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L’inflazione da profitti: una sfida per i lavoratorx

Dopo la fase più dura della gestione della pandemia, l’inflazione è tornata prepotentemente nelle nostre vite: una recensione a due volumi che affrontano questa questione: “L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo” e “Oltre le banche centrali. Inflazione, diseguaglianza e politiche economiche”

L’economia dominante ha cancellato il problema dell’inflazione per quanto riguarda il funzionamento delle economie a capitalismo avanzato. Gli ultimi 30 anni di bassa inflazione sembravano confermare questa tesi ma, spiazzando le banche centrali, dopo la fase più dura della gestione della pandemia è tornata prepotentemente nelle nostre vite. Questo nuovo scenario ha prodotto un dibattito molto vivace a sinistra che si è sviluppato attraverso giornali, siti e libri. Prenderemo in considerazione due volumi che affrontato questa questione: L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo e Oltre le banche centrali. Inflazione, diseguaglianza e politiche economiche.

Il primo dei due volumi è un lavoro collettivo uscito per Punto Rosso nel 2023 e raccoglie dei materiali inizialmente pensati per dei corsi sindacali della FIOM CGIL in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Gli autori sostengono la tesi della greedflation, cioè l’attuale fenomeno inflattivo è causato principalmente dai profitti delle imprese.

A sostegno di ciò forniscono una quantità non irrilevante di dati. Per esempio, Giacomo Cucignatto e Nadia Garbellini cercano di dimostrate come gli aumenti dell’energia, in particolare il gas naturale non siano sufficienti per spiegare l’attuale livello dell’inflazione. Ritengo sia importante specificare perché è importante analizzare le variazioni del prezzo dell’energia a partire dal gas.

Parliamo della tecnologia marginale, cioè più costosa, che incide sul prezzo delle tecnologie meno costose, cioè inframarginali, come l’energia rinnovabile o il nucleare sul mercato all’ingrosso dell’energia. Ad aggravare questo scenario, dobbiamo aggiungere che il suo prezzo è fortemente determinato da dinamiche speculative. Come spiega Alessandro Volpi nel suo libro Prezzi alle stelle. Non è inflazione, è speculazione, l’impennata del prezzo del gas e del petrolio è figlio delle scommesse al rialzo successive alla ripresa post-pandemia.

Il prezzo del gas, ad esempio, è solo in parte determinato da oneri di sistema, cioè forme di prelievo fiscale. Un ruolo primario, infatti, è ricoperto dall’azione di fondi speculativi che non hanno alcun legame con la vendita o l’acquisto di gas che fanno partire le loro scommesse al rialzo se, ad esempio, lo scoppio di un conflitto potrebbe far presagire una carenza del gas in Europa. Tutto viene deciso al mercato di Amsterdam, all’ormai famoso Ttf, e senza tenere effettivamente conto del prezzo di mercato. 

Sono l’altra faccia della medaglia del basso costo delle materie prime degli ultimi 20 anni nonostante l’aumento del loro consumo da parte delle economie emergenti. La finanza scommetteva al ribasso perché puntava sulla loro capacità di produrre merci a basso costo per il mercato mondiale.

Cucignatto e Gabriellini nelle loro analisi tengono in considerazione i settori maggiormente colpiti dall’aumento del prezzo del gas e il paniere, dove maggiore è il peso delle merci colpite da questo aumento e maggiore sarà il tasso d’inflazione.

«La branca interessata dal maggior aumento di prezzo è la fornitura di energia elettrica e gas (+37.2%) seguita dalla metallurgia (+20.9%), dalla chimica (+12.5%) e dal magazzinaggio e logistica (+9.6). […] se utilizzassimo come paniere la composizione del Pil italiano nel 2018, otterremmo un tasso di inflazione – conseguente a un aumento del 500% del prezzo del gas – pari al 3.54%. Se invece scegliessimo di calcolarlo come variazione del prezzo dei consumi finali delle famiglie (che è diverso dal paniere definito da Istat come base per il calcolo dell’indice dei prezzi al consumo) otterremmo il 3.51%. Infine, se il paniere di riferimento fosse il consumo finale del governo, otterremmo un tasso di inflazione pari al 4.42%. Nello stesso periodo da noi considerato (dal 2018 al 2022), per contro, l’IPCA è cresciuto dell’11.4% (da 102.5 a 114.2), il FOI del 10.2% (da 102.2 a 112.6), e il NIC del 10.7% (da 102.3 a 113.2). L’IPCA depurato, stando al comunicato Istat del 7 giugno 2022, dovrebbe essere cresciuto cumulativamente del 7.5% circa. Poiché i salari nominali non sono certo aumentati, resta da concludere che a crescere siano stati i margini di profitto, con un ulteriore spostamento della distribuzione del reddito in favore del capitale» [AA.VV., L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo, Punto Rosso, Milano 2023, pp. 135-137].

Ne consegue che l’aumento dei costi di produzione non è sufficiente per spiegare l’inflazione odierna. Possiamo quindi parlare di inflazione da profitti nel momento in cui le persone hanno iniziato ad incorporare l’inflazione e il prezzo del gas e ad attendersi dei rincari, non sorprendendosi quando ciò è effettivamente avvenuto.

Questi dati smentiscono ampiamente la tesi del pericolo della spirale prezzi-salari. L’inflazione è una conseguenza delle imprese o di altri soggetti economici che scelgono di aumentare i prezzi, mantenendo costante il mark up a prescindere dalla stabilità dei volumi produttivi. Ovviamente le imprese non sono tutte uguali. Bisogna tenere in considerazione la loro posizione sul mercato. Per esempio, chi opera in regime di oligopolio ha un potere sul mercato che permette di aumentare o mantenere costante i margini di profitto anche in presenza di incertezze o un aumento dei costi di produzione. Questo è un lusso che non possono permettersi le PMI che operano in mercati molto competitivi, con minori potenzialità produttive, che vedono ridursi i margini di profitto e talvolta finiscono per fallire e alimentare i processi di centralizzazione del capitale. Ovviamente non stiamo tenendo in considerazione la variabile lotta di classe. Le mobilitazioni dei lavoratori possono contrastare il tentativo, per il momento riuscito, di scaricare sulle loro spalle i costi dell’inflazione. Possiamo aggiungere che anche un governo amico dei lavoratori può fare la differenza in questo gioco. Se volgiamo lo sguardo alla Spagna noteremo una diversa gestione dell’impennata dei costi energetici. Il governo spagnolo ha imposto al mercato all’ingrosso dell’energia un tetto di 40 euro/Mwh al gas, producendo una riduzione degli extraprofitti delle imprese legate all’energia rinnovabile o nucleare. La differenza del prezzo di gas sul mercato europeo e quello praticato ai consumatori viene compensato con degli aumenti in bolletta che sono in ogni caso inferiori alla riduzione del costo delle altre fonti energetiche. Infine, più la bolletta è figlia di una diversificazione delle fonti energetiche, minore sarà il costo per i consumatori.

L’analisi di Esposito e Gaddi prosegue analizzando i bilanci delle imprese italiane del settore metalmeccanico tra il 2017 e il 2021.

«L’incidenza dei costi delle materie prime è aumentata di quasi 1,6 punti percentuali, mentre quella del lavoro è calata di 0,62 punti percentuali. Questa divaricazione si fa ancor più marcata tra il 2020 e il 2021: mentre l’incidenza dei costi delle materie prime passa dal 53,31% al 56,77% (con un incremento di 3,46 punti), quella dei costi del personale passa dal 16,95% al 15,09%, con un decremento di 1,86 punti. Anche rispetto al 2019 questa divaricazione tra l’incidenza del costo delle materie e del personale è piuttosto evidente: mentre quella delle prime cresce di 2,97 punti percentuali, quella del lavoro cala di 1,32 punti. […] A fronte di un incremento di circa il 30% del valore della produzione, i margini crescono in misura maggiore e, soprattutto, gli utili mostrano un andamento fortemente espansivo, tanto da segnare un aumento vicino al 100%. Al contrario i costi complessivi del personale segnano un incremento molto modesto, pari a poco più dell’11%.

[…] mentre cresce l’incidenza dei costi delle materie prime (+4,43 punti percentuali), cala quella dei costi del personale (-2,19 punti). Come si nota, sia per le materie prime che per i costi del personale è il biennio 2020-2021 a segnare la differenza più marcata e il fatto che il calo dell’incidenza del costo del personale avvenga dopo il 2020 (cioè l’anno di esplosione della pandemia, quando per la chiusura temporanea di molte imprese vi fu un massiccio ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni) è un segnale molto chiaro di come le imprese abbiano iniziato a rispondere all’inazione per salvaguardare i propri margini di profitto. Le altre grandezze variano in misura meno significativa: aumentano di pochissimo gli ammortamenti, segno di una scarsa dinamica di investimento da parte delle imprese di questo settore, e cala di 0,17 punti l’incidenza degli oneri finanziari”[Ivi, pp. 159-160].

Questo significa che le imprese hanno accumulato talmente tanti profitti da aver ridotto la necessità di ricorrere a finanziamenti per le loro attività.

Per quanto riguarda il rapporto tra inflazione e banche centrali, Lorenzo Esposito, Roberto Lampa e Gianmarco Oro criticano le modalità di gestione dell’inflazione di cui stiamo attualmente pagando le conseguenze. Le proposte pratiche che la teoria dominante suggerisce alle banche centrali sono pragmatiche e consentono, ex post, alle banche e ai governi centrali di individuare una linea d’azione corretta. Gli autori citano la crisi del 2007-2009 che non era stata prevista ma negli anni successivi sono state elaborate delle misure capaci di contenerla. Questo schema è basato su ipotesi di agente rappresentativo che non prevede argomenti come il conflitto distributivo e la moneta non svolge alcun ruolo, essendo considerata un puro numerario. Per questo motivo l’inflazione non viene sufficientemente trattata nei manuali di microeconomia, anche i più dettagliati. 

L’alternativa è il conflitto distributivo, ovvero, la consapevolezza che l’instabilità monetaria è una conseguenza di quella sociale. In quest’ottica l’aumento dei prezzi è un modo per ristabilire condizioni di accumulazione più favorevoli al capitale in una fase di rigidità dei salari verso il basso. Un secondo modo è la disoccupazione. Entrambe queste strategie passano le scelte delle banche centrali. Aumentando il costo del denaro possono incidere negativamente sugli investimenti e di conseguenza l’occupazione. Uno dei rischi dietro il costante aumento dei tassi d’interesse. L’atteggiamento prudente verso queste politiche che emerge dagli articoli dei giornali economici o dai rappresentati della BCE, invece, ci porta in dote un altro insegnamento. La lotta all’inflazione non deve comportare la perdita di condizioni competitive per le imprese e per garantire l’accumulazione di capitale.

L’analisi critica del libro scritta da Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri, Zwischen den zeiten. Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell’inflazione, uscita nel dicembre 2023 su Officina Primo Maggio, aggiunge ulteriori elementi a questa analisi. In primo luogo, le svolte delle banche centrali, dopo un’iniziale prudenza davanti all’infiammata inflazionistica, è determinata dalla perdita di credibilità per non aver previsto l’inflazione e soprattutto dal tentativo di evitare che la ripresa della domanda, con un’offerta gessata, diventasse un aumento dei salari in un contesto di aumento dell’occupazione. Per questo, come sostenuto da Christian Marazzi [Le banche centrali hanno paura del contagio delle lotte operaie e sociali, Il Manifesto 17/03/2023], prende corpo un tentativo di stroncare sul nascere la lotta dei lavoratori.

Non è un fatto insolito. Bellofiore e Coveri sostengono che le banche centrali abbiano accompagnato l’ascesa del neoliberismo che loro chiamano sussunzione del lavoro alla finanza e al debito.

Negli anni ‘70 le banche centrali non comprarono più sistematicamente i titoli del Tesoro, contribuendo ad aumentare il peso del mercato delle obbligazioni, a cui si sommano la riduzione dei tassi d’interesse e l’inflazione degli asset alimentate da queste politiche a favore della finanza. Tutto ciò rientra nel filo conduttore che ci riporta ai giorni nostri, ovvero nella guerra di classe che toglie il potere ai lavoratori.

Francesco Saraceno in Oltre le banche centrali. Inflazione, diseguaglianza e politiche economiche, sostiene che l’alta inflazione di fondo in presenza di prezzi energetici in calo può essere spiegata anche con una riallocazione della domanda che dipende dai cambiamenti nei consumi che crea divergenze settoriali tra domanda e offerta. Per questo motivo servono politiche industriali che nel breve periodo intervengano per tappare le penurie temporanee e i settori colpiti da shock con incentivi fiscali, politiche attive del lavoro e la regolamentazione del mercato.

Viene portato l’esempio dell’applicazione del Defense Production Act negli USA come suggerito da Regmi e Stiglitz per contrastare l’inflazione e la disoccupazione nel settore dell’auto riorientando i semiconduttori da settori meno importanti per la tenuta occupazionale come la produzione di smartphone. Un altro esempio di regolamentazione del mercato possono essere mirate politiche di controllo dei prezzi. Dopo il secondo conflitto mondiale vennero attuate queste misure per contrastare le speculazioni, l’inflazione e le diseguaglianze in attesa del ripristino della capacità di produzione. Se ci pensiamo bene, venne attuata una politica di questo tipo, sostiene sempre Saraceno, durante la pandemia per regolamentare il prezzo delle mascherine in attesa dell’adattamento della capacità produttiva in funzione della nuova domanda.

Un’ultima misura attuabile è la tassazione degli extraprofitti per contrastare l’inflazione, abbassare il livello dei prezzi e aumentare i salari.

Francesco Saraceno giudica insufficienti le tasse sugli extraprofitti perché non hanno ridotto i profitti ma hanno fissato una soglia per il contributo di solidarietà superato un determinato prezzo. La tassa andrebbe calibrata sul profitto in eccesso che è una forma di rendita ma evitando di penalizzare le spese per gli investimenti e gli incrementi di produttività. Questi quesiti rientrano tutti una domanda finale: Chi deve pagare l’inflazione?

L’alternativa è far pagare i costi dell’inflazione ai lavoratori, continuando sulla strada della restrizione monetaria che deprimerà l’economia con il conseguente aumento della disoccupazione. Questa riflessione finale ci porta a un ultimo punto sostenuto da Bellofiore e Coveri. Tutti sono d’accordo nel sostenere strumenti con il controllo dei prezzi o la scala mobile, i quali hanno bisogno di rapporti di forza favorevoli ai lavoratori e alle loro organizzazioni. Tuttavia, riprendendo la parte finale del lavoro di Francesco Saraceno, l’inflazione è destinata ad accompagnarci per molto tempo a causa delle sfide della transizione ecologica. Parlare di alternativa alla stretta monetaria significa allora proporre una serie di politiche industriali volte ad affrontare l’inflazione ricostruendo delle catene del valore più snelle, resilienti e possibilmente orientate alla transizione ecologica. Insomma, dobbiamo riaprire la finestra del Next Generation EU chiusa dall’invasione russa dell’Ucraina.

Immagine di copertina da Flickr