartimenti. Questo significa convergere con le altre realtà colpite dalla precarizzazione e dai tagli: il mondo dell’arte e della cultura, la scuola, il giornalismo e l’informazione. Per definire i contorni di questa convergenza, è necessario inquadrare lo smantellamento di questi spazi all’interno di una manovra globale di corsa al riarmo e finanziamento bellico.

Per quanto riguarda l’università, la centralità di questo “progetto di morte” all’interno delle politiche italiane e europee ha compromesso la ricerca di base, costringendola al dual use e integrandola progressivamente nel sistema economico e tecnico-scientifico della guerra. Ma le conseguenze delle logiche di riarmo e di reindirizzamento dei fondi sono nefande anche nel mondo dell’arte e della scuola, colpite anch’esse da tagli e minacciate da logiche di militarizzazione. La battaglia che ci aspetta, dunque, non è una vertenza settoriale. È una battaglia per il futuro dell’università democratica e del mondo della cultura in generale, contro l’economia di guerra e il modello politico che la sostiene.

L’immagine di copertina è di Jacopo Clemenzi

SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS

Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno